Noir

Se volete mettere in difficoltà uno scrittore chiedetegli cosa significhi Noir. Intendiamoci, non che sia così importante.
Il genere, in un mondo come il nostro, serve più o meno soltanto a trovare la sistemazione di un romanzo sullo scaffale di una libreria o a organizzare una fascetta. Continuo a essere fedele alla classificazione in libri belli o brutti cara a Oscar Wilde e alla necessità di impiegare la creatività nella costruzione di una storia che abbia senso, racconti qualcosa e se ne freghi della classificazione. Eppure è difficile tentare un ragionamento su un genere così inflazionato – e anticipo una conclusione – senza tentare di delimitarne i confini. Preciso che lo faccio da scrittore e non da critico e che il punto di vista di chi mescola uova e farina per fare la pasta non è per forza identico a quello di chi deve assaggiarla.

Parafrasando Hausman potrei dire che non so cosa sia il noir, ma lo riconosco quando lo leggo.
C’è chi parla di atmosfere – e mi pare un po’ vago –, chi di ricerca sul male – quindi una buona parte di Shakespeare è noir – o di racconto sociale.
Di certo, in qualsiasi modo lo si voglia declinare o intendere, il noir non può essere consolatorio.
Rimanendo alla definizione classica, che continua a sembrarmi la migliore, se il giallo, per sua natura, riporta l’ordine risolvendo il trauma che lo ha incrinato e quindi rassicura, il noir dovrebbe occuparsi della penombra, dei lati oscuri, di deviazioni, crepe sui muri, uscite di strada. Se un giallo affonda le mani nel letame e ne esce pulito, un noir non perderà mai quel senso di sporco, sbagliato, incerto che caratterizza le cose del mondo.
Non esisterà mai, tanto per capirci, una Miss Marple, ma di sicuro una Mireille Ravinel.
E potrà farla impunemente franca.

Forse è per questo che per anni ci siamo raccontati che il noir era il genere letterario in grado di descrivere il lato oscuro di questo Paese e credo che per un certo periodo sia stato vero.
Senza perdermi in troppe citazioni, se penso al lavoro fatto da Massimo Carlotto sul nord est, da Loriano Macchiavelli su Bologna, all’imprenscidibile lavoro, non solo editoriale, fatto da Luigi Bernardi, o alla capacità di Romanzo criminale di raccontare quel crocevia di affari, politica, estremismo e malavita che è stata la banda della Magliana, penso a un lavoro monumentale che ha acceso luci dove l’ombra, il luogo comune e l’ignoranza regnavano indisturbati.
Quel periodo, però, mi sembra finito e non perché gli autori siano diventati meno bravi o perché nella massa indiscriminata di romanzi così etichettati e simili da far paura sia complesso trovare qualcosa che valga la pena leggere, ma soprattutto perché è cambiata la società.

Se un tempo era abbastanza facile sorprendere il lettore, illuminare ombre suscitando interesse, rivelare il non rivelabile, oggi la realtà corre così avanti da rendere già sentita, vecchia, ripetitiva, la maggior parte delle storie. La corruzione, lo sperpero, l’omicidio per interesse, la commistione affari-malavita-politica è diventata così quotidiana – basta ascoltare un telegiornale a caso – e, consentitemi, così banale, da levigare ogni aspettativa e, purtroppo, ogni indignazione. Se aggiungiamo il totale disinteresse per il nostro recente passato, potenziale fonte ispiratrice di storie fenomenali e uniamo il desiderio di intrattenimento facile che sembra permeare tutto il racconto popolare di massa di questo Paese, diventa abbastanza facile capire il proliferare di vicende già sentite e già viste, dove il genere è la scusa per tingere di scuro vicende al limite della commedia e il cadavere o il delitto solo un compendio scenografico che non diventa nemmeno utile a raccontare uno spaccato di società.

Da qualche anno ho cominciato a pensare che il modo migliore per raccontare la realtà non sia più il realismo, ma la metafora, la commistione di generi e mondi, l’abbattere senza mezzi termini gli steccati e le regole. La realtà è da un lato noiosa, stantia, ripetitiva anche nella coazione a ripetere la sua stessa crudeltà. E dall’altro un fardello così imponente che rischia di schiacciare il lettore prima ancora della prima riga.

Non è più l’epoca dei fatti, ma dei temi o dei grandi problemi.
La paura, la rabbia, la violenza (anche domestica), la difficoltà a distinguere il vero dal falso, il reale dal virtuale e l’inutilità della verità nella vita pubblica, la narrazione intesa come menzogna da vendere a qualcuno – per un prodotto o un’idea poco importa –, la fragilità sociale, le differenze di genere, la sopraffazione di ogni debolezza, il ritorno di prepotenze ottocentesche, la trasformazione sociale che abbiamo scioccamente chiamato crisi per anni, il ruolo della tecnologia nel cambiare la quotidianità e non sempre in meglio.
Non sono forse tutti temi che dovrebbero adescare come il miele un orso chi si ripromette di ragionare sul lato oscuro della luna?
Cosa c’è di meglio di un’epoca in cui tutta la luna è finita nel lato oscuro?

Dimentichiamo le indagini ossessive, lasciamo le procedure e i poliziotti ai pochi che li sanno scrivere davvero o alle serie televisive – sul tema spesso ci battono di molte lunghezze – e ricominciamo a parlare di esseri umani. E se per farlo serve usare il soprannaturale, la magia, il fantastico, la fantascienza, facciamolo.
Smettiamo di fare finta cronaca, ce n’è già abbastanza.
Il Male, parafrasando King, esiste.
Se per raccontarlo serve un noir diverso, inventiamolo.
Non è forse questo che fanno gli scrittori?


fogli

Patrick Fogli (Bologna, 1971) è considerato dalla critica uno degli scrittori più interessanti nel panorama della narrativa italiana degli ultimi anni. Tra i suoi romanzi, Lentamente prima di morire (Piemme, 2006), L’ultima estate di innocenza (Piemme, 2007), Il tempo infranto (Piemme, 2008), Dovrei essere fumo (Piemme, 2014), Io sono Alfa (Frassinelli, 2015), A chi appartiene la notte (Baldini+Castoldi, 2018), Premio Scerbanenco 2018, e Il signore delle maschere (Mondadori, 2019). Nel 2014 ha firmato la sceneggiatura di Neve di Stefano Incerti.  Foto: Cristina Lovadina


Henri-Georges Clouzot, Les Diaboliques, 1955
Vera Clouzot interpreta Mireille Ravinel
Grande come una città
Grande come una cittàhttps://grandecomeunacitta.org
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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