Inseparabili

Ventimila battute sotto i mari
 
Inseparabili

 

L’importante era praticare una lentezza metodica e costante; del resto si sa che se si prova ad accelerare in questi casi non ne esce niente di buono. Senza fretta, meglio fare piano, ma bene, che essere costretti a fermare e ricominciare, perdendo tempo. Il movimento della mandibola doveva essere deciso e uniforme ma, quando ne sentiva la necessità, una pausa tecnica garantiva che il bolo cartaceo si impregnasse di saliva e acquisisse quella morbidezza necessaria ad affrontare l’ultimo passaggio, la deglutizione, senza eccessivi attriti. Un piccolo scatto della lingua e giù: riusciva a sentirlo mentre si faceva strada nell’esofago fino ad arrivare alla meta. I crampi sarebbero arrivati dopo, e le brevi fitte allo stomaco non avrebbero tolto davvero nulla a quel sistematico piacere.

Le pagine dei vocabolari erano le sue preferite, così sottili, leggere, a tratti quasi croccanti; i gialli Mondadori degli anni sessanta erano invece un po’ allappanti e con un retrogusto di affumicato, non ne poteva tollerare più di uno al giorno. Le copertine cartonate e quelle in finta pelle invece le stava mettendo per il momento da parte, ci sarebbe stato bisogno di un trattamento particolare. Con le riviste andava un po’ meno bene, troppe foto patinate, e poi in fondo non erano tanto il suo genere.

Era seduto a gambe incrociate sul pavimento del monolocale di periferia che aveva ereditato dalla madre; anche se a onor del vero tra il suo sedere e quelle piastrelle economiche dai colori sconvenienti c’erano non meno di dieci o undici strati di volumi disposti in bell’ordine, con una precisione che neanche un parquettista con trent’anni di esperienza; senza lasciare neanche un buchetto, giostrando tra volumi di enciclopedie, tascabili, libri illustrati e certi libretti di poesie in formato mini di cui possedeva l’intera collezione. Strati perfetti, che davano alla sua seduta un’elastica e accogliente morbidezza E come gli piaceva questo raffinato lavoro di mosaico, si creavano accostamenti inconsueti; libri e autori che sembravano non avere nulla in comune si ritrovavano vicini, e non poteva essere un caso. Allora doveva fermarsi e capire perché era successo, li sfogliava in parallelo, declamava pezzi alternati e mai, mai una volta era capitato che non trovasse un legame. Era un’epifania improvvisa, che si imponeva con una nitidezza invadente e inoppugnabile. Certo, a ogni strato il soffitto si avvicinava ogni volta un po’ di più. Spazio però ce n’era ancora, e in abbondanza.

A un certo punto era stata una necessità: da tempo non c’entravano più nelle librerie, né sotto il letto; la vasca da bagno era piena ben oltre il bordo, le pile accumulate davanti alla finestra ormai non permettevano più di aprire gli scuri e i vetri e la luce filtrava a malapena, anche se in realtà, questo era davvero l’ultimo dei problemi. A lui ne bastava così poca. Anche il frigo e il forno e la dispensa avevano esaurito velocemente la loro ridicola capienza, l’armadio era stato il primo a esaurirsi; del tavolo non ne parliamo neanche.

Ma andava comunque tutto bene, il lavoro di mosaico era appagante, il soffitto era alto 2 metri e 70 e aveva occupato, sì e no, un metro. O meglio, era andato tutto bene finché quella pettegola della signora Schiattini non l’aveva preso di punta. Che poi quella vecchia idiota non era nemmeno l’amministratrice del palazzo, era la moglie dell’amministratore, quindi proprio non si capiva con che autorità cercasse ogni volta di intrufolarsi a casa sua, sbirciando attraverso gli occhiali spessi, con quei suoi occhietti piccoli e cattivi. E pure un po’ strabici, che non sapevi mai dove e cosa esattamente stesse guardando, con la fronte aggrottata e la piega della bocca rivolta all’ingiù, le labbra una ferita sottile e incolore.

Di solito quando qualcuno suonava il campanello non apriva, anzi non si avvicinava proprio alla porta. La Schiattini però lo sapeva che c’era, e insisteva, e suonava, e chiamava, con quella voce, acuta e tagliente. Se proprio doveva aprire, in genere aveva l’accortezza di chiudere la porta della stanza, in modo che quell’imbecille potesse sfogare la sua curiosità solo sull’ingresso. Quella volta però la porta era rimasta socchiusa e lui aveva dimenticato di posare il libro che aveva in mano. La mano ossuta della Schiattini si era avventata con foga proprio su quella prima edizione delle poesie di Cesare Pavese; una zampa giallastra dalle nocche sporgenti e grinzose, le unghie smaltate di un colore sgargiante assolutamente improprio. «Eh! Tutta questa cartaccia! Ma lo sa che gli inquilini si lamentano? C’è un’invasione di insetti, e qualcuno li ha visti uscire da sotto la sua porta» aveva ripetuto più volte. Lui aveva difeso il volume con fermezza, ma questo aveva consentito a quell’imbecille di allungare il collo in direzione della stanza farfugliando frasi sconnesse in cui c’entravano l’ufficio di igiene, la ASL, i pompieri, la polizia e quant’altro.

Certo non era la prima volta che era venuta a seccarlo; per esempio quando erano morti a distanza di pochi giorni i due gatti obesi che gli aveva lasciato la madre aveva combinato un altro putiferio, solo perché li aveva tenuti nel terrazzino per una settimana e i piccioni avevano invaso il cortile. Quella volta però l’aveva vista particolarmente agitata, era riuscita a lanciare uno sguardo di sbieco nella stanza, attraverso la porta colpevolmente socchiusa e aveva pronunciato quelle parole. «Se ne dovrà liberare, oppure chiamo i carabinieri» aveva detto scandendo bene le parole. Liberarsi. Che espressione miserabile, neanche si trattasse di un’occlusione intestinale. E anche stavolta l’aveva ripetuto più e più volte. Non era capace di dire le cose una volta e basta. A lei la sua voce evidentemente piaceva.

E così alla fine, e dai e dai c’era riuscita, l’aveva fatto arrabbiare davvero. E così quando si era ripresentata due giorni dopo l’aveva fatta entrare e aveva dovuto colpirla più volte con la sedia rotta, quella che teneva appoggiata alla parete vicino al campanello, soprattutto alla testa, anche per metterla a tacere subito. Con quella voce che si ritrovava. E così era stato costretto a chiudere anche lei nel terrazzino, ma questa volta ben impacchettata con le tovaglie di plastica, che se no questi piccioni, si sa come fanno, sporcano.

E poi si era messo all’opera. Giorno e notte senza sosta. Prima o poi sarebbero arrivati, ma non avrebbe lasciato nulla dietro di sé. Strappò la pagina 212 del vocabolario latino, e la fece a listarelle, pregustando il tocco lieve sulla lingua. Sentiva di meritare un piccolo extra anche se la guida sentimentale di Lisbona era ancora a meno di metà. Prima di ficcarsela in bocca guardò la prima parola in alto nella pagina, damnatio, -onis, femminile, terza declinazione: dannazione.

Grande come una città
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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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