Aboliamo le prigioni?

In gran parte del mondo si dà per scontato che chiunque sia stato giudicato colpevole di un reato grave vada in prigione. In alcuni paesi – compresi gli Stati Uniti – dove la pena capitale non è ancora stata abolita, un numero piccolo, ma significativo, di persone è condannato a morte per quelli che sono considerati crimini particolarmente efferati. Molti conoscono la campagna per l’abolizione della pena di morte, che in effetti è già stata abolita in quasi tutti i paesi. Persino i più strenui sostenitori della pena capitale ne riconoscono gli aspetti controversi, e sono davvero pochi quelli che non riescono a immaginare che si possa vivere senza di essa.

Il carcere, viceversa, è considerato un elemento inevitabile e permanente della nostra vita sociale. I più rimangono sorpresi nel sentire che anche il movimento per l’abolizione delle prigioni ha una lunga storia, risalente addirittura alla comparsa del carcere come principale forma di punizione.

La reazione più naturale è quella di presumere che questi attivisti – persino coloro che si autodefiniscono consciamente «attivisti contro il carcere» – mirino semplicemente a migliorare le condizioni carcerarie o magari a riformare le prigioni in maniera più radicale. Quasi ovunque, abolire il carcere appare semplicemente impensabile e inverosimile. Gli abolizionisti vengono liquidati come utopisti e idealisti le cui idee sono, nel migliore dei casi, irrealistiche e impraticabili e, nel peggiore, sconcertanti e insensate. Ciò dà la misura di quanto sia difficile immaginare un ordine sociale che non sia fondato sulla minaccia di relegare certe persone in posti orribili allo scopo di separarle dalle loro famiglie e comunità.

Il carcere è considerato talmente «naturale» che è estremamente difficile immaginare che si possa farne a meno. Spero che questo libro incoraggi i lettori a mettere in discussione i loro preconcetti a proposito del carcere. Molti sono già arrivati alla conclusione che la pena di morte è una forma antiquata di punizione che viola i principi basilari dei diritti umani. Penso che sia venuto il momento di incoraggiare un dibattito analogo sul carcere. Nel corso della mia carriera di attivista contro le prigioni, ho visto crescere la popolazione carceraria statunitense con una rapidità tale che ormai molti membri delle comunità nere, latinoamericane e di nativi americani hanno molte più opportunità di finire in galera che di ottenere un’istruzione decente. Quando tanti giovani decidono di entrare nell’esercito per sfuggire all’inevitabilità del carcere, bisognerebbe chiedersi se non si debba tentare di introdurre alternative migliori.

La questione se il carcere sia ormai un’istituzione obsoleta è diventata particolarmente urgente alla luce del fatto che più di due milioni di persone negli Stati Uniti (su un totale mondiale di nove milioni) popolano attualmente le prigioni, i penitenziari, gli istituti minorili e i centri di detenzione per immigrati. Siamo disposti a relegare numeri sempre crescenti di persone provenienti da comunità oppresse dal punto di vista razziale in un’esistenza isolata, caratterizzata da regimi autoritari, violenza, malattie e tecnologie di reclusione che producono una grave instabilità mentale? Secondo uno studio recente, le carceri ospiterebbero il doppio di persone affette da malattie mentali rispetto a tutti gli ospedali psichiatrici degli Stati Uniti messi insieme.

Quando iniziai a occuparmi dell’attivismo contro il carcere alla fine degli anni Sessanta, rimasi sconcertata nell’apprendere che i detenuti erano quasi duecentomila. Se qualcuno mi avesse detto che in tre decenni il numero delle persone rinchiuse in gabbia sarebbe decuplicato non ci avrei creduto. Penso che la mia reazione sarebbe stata più o meno questa: «Per quanto questo paese possa essere razzista e antidemocratico [ricordate che durante quel periodo le richieste del movimento per i diritti civili non si erano ancora concretizzate], non credo che il governo degli Stati Uniti potrebbe mai recludere così tante persone senza scatenare una potente resistenza pubblica. No, non accadrà mai, a meno che il paese non precipiti nel fascismo». Quella avrebbe potuto essere la mia reazione trent’anni fa.

La realtà è che saremmo stati chiamati a inaugurare il xxi secolo accettando il fatto che due milioni di persone – un gruppo superiore alla popolazione di molti paesi – trascorrono la loro esistenza in posti come Sing Sing, Leavenworth, San Quintino e l’Alderson Federal Reformatory for Women. La gravità di queste cifre è ancora più evidente se si considera che complessivamente la popolazione statunitense è inferiore al 5% del totale mondiale, mentre gli Stati Uniti possono vantare più del 20% dell’intera popolazione carceraria. Per dirla con le parole di Elliott Currie, «il carcere è diventato una presenza incombente nella società [americana] in una misura senza precedenti nella nostra storia o in quella di qualsiasi altra democrazia industriale. Con l’eccezione delle grandi guerre, l’incarcerazione in massa ha rappresentato il programma sociale più compiutamente attuato dai governi dei giorni nostri».

Nel riflettere sulla possibilità che il carcere sia obsoleto, dovremmo chiederci come mai così tante persone siano potute finire in prigione senza che ciò sollevasse dibattiti importanti sull’efficacia della detenzione. Quando negli anni Ottanta, durante la cosiddetta era Reagan, s’iniziarono a costruire altre prigioni e il numero dei detenuti crebbe sempre più, i politici sostennero che il «pugno di ferro» nei confronti del crimine – che comprendeva la certezza della pena e periodi detentivi più lunghi – avrebbe mantenuto le comunità libere dalla delinquenza. Tuttavia, la pratica delle incarcerazioni in massa di quel periodo sortì un effetto scarso o addirittura nullo sui dati ufficiali relativi alle attività criminali.

Anzi, la crescita della popolazione carceraria non portò a comunità più sicure, ma piuttosto a ulteriori aumenti della stessa. Ogni nuova prigione ne generava un’altra. E con l’espandersi del sistema carcerario statunitense cresceva anche il coinvolgimento delle corporation nella costruzione delle prigioni, nel loro approvvigionamento di beni e servizi e nell’utilizzo di manodopera carceraria. Poiché la costruzione e la gestione delle prigioni iniziò ad attrarre ingenti capitali – dall’industria edilizia alle forniture alimentari, all’assistenza sanitaria – in un modo che ricordava la nascita del complesso militare-industriale, si è cominciato a parlare di un «complesso carcerario-industriale».

Prendiamo il caso della California, il cui territorio negli ultimi vent’anni è stato invaso da strutture carcerarie. La prima prigione statale della California fu San Quintino, aperta nel 1852.4 Folsom, un altro noto istituto di pena, aprì nel 1880. Tra il 1880 e il 1933, quando a Tehachapi venne inaugurato un carcere femminile, non fu costruita nessuna nuova prigione. Nel 1952 fu inaugurato il California Institution for Women e quello di Tehachapi diventò un altro carcere maschile. In tutto, tra il 1852 e il 1955 sorsero in California nove prigioni. Tra il 1962 e il 1965 furono costruiti due campi di lavoro, nonché il California Rehabilitation Center. Nella seconda metà degli anni Sessanta non fu aperta nessuna prigione e neppure durante tutto il decennio successivo.

Un massiccio progetto di costruzione di nuove strutture detentive fu avviato invece negli anni Ottanta, vale a dire durante la presidenza Reagan. Tra il 1984 e il 1989 furono inaugurati nove istituti di pena, compresa la Northern California Facility for Women. Non bisogna dimenticare che c’erano voluti più di cento anni per costruire le prime nove prigioni californiane; in meno di un decennio quel numero è raddoppiato e durante gli anni Novanta se ne sono aggiunte altre dodici, tra cui due penitenziari femminili. Nel 1995 è stata inaugurata la Valley State Prison for Women, il cui intento dichiarato era quello di «fornire 1980 posti letto per le detenute del sovraffollato sistema carcerario californiano». Tuttavia, nel 2002 le detenute erano già 35705 e tutte le strutture femminili erano sovraffollate.

Attualmente in California ci sono trentatré carceri, trentotto campi di lavoro, sedici case di correzione per minori e cinque piccoli centri per madri detenute. Nel 2002 le persone incarcerate in questi istituti erano 157.979, compresi circa ventimila individui che lo stato trattiene per violazione delle leggi sull’immigrazione. La composizione razziale di questa popolazione carceraria la dice lunga. I latinoamericani, che adesso sono la maggioranza, ne costituiscono il 35,2%; gli afroamericani il 30%, mentre i detenuti bianchi sono il 29,2%.6 Attualmente ci sono più donne in prigione nello stato della California di quante ce n’erano nelle carceri di tutto il paese all’inizio degli anni Settanta. Anzi, la California può vantare il carcere femminile più grande del mondo, la Valley State Prison for Women, che conta più di 3500 recluse. Situato nella stessa città della Valley State e letteralmente dirimpetto a questa, c’è il secondo carcere femminile del mondo per grandezza – la Central California Women’s Facility – la cui popolazione nel 2002 è arrivata anch’essa alle 3500 detenute circa.

Se si osserva su una carta della California la posizione delle trentatré prigioni statali, si può vedere che l’unica area che non sia densamente popolata di strutture detentive è quella a nord di Sacramento, anche se nella città di Susanville ci sono due carceri e nei pressi del confine con l’Oregon sorge Pelican Bay, uno dei famigerati supercarceri di massima sicurezza. L’artista californiano Sandow Birk, ispirato dalla colonizzazione del territorio da parte delle prigioni, ha prodotto una serie di trentatré quadri raffiguranti questi istituti e il paesaggio circostante e li ha raccolti nel libro Incarcerated: Visions of California in the Twenty-First Century.

Ho raccontato brevemente come il territorio della California sia stato invaso dalle strutture carcerarie per consentire ai lettori di comprendere quanto sia stato facile realizzare un massiccio sistema detentivo con l’assenso implicito dell’opinione pubblica. Perché la gente ha creduto così facilmente che rinchiudere una porzione sempre più vasta della popolazione statunitense avrebbe aiutato quanti vivono nel mondo libero a sentirsi più sicuri e protetti? È possibile formulare questo interrogativo anche in termini più generali: perché le prigioni danno alle persone l’idea che i loro diritti e le loro libertà siano più tutelati di quanto non lo sarebbero se il carcere non esistesse? A quali altre ragioni potremmo attribuire la rapidità con cui le prigioni hanno iniziato a colonizzare il territorio californiano?

La geografa Ruth Gilmore descrive l’espansione delle prigioni in California come «una soluzione geografica a problemi socioeconomici». La sua analisi del complesso carcerario-industriale in California descrive questi sviluppi come una reazione a un’eccedenza di capitali, terreni, manodopera e capacità produttiva di quello stato. Le nuove prigioni californiane sorgono su terreni rurali deprezzati, perlopiù appezzamenti agricoli un tempo irrigati…

Lo stato ha acquistato la terra messa in vendita da grandi proprietari terrieri. E ha garantito alle piccole città depresse su cui ora incombono le prigioni che quella nuova industria non inquinante e a prova di recessione avrebbe dato una spinta alla ripresa locale. Ma, come fa notare la Gilmore, non si sono visti né nuovi posti di lavoro né la più generale rivitalizzazione dell’economia promessa dalle prigioni. Queste promesse di miglioramento ci aiutano però a capire perché il parlamento e gli elettori della California abbiano deciso di approvare la costruzione di tante nuove carceri. La gente voleva credere che le prigioni non solo avrebbero ridotto il crimine, ma avrebbero anche fornito posti di lavoro e stimolato lo sviluppo economico di località sperdute.

Fondamentalmente, la questione è una: perché diamo per scontato il carcere? Anche se solo una parte relativamente esigua della popolazione ha sperimentato in prima persona la vita all’interno di un carcere, per le comunità povere nere e latinoamericane non si può parlare di piccole percentuali. E nemmeno per gli amerindi o per certe comunità di asiatici americani. Ma perfino tra queste persone – soprattutto giovani – costrette purtroppo ad accettare la condanna al carcere come una dimensione normale della vita nelle loro comunità, difficilmente si trova chi accetti di impegnarsi in un serio dibattito pubblico sulla vita in carcere o su alternative radicali alla detenzione. È come se si trattasse di un fatto inevitabile dell’esistenza, come nascere e morire.

In generale, si tende a dare il carcere per scontato. È difficile immaginare la vita senza di esso. Al tempo stesso, c’è riluttanza ad affrontare le realtà che nasconde, si ha timore di pensare a ciò che accade al suo interno. Di conseguenza, il carcere è presente nella nostra vita e allo stesso tempo ne è assente. Riflettere su questa presenza-assenza significa iniziare a riconoscere il ruolo svolto dall’ideologia nel plasmare le nostre interazioni con l’ambiente sociale che ci circonda.

Diamo per scontate le prigioni, ma spesso abbiamo paura di affrontare le realtà che producono. Dopotutto, nessuno vuole finire in galera. Siccome sarebbe troppo penoso accettare l’eventualità che chiunque, compresi noi stessi, possa diventare un prigioniero, tendiamo a considerare il carcere come qualcosa di avulso dalla nostra vita. Ciò vale perfino per alcuni di noi, donne e uomini, che già hanno sperimentato la detenzione.

E così pensiamo al carcere come a una sorte riservata ad altri, ai «malfattori», per usare un termine reso popolare di recente da George W. Bush. Dato il persistente potere del razzismo, nell’immaginario collettivo i «criminali» e i «malfattori » sono persone di colore. Perciò il carcere funziona ideologicamente come un luogo astratto in cui vengono presi in consegna gli individui indesiderabili, sollevandoci dalla responsabilità di riflettere sulle reali problematiche che affliggono le comunità da cui i detenuti provengono in numeri così spropositati. È questa la funzione ideologica del carcere: ci solleva dalla responsabilità di affrontare seriamente i problemi della nostra società, in particolare quelli prodotti dal razzismo e, in misura crescente, dal capitalismo globale.

Cosa ci sfugge, per esempio, se cerchiamo di pensare all’espansione del sistema carcerario senza prestare attenzione agli sviluppi economici più vasti? Viviamo in un’era in cui le corporation migrano. Per sottrarsi alla manodopera organizzata di questo paese – e quindi a salari più alti, contributi da versare e via dicendo – le corporation girano il mondo in cerca di nazioni che offrano sacche di manodopera a basso costo. E migrando, le corporation lasciano nei guai intere comunità. Un gran numero di persone perde il lavoro e ogni prospettiva di un impiego futuro. L’istruzione e altri servizi sociali superstiti sono profondamente influenzati dalla distruzione della base sociale di queste comunità. Il processo trasforma gli uomini, le donne e i bambini che vivono in tali comunità danneggiate in candidati perfetti per il carcere.

Intanto, le corporation collegate all’industria penitenziaria mietono profitti dal sistema che gestisce i detenuti, e sono quindi chiaramente interessate alla continua crescita della popolazione carceraria. In parole povere, questa è l’era del complesso carcerario-industriale. Le prigioni sono diventate buchi neri in cui vengono depositati i detriti del capitalismo contemporaneo. L’incarcerazione in massa genera profitti divorando al tempo stesso il patrimonio pubblico, e tende perciò a riprodurre proprio quelle condizioni che portano la gente in prigione. Esistono quindi collegamenti reali e alquanto intricati tra la deindustrializzazione dell’economia – uno sviluppo che ha raggiunto il culmine negli anni Ottanta – e la reclusione di massa, cresciuta durante l’era Reagan- Bush. Tuttavia, l’esigenza di un maggior numero di prigioni è stata presentata al pubblico in termini semplicistici.

Servivano più prigioni perché la criminalità era aumentata. Eppure molti studiosi hanno dimostrato che nel momento in cui è iniziato il boom della costruzione di nuove carceri, le statistiche ufficiali rivelavano già una diminuzione della delinquenza. Inoltre erano entrate in vigore leggi draconiane sulla droga, e diversi stati stavano introducendo norme che prevedevano pene molto severe per i recidivi. Per comprendere la proliferazione delle prigioni e l’ascesa del complesso carcerario-industriale, potrebbe essere utile riflettere più a fondo sui motivi per cui diamo così facilmente per scontato il carcere.

In California, come abbiamo visto, quasi i due terzi delle prigioni esistenti sono state inaugurate negli anni Ottanta e Novanta. Perché non si sono levate energiche proteste? Perché la prospettiva di molte nuove prigioni era visibilmente gradita all’opinione pubblica? Una risposta parziale a questo interrogativo è collegata al modo in cui consumiamo immagini mediatiche del carcere nonostante il fatto che le realtà dell’incarcerazione rimangano celate a quasi tutti coloro che non hanno avuto la disgrazia di scontare una pena detentiva. La critica culturale Gina Dent ha sottolineato come il nostro senso di familiarità con il carcere derivi in parte dalle rappresentazioni delle prigioni nei film e in altri mezzi visivi.

La storia delle immagini mentali collegate al carcere contribuisce a rafforzare l’istituzione carceraria come una parte naturalizzata del nostro paesaggio sociale. La storia del cinema è sempre stata sposata alla rappresentazione dell’incarcerazione. I primi filmati di Thomas Edison (che risalgono alla ricostruzione del 1901 Execution of Czolgosz with Panorama of Auburn Prison, presentata come un cinegiornale) comprendevano sequenze dei recessi più oscuri della prigione. Perciò il carcere è indissolubilmente legato alla nostra esperienza visiva, il che crea anche il senso della sua continuità come istituzione. Abbiamo inoltre un flusso costante di film hollywoodiani sul carcere che costituiscono di fatto un genere a sé stante.

Alcuni dei film più noti sulle prigioni sono: Non voglio morire, Papillon, Nick Mano Fredda e Fuga da Alcatraz. Vale anche la pena di accennare al fatto che la programmazione televisiva è sempre più satura di immagini di carceri. Tra i documentari recenti figurano la serie su a&e The Big House, costituita da programmi dedicati a San Quintino, Alcatraz, Leavenworth e all’Alderson Federal Reformatory for Women. La serie Oz, trasmessa per più stagioni dalla rete hbo, è riuscita a convincere molti telespettatori di sapere esattamente cosa accade nelle carceri maschili di massima sicurezza. Ma anche quanti non scelgono consapevolmente di guardare documentari o sceneggiati dedicati alle prigioni si ritrovano, volenti o nolenti, a consumare immagini del carcere per il semplice fatto di andare al cinema o accendere la tv. È praticamente impossibile evitarle.

Nel 1997, intervistando alcune donne in tre prigioni cubane, ho scoperto con stupore che la maggior parte descriveva la percezione del carcere che avevano in precedenza – vale a dire prima di finire in prigione loro stesse – come derivante dai molti film hollywoodiani che avevano visto. Tra le immagini che popolano la nostra mente, il carcere occupa dunque un posto di rilievo. Ciò ci ha indotto a darne per scontata l’esistenza. La prigione è diventata un ingrediente chiave del nostro senso comune. È presente, tutto intorno a noi. Non mettiamo in dubbio che debba esistere. Fa talmente parte del nostro mondo che ci vuole un grande sforzo d’immaginazione per concepire la vita senza di essa.

Con ciò non intendo ignorare i cambiamenti profondi verificatisi nel modo in cui sono condotti i dibattiti pubblici sul carcere. Dieci anni fa, nel momento in cui la spinta ad ampliare il sistema carcerario raggiungeva il culmine, erano ben poche le critiche a questo processo che raggiungevano l’opinione pubblica. Anzi, la maggior parte della gente non aveva idea dell’immensità di quell’espansione. Era un periodo in cui i cambiamenti interni – in parte dovuti all’applicazione di nuove tecnologie – spingevano il sistema carcerario statunitense in una direzione più repressiva. Mentre le precedenti classificazioni si limitavano a bassa, media e massima sicurezza, in quel periodo fu inventata una nuova categoria: il supercarcere di massima sicurezza. La svolta verso una maggiore repressione nel sistema carcerario, caratterizzato fin dall’inizio della sua storia dai suoi regimi repressivi, indusse alcuni giornalisti, opinionisti ed enti progressisti a opporsi al crescente affidamento sulle prigioni come mezzo per risolvere problemi sociali che sono in realtà esacerbati dall’incarcerazione in massa.

Nel 1990, il Sentencing Project, con sede a Washington, ha pubblicato uno studio sulla popolazione statunitense detenuta, in libertà vigilata o rilasciata su cauzione, in cui si concludeva che un nero su quattro di età compresa tra i venti e i ventinove anni rientrava in queste categorie. Cinque anni dopo, un secondo studio rivelava che la percentuale era salita a quasi uno su tre (32,2%). Inoltre, più di un latinoamericano su dieci nella stessa fascia di età era detenuto, in libertà vigilata o rilasciato su cauzione. Il secondo studio evidenziava anche che il gruppo che aveva conosciuto l’incremento maggiore era quello delle donne nere, la cui carcerazione era cresciuta del 78%.

Secondo il Bureau of Justice Statistics, attualmente gli afroamericani nel loro insieme rappresentano la maggioranza dei prigionieri statali e federali, con un totale di 803.400 detenuti neri, 118.600 in più del totale dei detenuti bianchi. Alla fine degli anni Novanta, articoli importanti sull’espansione delle prigioni sono apparsi su Newsweek, Harper’s, Emerge e Atlantic Monthly. Perfino Colin Powell ha sollevato la questione del crescente numero di detenuti neri di sesso maschile nel suo discorso alla Convention Nazionale Repubblicana del 2000 che ha proclamato la candidatura di George W. Bush alla presidenza.

Negli ultimi anni, l’assenza di posizioni critiche sull’espansione delle prigioni ha lasciato spazio, nell’arena politica, a proposte per una riforma del sistema carcerario. Anche se il dibattito pubblico si è fatto più flessibile, l’enfasi è quasi sempre posta sull’introduzione di cambiamenti che producano un sistema migliore. In altre parole, l’accresciuta flessibilità che ha permesso una discussione critica dei problemi associati all’espansione delle prigioni limita tale discussione alla questione della riforma carceraria. Per quanto importanti possano essere certe riforme – l’eliminazione degli abusi sessuali e dell’incuria sanitaria negli istituti femminili, per esempio – alcuni modelli fondati esclusivamente sulle riforme contribuiscono a generare l’idea vanificante che non esistano alternative al carcere. Quando è la riforma a diventare la questione centrale, i dibattiti sulle strategie di scarcerazione, che dovrebbero rappresentare il punto focale della nostra discussione sulla crisi delle carceri, tendono a essere messi da parte.

La questione più immediata, oggi, è come evitare un’ulteriore espansione della popolazione carceraria e come riportare quanti più uomini e donne detenuti in quello che i prigionieri chiamano «il mondo libero ». Come possiamo muoverci per depenalizzare l’uso di stupefacenti e la prostituzione? Come possiamo intraprendere delle strategie giudiziarie serie, che siano volte al recupero anziché esclusivamente alla punizione? Tra le alternative efficaci c’è la trasformazione sia delle tecniche per affrontare il «crimine» sia delle condizioni socioeconomiche che spingono in riformatorio e poi in carcere tanti figli delle comunità povere e in particolare delle comunità di colore. La sfida più ardua e urgente, oggi, è quella di esplorare territori nuovi della giustizia, nei quali le prigioni non fungano più da nostro principale punto fermo.

Estratto da Aboliamo le prigioni? di Angela Davis, edizioni Minimum Fax
Fotografia: Columbia GSAPP  under the Creative Commons Attribution 2.0 Generic license

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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