Ventimila battute sotto i mari
Sulla spiaggia
Non avevo mai visto un morto, da così vicino.
Ci sbattei quasi contro. Poteva avere vent’anni, forse meno. Completamente nudo, riverso bocconi sulla spiaggia, le gambe in acqua, le braccia disposte come lancette di un orologio fermo sulle dodici e un quarto o sulle tre in punto. Un granchio aveva preso possesso della sua schiena e caracollava avanti e indietro con aria spavalda, le chele ben aperte e minacciose. I capelli sembravano brizzolati, ma a guardarlo meglio era solo l’effetto della sabbia, bianchissima, penetrata a fondo fra i ricci del giovane.
Non credevo ai miei occhi. Mi guardai intorno ma non vidi nessuno. Sulla spiaggia a quell’ora eravamo soli, io e lui. Poi, quasi senza rendermene conto, mi ritrovai a tirarlo in secco, sulla sabbia asciutta. Per farlo, scagliai lontano la manciata di conchiglie e scheletri di riccio che avevo raccolto, così importanti fino a pochi minuti prima. Mi sembrò leggerissimo, lo trascinai per qualche metro, cacciai via il granchio e lo ripulii da un fascio di alghe verdi e nere che gli ricopriva le gambe. Un paio di gabbiani ci osservavano, volando sopra di noi, in silenzio.
Fu in quel preciso istante che aprì gli occhi, mi guardò e balzò in piedi, crollando poi in ginocchio, in un solo complesso movimento. Sentii nell’aria un urlo disumano, era il mio, ero stato io a gridare.
– Sei… Inshallah… sei vivo allora?
Urlai ancora. Avevo fatto anch’io un salto all’indietro, finendo seduto a terra, su un mucchio di alghe, polistirolo e bottigliette di plastica.
Il giovane rigurgitò e mormorò qualcosa, guardandosi le mani. Non capivo la sua lingua. Poi mi scrutò per un attimo, si voltò verso l’acqua azzurra alle sue spalle, poi nuovamente verso di me e aggiunse, stavolta in francese:
– Che mare è questo?
Ora potevo capirlo, e il suo tono era disperato. La paura mi abbandonò in un attimo, come risucchiata via da un potente aspirapolvere.
– Ouled… Olued Benayed, Algeria. E tu? Da dove vieni? E perché sei nudo?
Aggrottò le sopracciglia, poi sgranò gli occhi, incredulo. Mi avvicinai e mi sedetti a pochi metri da lui. Si raggomitolò, coprendosi il pube con le gambe.
– Io… vengo dall’Europa. E i vestiti li avevo.
Lo zainetto. Ci misi almeno un minuto a ricordare dove fosse. Presi il costume di riserva e glielo porsi. Lo infilò senza parlare, poi annuì, come a dire grazie.
– Ho dell’acqua, hai sete?
– Disperatamente – Sussurrò, quasi fra sé e sé, e aprì la bocca, le labbra screpolate e fessurate. Tracannò tutta l’acqua in un solo sorso, senza fermarsi.
– dall’Europa dove?
– Spagna. Ma.. è stata solo l’ultima tappa.
– Eri solo? Avevi una barca?
Il ragazzo alzò lo sguardo e mi fissò.
– Non mi denuncerà, vero? Io indietro non ci torno. Piuttosto mi ammazzo.
Scossi la testa, cercando di rassicurarlo. Il mare al contrario si era fatto minaccioso, le onde si erano alzate e sbattevano sulla spiaggia con fragore crescente.
– No. Stai tranquillo, una soluzione la troviamo. Ho tanti amici in paese, e in moschea.
Lo vidi rilassarsi. Era ancora seduto, ormai asciutto. Gli allungai un telo da mare, se lo tirò sulle spalle. Con le mani scosse via parte della sabbia dai capelli. A guardarlo bene ora, era castano chiaro, quasi biondo. Con il costume e il telo da mare addosso poteva sembrare un bagnante in villeggiatura. La materializzazione di un ricordo. Di turisti bianchi a Ouled Benayed non se ne vedevano più da almeno vent’anni.
– Vengo da un piccolo paese vicino a Bergen, un centinaio di chilometri da Oslo. Ho attraversato l’Europa da nord a sud, ci ho messo due anni.
– Da solo?
Scosse la testa e guardò a terra, gli occhi si velarono.
– No, eravamo una ventina, almeno all’inizio. Ero con la mia famiglia, mia madre, mio padre, mia sorella, con i figli. Sono tutti morti.
– Mi dispiace… mi dispiace molto – Non sapevo cosa dire. Avevo ascoltato talmente tante di queste storie alla televisione, e ora, ora non trovavo le parole.
– Lungo la strada si sono uniti altri, danesi, finlandesi, polacchi, tedeschi. Eravamo centinaia. Arrivati sulle Alpi ci siamo divisi in gruppi più piccoli, per non farci notare. E’ stato lì, durante la traversata, che li ho persi.
– Forse sono ancora vivi? – abbozzai – Forse sono finiti in un campo.
Sapevo che in Francia e in Italia erano stati allestiti campi profughi immensi, dove sopravvivevano, praticamente reclusi, centinaia di migliaia di migranti. Avevo letto che le famiglie si perdevano di vista, pur vivendo i familiari a poche centinaia di metri.
– Vorrei fosse vero – si mise la testa fra le mani – i miei genitori sono morti congelati nella neve, li ho sepolti io stesso. Mia sorella e i nipoti, non so, non possono avercela fatta. Dio solo sa quanto vorrei fossero vivi….anche prigionieri a Caprera, ma vivi!
– Caprera. Avevo sentito parlare del famigerato campo di Caprera. Si diceva che centinaia di migliaia di profughi vivessero in un quel circo degli orrori da anni, senza speranza di uscirne. Finanziato dagli Stati africani che si affacciavano sul Mediterraneo, era di fatto un immenso carcere all’aperto, dove venivano condotti tutti i migranti sorpresi nel tratto di mare tra Gibilterra e il Marocco o tra l’Italia del Sud e la Libia, Tunisia e Algeria.
Mi resi conto che non conoscevo neanche il suo nome.
– Mi chiamo Abdessatar. Vivo a pochi chilometri. E tu?
Esitò, si strinse nell’asciugamano. Guardò il mare, sempre più mosso, le onde di un blu scuro.
– Erik. Il mio nome è Erik.
Gli porsi la mano destra, la strinse senza forza. Lo tirai su.
– Vieni, Erik. La mia auto è al parcheggio, sono dieci minuti a piedi. È una Toyota blu. Nasconditi e aspettami fuori, a lato della strada.
Quando ti passo davanti e rallento, corri, monta dietro e sdraiati sul fondo dell’auto, che non ti veda nessuno.
Marko Pelle
21.08.2019
immagine Salvator Rosa, Ulisse e Nausicaa, 1661, Cosenza, Galleria Nazionale Palazzo Arnone
Marco Tosi