Scuole sicure

Qualche mese fa Donald Trump ha sconvolto gli Stati Uniti e gran parte del pianeta con la proposta di armare gli insegnanti per rendere le scuole più sicure. La logica a sostegno della proposta era non troppo diversa da quella che nel secolo scorso ha fondato la corsa agli armamenti: a fronte di un paese, gli Usa, dove le armi sono diffuse e le stragi nelle scuole drammaticamente ricorrenti, armare gli insegnanti avrebbe reso gli istituti letteralmente “ad armi pari” con potenziali attentatori.

L’emulazione italiana, con venature farsesche, è arrivata alla fine del mese di agosto. Il piano “scuole sicure” del ministero degli Interni ha stanziato 2,5 milioni di euro per installare telecamere nelle scuole e potenziare il pattugliamento da parte delle forze di polizia locale in nome della lotta allo spaccio. 2,5 milioni per una sicurezza in cui non c’è traccia di prevenzione, dato che ai percorsi educativi viene riservato non oltre il 5 per cento delle risorse stanziate e solo se con l’approvazione del Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza. Anche in questo caso si allude a un modello armato di relazioni tra le persone, che guarda al territorio con paura più che con curiosità, in cui si distraggono risorse alla prevenzione in favore del controllo, in cui la sicurezza si guadagna a forza di armi.

Si è trattato di molto più che un intervento per la sicurezza delle scuole. In quel piano c’è un manifesto educativo e si rintraccia un progetto di società. Appare più nitido in questi giorni, all’indomani dell’approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge sulla legittima difesa, che ne allarga le maglie fino a confondere il confine tra difesa e offesa e che, al fondo, manda un messaggio di tolleranza verso la giustizia fai da te.

Così prende forma la società armata, in senso materiale e simbolico, costruita sulla paura come postulato emotivo, il sospetto come codice dello sguardo sul mondo, la militarizzazione come strategia politica e le armi in tasca come risposta individuale. Le scuole sono un pilastro di tale costruzione, come del resto lo sono per qualsiasi modello sociale, per questo Matteo Salvini le vuole chiuse, sorvegliate e, inevitabilmente, spaventate. È un meccanismo che si autoalimenta: la risposta securitaria genera paura e innesca sospetto, con i quali si giustifica la risposta securitaria. Nel nostro caso le volanti davanti alle scuole, gli agenti armati e le telecamere susciteranno paura negli studenti, nelle loro famiglie e nei lavoratori della scuola e indurranno in loro il sospetto attraverso cui si legittimerà la presenza di telecamere. C’è di più. Una scuola sorvegliata speciale diventerà oggetto di stigma, avrà un crollo reputazionale, vedrà diminuire le iscrizioni da parte di ragazzi e famiglie con provenienza socioeconomica più elevata e rischierà, come in una profezia che si autoavvera, di essere popolata più di altre da ragazzi con qualche forma di disagio.

Disobbedire

Da sempre esistono tensioni (non solo letture) diverse che attraversano la scuola: istituzione totale chiamata a sorvegliare e punire; spazio di emancipazione individuale e collettiva orientato a formare uomini e donne libere. Da sempre hanno a che vedere con la funzione sociale che per la scuola si immagina e prendono forma in base all’orizzonte nel quale si inscrivono.

Il Piano scuole sicure ha evidentemente una ragione propagandistica e scarse probabilità di risultare efficace rispetto agli obiettivi dichiarati, tuttavia affonda le sue radici in una cultura politica riconoscibile. Disobbedire significa aderire a un altro progetto di società e sostenere un’altra idea della funzione della scuola. Se ne è reso conto il ministro degli Interni che ha volgarmente attaccato i Municipi romani che si sono rifiutati di conferire i nomi delle scuole da “sorvegliare”. Li ha attaccati nel modo più squallido, mettendo cioè in relazione la scelta politica dei municipi con lo stupro di gruppo e l’omicidio di Desirèe.

La verità è che dietro quella disobbedienza c’è il portato della pedagogia democratica di John Dewey. C’è l’idea di scuole che svolgono la propria funzione educativa anche al di là dei programmi curricolari e che rappresentano lo spazio collettivo in cui acquisire, decodificare e rielaborare sapere sulle grandi questioni del nostro tempo e della nostra vita. Pur nella moltiplicazione delle agenzie formative non è mutata la necessità che la scuola svolga questa funzione: perché prevede il tempo lento della rielaborazione, un tempo che batte un ritmo diverso da quello degli smartphone; e perché è uno spazio collettivo, dove l’apprendimento passa per la relazione umana e la condivisione. Scuole così concepite sono l’antitesi di fortezze da difendere o di grandi panopticon. Al contrario si fondano sulla filosofia delle scuole aperte e disarmate, lievito di una società aperta e disarmata. Che significa non tenere a distanza ciò che avviene nel territorio, ma accoglierlo, intendendo gli istituti come incubatori di iniziative sociali e culturali, aperti il pomeriggio, il sabato e la domenica, ma soprattutto aperti alle occasioni culturali e formative disseminate nell’autorganizzazione sociale.

L’educazione come processo diffuso

Si tratta di immaginare più che un’alleanza tra scuola e territorio; si tratta di immaginare l’educazione come processo diffuso che attraversa la città e che trova le articolazioni fondamentali in scuole intese come poli culturali. Un processo che porta la scuola fuori dalle sue aule e porta il territorio e la sua produzione culturale dentro gli edifici scolastici.

Ne deriva l’esigenza di risorse ben diverse per l’istruzione, risorse capaci di consentire sperimentazioni didattiche e organici adeguati, ma ne deriva anche la tessitura di una relazione diversa tra l’istituzione scuola e i cittadini. A partire da un nuovo protagonismo di studenti, genitori e docenti oltre che dei soggetti associativi nell’animare la scuola in orari extracurricolari, ma più in generale della collettività tutta che assume una nuova responsabilità educativa nei confronti dei più piccoli.

Scuole così immaginate rappresentano anche una strategia di sicurezza urbana declinata attraverso la rigenerazione e l’animazione del territorio e un argine allo spaccio e alle attività criminali. Si tratta, evidentemente, di una strategia di sicurezza antitetica alla militarizzazione, ma, a nostro avviso, in molti contesti più efficace.

Ne abbiamo molteplici e preziosi esempi: una scuola aperta fino a sera dove si fa teatro, o doposcuola o che accoglie corsi di italiano per migranti rende un quartiere più sicuro; le palestre scolastiche aperte al pomeriggio per attività sportive, in quartieri in cui l’alternativa sono le sale slot machine, rappresentano una silenziosa, ma efficacissima e radicata strategia di contrasto alle dipendenze che abbiamo. Sono esempi, ma non casuali. La verità è che immaginare telecamere e retate per contrastare lo spaccio e le dipendenze è poco meno che ridicolo. Il policonsumo di sostanze, l’eroina a basso costo, l’emergere di nuove dipendenze pongono l’esigenza di strategie complesse: di prevenzione, e quindi educative e di supporto ai ragazzi; di riduzione del danno; di riqualificazione e rigenerazione del territorio; di investigazione riguardo alle piazze di spaccio. Vale a maggior ragione nelle metropoli in cui tensioni opposte si contendono la direzione e il significato del vivere collettivo: in molti quartieri della nostra capitale autorganizzazione sociale e criminalità si contendono porzioni di territorio. In questo contesto l’alleanza tra le istituzioni (in questo caso in primo luogo le scuole) e l’autorganizzazione sociale non è solo desiderabile, ma necessaria.

Spirito critico

Quasi vent’anni fa Lucio Magri ci regalava un contributo straordinario sulla scuola e le sue sfide. Una delle riflessioni che svolge nel testo a me pare una summa della funzione della scuola in questi tempi e una limpida spiegazione del perché è sbagliata la strategia della scuola fortezza ai danni della scuola come spazio di libertà e consapevolezza.

«La libertà di ciascun individuo, molto più radicale del passato, si modella e si orienta in un confronto impari con poteri formativi di fatto ancora più vincolanti e invasivi [della tradizione ndr]: il mercato, i media, la struttura imperiale del potere culturale in cui si selezionano e si integrano i nuovi intellettuali, i consumi indotti e gli stili di vita omologati. Tutti poteri forti i quali, più che formare personalità o spirito critico, destrutturano la coscienza, relativizzano la morale, passivizzano l’individuo, soprattutto per tutto ciò che non è direttamente funzionale alla produzione e al consumo delle merci o misurabile con il parametro del reddito. Senza una scuola capace di rompere tale circolo vizioso, di offrire una base di partenza che sostituisca la tradizione ma attrezzi l’individuo a difendersi dall’effimero, che gli fornisca un patrimonio di conoscenze, di valori e di spirito critico su cui ordinare e selezionare i messaggi confusi e manipolati dalla “società dell’informazione”, la “società riflessiva” diventa al tempo stesso disgregata e gregaria, intellettualmente povera, eticamente casuale. E non a caso vi si producono impotenti e degenerate separazioni etniche, fondamentalismi religiosi, intolleranze razziali e domande di repressione».

di Claudia Pratelli, Sociologa e assessora nel Municipio III di Roma (con delega in materia di Politiche Educative e Scolastiche, Politiche per lo Sport, Diritti Civili, Pari Opportunità e Partecipazione)

Grande come una città
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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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