Il tempo della collera

Perché pubblicare, nel 75° anniversario della Liberazione, un articolo riferito a un libro che riguarda il 1943?
Un diario di guerra ma anche una graduale presa di coscienza che spingerà Revelli a cambiare prospettiva. Mai Tardi. Diario di un alpino in Russia è una cronaca dettagliata che inizia a partire dal 21 luglio 1942. Le pagine sulla ritirata si susseguono a partire dal 16 dicembre, data di inizio dell’operazione sovietica Piccolo Saturno, che travolse l’8ª Armata italiana e condusse alla sconfitta della 6ª Armata tedesca, intrappolata a Stalingrado, e alla conseguente disfatta del Terzo Reich nel settore meridionale del fronte orientale.

Nuto Revelli è un militare di carriera e parte per La Russia per fare il suo dovere, ma è lì, durante la rovinosa ritirata di Russia, che comprende di essere stato ingannato. Di fronte alla morte insensata dei suoi alpini e all’arroganza dell’alleato, ricco di mezzi e che con la presunzione di appartenere a una razza superiore nega i propri mezzi agli alleati alpini feriti, abbandonandoli a morte certa, si sovrappone quello dei fascisti preoccupati solo di salvare la pelle e l’insensatezza degli alti comandi. Inizia, così, un lungo percorso che lo porterà più avanti, dopo l’8 settembre e poi l’incontro con Dante Livio Bianco, a maturare la scelta di campo definitiva.
Mai tardi, la frase finale del libro che è anche il titolo, è la sua parola definitiva, dopo non vorrà più avere niente a che fare con tutto quello in cui aveva creduto fino a quel momento, esercito compreso.
Dover comprendere di essere nel torto, comporta ammetterlo prima di tutto a sé stesso.
La scelta di tutti quegli uomini che hanno sentito di non potersi sottrarre di fronte al momento è una responsabilità morale che impone percorsi intimamente diversi, accomunati dall’impossibilità di rimanere passivi di fronte a ideologie mortifere, razziste e anti-libertarie, all’occupazione nazista e al collaborazionismo fascista. Una posizione difficile, disperata per la schiacciante superiorità del nemico, è la scelta di diventare partigiano.

Ringraziamo l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo “D.L. Bianco” per questo saggio tratto dal numero 96 della rivista Il presente e la storia, che pubblica gli atti del Convegno Internazionale Nuto Revelli, protagonista e testimone dell’Italia contemporanea, tenutosi a Cuneo il 5 e 6 ottobre 2019, uno degli eventi più importanti in occasione del centenario della nascita dello scrittore.

Il tempo della collera
Un “altro” modo di raccontare la guerra
Luigi Bonanate (Università di Torino)

1. Ricordate e raccontate (…) Come si può dimenticare?1

Dai riferimenti che in Mai tardi fa alle ore di sonno trascorse (poche, pochissime) tra il 16 gennaio e il 10 marzo 1943 si capisce che quella che Nuto Revelli sta vivendo è una esperienza sconvolgente: la perdita della cognizione del tempo. In quei giorni – i peggiori perché sono quelli della rotta del fronte e dell’inizio della ritirata, nei quali Nuto quasi non distingue il giorno dalla notte e non ne percepisce i ritmi – compaiono tuttavia alcuni riferimenti a momenti di sonno, quasi sempre interrotti da spari, urla, grida. Ma è difficile anche tenere il conto dei giorni:

A forza di calcoli sono riuscito a concludere che oggi ne abbiamo 14: sapere i giorni della settimana è assai difficile2.

Alla data del 20 gennaio, poi precisa:

ormai abbiamo perduto la nozione del tempo: se, uscendo dall’isba, avessi incontrato la notte, non mi sarei stupito3.

Ma Mai tardi contiene anche frequenti riferimenti al calendario, fitte indicazioni orarie legate a questo o a quell’evento, che delineano l’abisso vorticoso nel quale veramente precipitano le sue “giornate” – lo spazio- tempo all’interno del quale si svolge la tragedia della ritirata nella steppa russa di quel che resta dell’ARMIR:

Abbiamo fatto quasi seicento chilometri a piedi, nella neve alta fino al ginocchio, sul ghiaccio, su neve come sabbia, combattendo, non dormendo, non mangiando, soffrendo il freddo terribile, e tutto il resto.
E fin qui siamo arrivati.
Adesso ci tocca ancora camminare non si sa fino a quando; si dice fino a Kiev. Altri quattrocento chilometri. Chi arriverà?4

Devo dire che Mai tardi mi brucia tra le mani: è una delle letture più sconvolgenti non della mia vita di studioso ma in quanto esperienza esi- stenziale. L’ho letto molto tardi (questo riguarda me) e l’ho forse, in precedenti letture5, trascurato – penso di dover precisare: non “capito”. Non intendo con ciò suggerire una sottostima degli altri scritti di Nuto, alcuni dei quali ovviamente ritorneranno in questa mia presentazione (e non per puro spirito di completezza), ma insistere sulle ragioni che ai miei occhi rendono Mai tardi del tutto speciale rispetto alla classica e nobilissima letteratura dei reduci di guerra, di tutte le guerre6. In Mai tardi l’elemento dominante non è il “racconto”, ma lo sfogo di una espressività eroica, prima di allora inesistente, nel parlar della guerra che ne emerge. Non la morte in battaglia, ma quella degli stenti, del congelamento, delle letali ubriacature dei soldati7, della sconvolgente e progressiva appercezione del dramma, sullo sfondo di una brutalità che ha pochi riscontri nella storia, non solo militare.
C’è una sorta di “primitività” nella stesura a caldo di Mai tardi, che è tutt’uno con le espressioni anti-tedesche la cui più violenta cui Nuto si lascia andare è: «Porci, porci e cani, vigliacchi, bastardi e cani. Questi i tedeschi, i nostri alleati, la gente che combatte per la “civiltà”: questa la razza kruka maledetta. Sento che mi gira la testa!»8. Sfoghi di questo tono nelle due stesure sono fittissimi: la loro importanza sta nel fatto che sgombrano il tavolo da qualsiasi banale retorica oggettivistica di quel che è la guerra, per essere collocata – come le spetta – all’ultimo cerchio di qualsivoglia racconto dantesco. La guerra è il peggiore dei mali sociali che nel mondo possano manifestarsi… a che serve allora rifugiarsi nell’eroismo, nelle strategie, nelle manovre di truppe?
Aggiungo che comunque tutto ciò non impedirà a Nuto di rappacificarsi con i tedeschi9, come è ben noto. Ma la vera ragione non dipenderà da una specie di ritrovato spirito di equanime valutazione, ma dal superamento dello spirito nazionalistico e patriottardo in cui pur Nuto era serenamente cresciuto10, e che rappresenterà soltanto più una scorciatoia per mettere a nudo la guerra – chiunque la combatta, sotto qualsivoglia divisa. In altri termini, quelle parole valgono per tutti coloro che fanno le guerre, e non solo per i tedeschi… e hanno quindi una portata universale. Mi si consenta ancora un esempio: ne la Guerra dei poveri, il capitolo (che inizia a p. 38) dedicato alla ritirata sul fronte russo è nettamente meno drammatico e “affannoso” che nella redazione originale di Mai tardi (p. 139). La differenza non sta nell’attenuazione del ricordo, ma nell’ampliamento della prospettiva.

Non intendo abbandonarmi alla pietà o alla retorica, ma al senso di angoscia che non può non prendere il lettore di queste elegiache parole:

Basta con la Russia, poveri alpini: quanti siete rimasti! Quel tragico mattino del 26 gennaio, eravate macchie ferme sulla neve gelata dai 40° sotto zero, e non andavate più avanti perché eravate fermi per sempre, morti, punti fermi a scacchiera come in formazione spiegata, una formazione di attacco statica, che all’attacco non ci poteva più andare. Lì siete rimasti dissepolti e martoriati dagli slittoni dei porci tedeschi che passavano sulle vostre teste, su di voi bucati dal piombo russo, senza pietà, senza lontanamente pensare che eravate morti per aprire la strada agli altri, anche a loro11.

2. Ricordare e raccontare (…) Non è ancora il momento di poter stendere i nervi12

C’è un Revelli autobiografico, che racconta le immense sofferenze che, con i compagni, patisce; ma dopo d’allora, oggi, o comunque successiva- mente all’epoca dei suoi scritti, c’è un altro Revelli che dà vita a una vera e propria concettualizzazione della guerra, una specie di imprevedibile trattato sul significato di quest’ultima. Mentre il Revelli autobiografico è sconvolgente e commovente, il Revelli “teorico” (di per sé, parola del tutto stonata se riferita a lui) della guerra ci apre invece prospettive assolutamente originali sul senso della guerra.
Il primo Revelli è quello che potremmo ricondurre alla “vita vissuta”, alla cronaca o al resoconto, rientrante nel filone amplissimo della memorialistica13. Si tratterebbe tuttavia di un approccio riduttivo perché quel che in effetti Nuto ha vissuto è qualche cosa che ci “eccede”, che supera la nostra normale capacità di accogliere ed apprezzare dei racconti: si tratta della vergogna che ogni essere umano dovrebbe provare di fronte all’assurdità di ciò che allora successe14. Saremmo stati noi, o lo saremmo oggi, capaci di vivere tempi come quelli che furono? Certo nessuno si immaginava che cosa sarebbe successo, all’inizio della spedizione in Russia, ma chi la dovette vivere sopportò fatiche, dolori fisici e morali, ferite, patimenti, cui oggi nessuno di noi sopravvivrebbe. Erano più forti o più grandi di noi? Probabilmente no. Ciò che li plasmò fu la guerra, quell’assoluto protagonista della storia universale, della quale ancora oggi non sappiamo darci una spiegazione. Chi la combatte – e necessariamente mette in conto la possibilità/probabilità di non sopravviverle – lo fa dunque non per sé ma per gli altri, per coloro che ha lasciato a casa15 o, per dirla in termini più alti, per quell’umanità che ne dovrà conoscere le conseguenze16. Non possiamo ammettere che i soldati che vanno alla guerra obbediscano semplicemente a degli ordini: chi riceve la convocazione pensa di fare qualche cosa di buono, onesto, addirittura doveroso17. Non può essere l’ignavia a reggere il mondo.
Ai tempi di Nuto la guerra non era diversa da quella che si era combattuta prima, si combatte e si combatterà; ma a leggere quel che in Mai tardi è raccontato dovremmo chiederci semmai chi e perché creò quella tragedia – una domanda soltanto in apparenza banale18. Non fu un caso o uno sbaglio, bensì una volontà umana a volere e realizzare tutto ciò. Soltanto a partire da questa “rivelazione” è possibile ragionar di guerra.
La domanda corretta diventa: «si può uscire migliori da un mondo di bestie?»19.
Poiché tutte le guerre si assomigliano20, è evidente che la domanda (retorica) che Nuto si pone appartiene al livello della “filosofia della guerra”, cioè della riflessione sul significato di quella pratica “incomprensibile” che è la guerra. In una delle sue ricchissime e umanissime conversazioni, Nuto lo dirà, chiaro e tondo: la guerra è

una macchina criminale e insensata che coinvolge milioni di uomini e di famiglie, individui con storie e culture diverse. La guerra ti carica di rabbia, e ammazzi per non essere ammazzato21.

Non troverete mai, in nessun grande trattato di teoria o di filosofia della guerra un’affermazione come questa. Per Clausewitz, il fine della guerra è l’“abbattimento” del nemico, non il senso di morte che circola in Mai tardi22. Per Nuto – ma per tutti noi – la spedizione in Russia consi- stette in qualche cosa che va al di là del puro e semplice errore strategico. Chiunque avesse un posto di comando nella gerarchia politico-militare dell’Italia fascista era al corrente dell’insensatezza dell’impresa e dell’impossibilità che avesse successo – mi si permetta di insistere: non è il lato soggettivo della vicenda che mi sembra importante, quanto quello oggettivo. I soldati italiani praticamente non combatterono: dopo lunghe e defatiganti marce, abbandonando sul terreno morti e feriti, ricevettero l’ordine di fuggire23 e di tornarsene indietro senza aver compiuto il minimo gesto rilevante in termini bellici.
La guerra della teoria strategica è fatta di piani d’azione e di progetti, di mosse e contro-mosse, di offensive e difensive, di avanzate e di ritirate: a tavolino. Quale sia poi l’andamento reale delle operazioni non dipenderà più dal puro e semplice sommarsi delle intenzioni, ma dai dati della vita reale che trasformano concetti e fredde intenzioni in sopravvivenza o morte, in vittorie o sconfitte. Basta ricordare che nel 65% dei casi le guerre non sono vinte da chi le ha iniziate24… La guerra civile, a sua volta, sfugge alle regolarità militari e, caduta ogni razionalizzazione a priori, si mostra nella sua nuda essenza di scontro mortale senza regole e parossistico.
Lasciandosi prendere dalla lettura di Mai tardi si entra in una nuova dimensione: la morte in guerra di migliaia di persone che sostanzialmente la guerra non l’hanno fatta, che appartengono al mondo degli sconfitti senza aver neppure combattuto. È tutto questo che Revelli vive nei primi due mesi del 1943; seppure li abbia vissuti – come osserva Cinelli – da “colto”, che «continuamente traduce le sue nozioni teoriche in pratica»25. È evidente che qui non ci si astrae, si commisera. Ma dalla commiserazione sgorga la rivelazione: la guerra è una sconfitta per tutti coloro che la combattono (tanto più poi per chi la combatte dalle scrivanie delle grandi capitali)26. Non si potrà più dire – se si capisce ciò – che purtroppo, tuttavia, le guerre sono inevitabili ed è inutile opporvicisi, né che le guerre non sono tutte uguali e alcune sono meglio di altre27 e che comunque la difesa non può essere negata ad alcuno. La guerra ci rende tutti uguali per il semplice fatto che nessuno è autorizzato a farla, e conseguentemente spazza via ogni giustificazione nazionalistica.

2. “Ricordare e raccontare”: parole d’ordine che cominciano a tener caldo28

Più che a un «debito da pagare»29, la formula che Nuto ripete (tre volte, come abbiamo visto) rinvia a una rivelazione, allo svelamento di quel mistero che dicevo prima, che riguarda la natura profonda della guerra. È la stessa parabola dell’atteggiamento di Nuto che si erge nella sua moralità, che nei confronti dei tedeschi evidenzia che, in realtà, quella impressionante sequela di maledizioni, insulti, improperi che egli lancia contro di loro non riguarda in effetti soltanto i cittadini della Germania, tant’è vero che (e faccio un solo esempio, per semplicità) tutta la vicenda del disperso di Marburg30 sarebbe altrimenti incomprensibile o paradossale. Il conflitto tra valori vive in un commento di Nuto: durante la ritirata (il 18 gennaio 1943, per la precisione) riceve un gesto gentile da un ufficiale tedesco:

lo ringrazio e gli porgo la mano: è il primo tedesco al quale do la mano! Incomincio così la fuga: la terminerò offrendo a un tedesco una pallottola nel cranio31.

Con questa brutalità Revelli non dà prova di una sua qualche aggressività o violenza, ma testimonia della violazione della comune umanità che dovrebbe dirigere le nostre azioni. Lo ammette candidamente Nuto stesso:

Al 26 luglio [1943] si poteva anche scegliere sbagliato. Se mi picchiavano, se mi sputavano addosso, forse sarei passato dall’altra parte, con i fascisti, con le vittime del momento. Oggi sarei con le canaglie, con i barabba, con le spie dei tedeschi32.

Cinelli coglie il punto: nella mente di Nuto «si delinea una nuova guerra, tutta interna all’asse italo-tedesco»33 – potremmo dire: la guerra di tutti contro tutti! Italiani contro italiani, Italiani contro tedeschi34… Tocchiamo così la parola più dura che Nuto abbia mai pronunciato (credo): si trova nell’ultima riga di Mai tardi, e specialmente nell’aggiunta che segue alla promessa di mai dimenticare di «farvi fuori!» (riprenderò questa “esplosione”).
Eppure, si potrebbe dimostrare con mille episodi che – per quanto rigido, rigoroso, combattivo e combattente – Nuto sia stato un uomo tranquillo e pacifico. Ma abbiamo le prove – le sue stesse dichiarazioni – che Nuto ha combattuto, armi in pugno, che ha sparato, che ha ucciso… Storiograficamente parlando, e inquadrandovi la sua vicenda personale, la risposta è facile: tornato dalla Russia a fine marzo 1943, Nuto assiste, attonito, al crollo del fascismo: «ho risposto con un urlo, come se mi avessero ferito»35. E da quel giorno e fino all’8 settembre, il diario di Nuto, le sue cronache tacciono. Doveva curarsi36, certo, ma non era persona da non riflettere sulla realtà del momento: quando arriva l’armistizio Nuto si risveglia, per così dire, e per prima cosa corre a casa37 – l’ingenuità e la spontaneità del gesto sono davvero commoventi – a indossare quella divisa38, a cui la scelta ideale-professionale del 1939 (l’entrata nell’Accademia militare di Modena) lo aveva legato, decisione infantile (se mi si concede la licenza) che testimonia nella sua immediatezza la sincerità non-politica, non opportunistica, che in quel momento Nuto fa39, consapevole come è della casualità dell’essersi schierato da una parte invece che dall’altra (come abbiamo appena visto).
Si potrebbe forse dire – con una provocazione soltanto apparente – che a Nuto non importa tanto per quale bandiera (o patria) si combatta ma che chi combatte sia convinto delle proprie azioni (si può anche uccidere, a quel punto, sentendosi moralmente giustificati)40. Il turbamento che avvolge Nuto è evidente: «È il secondo fallimento che mi arriva alle spalle, a breve scadenza, ed è più pesante dell’altro»; e subito dopo: «Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato. Qui non si crede più a nulla»41.

Il fatto è che Nuto (e questo è un dato che ne nobilita enormemente lo spirito), fin da prima della guerra, era pieno di dubbi:

l’esercito era una cosa, il fascismo un’altra cosa. Non si capiva bene se le due cose messe insieme fossero la Patria. Ricordo la mia confusione42.

dai quali, un po’ per volta, si libererà. Ancor prima di partire per la Russia, «il volto della patria [gli] appariva falso e gonfio di retorica. […] Attendevo la guerra vera, i fatti, come un’esperienza necessaria e definitiva per tentare di credere ancora»43.
L’evoluzione del pensiero di Nuto si manifesta con una spontaneità44 impressionante e progressiva: il 26 luglio 1943 riconosce che nella tragedia russa i soldati sono «morti per nulla, proprio come se la patria non esistesse più»45. L’ultimo passo si compie (e non è un caso) il 29 marzo 1944: su in montagna, durante la guerra partigiana, «non si parla mai di patria»46.
La guerra partigiana per Nuto è ben più che una risorsa catartica o un fatto personale, intimo: non c’è più patria, lo stato è spaccato in due, ed è occupato dagli ex-alleati. Il mondo crolla: il passaggio necessario per rimettere le cose a posto, per dare un senso alla propria vita – consapevoli che “non è mai tardi”… – è riprendere il fucile.

4. La guerra vera sta incominciando, con le popolazioni in prima linea47

Queste parole, che Nuto riferisce al 22 settembre 1943, contengono informazioni per noi importantissime. La prima riguarda l’aggettivo “vera” applicato alla guerra: siccome sappiamo che di guerra civile si trattava, che è quella che si definisce come conseguenza della “morte” dello stato, cioè della verificata incapacità di quest’ultimo a garantire l’ordine pubblico e il rispetto delle leggi vigenti, dobbiamo dedurne che la vera guerra non è quella “in forma”, fondata su precise e ben note regole48, ma quella che può davvero essere definita “totale” perché nulla e nessuno ne è esentato, e non può avere limiti nell’uso della violenza – questa è la nuova guerra che sta incominciando (siamo nell’autunno 1943), e coinvolge chiunque, senza alcuna differenziazione (e ne è ovviamente la forma massima e parossistica). L’aggettivo “civile” che sovente la caratterizza si riferisce alla circostanza secondo cui i concittadini possono essere tra loro nemici – nulla di più paradossale.
Che questo sia il senso che Nuto dà alla guerra è testimoniato dalla seconda parte dell’affermazione: le popolazioni (e non specificamente le forze armate) vi partecipano in “prima linea”, e ciò vale per tutti indiscriminatamente49; tutti vi partecipano, tutti la combattono, tutti possono esserne vittime. Il fatto che la citazione appena fatta sia posta proprio sotto un’altra notazione di Nuto – «I tedeschi hanno bruciato Boves. Molti i morti, fra i civili»50 – ci porta al giorno (22 settembre, o a quello successivo) in cui Nuto decide il suo futuro, che cosa sarà della vita: il partigiano, un combattente che nelle sue azioni non potrà conoscere limiti né frenarsi, perché il partigiano non può essere raffrenato. Fusi nelle pagine che, ne La guerra dei poveri, sono dedicate alle imprese eroiche, di Nuto come dei suoi compagni, compaiono diversi riferimenti concettuali al senso delle guerre.
Come sempre succede, la prima osservazione è fattuale: in Russia si «combatteva una guerra nazi-fascista; ma dice poi Nuto che «la nostra [quella partigiana] è una guerra del tutto particolare, ma è comunque una guerra» (p. 168). Ancora un passaggio: «Anche questa nostra guerra è bestiale» (p. 190), seppure «la nostra non è una guerra di grandi battaglie, con centinaia di morti da una parte e dall’altra» (p. 247), ma si combatte comunque come nelle «guerre normali» (p. 321). Ed ecco la specificità di quella che Nuto sta combattendo:

«Quel lasciare il vuoto davanti al nemico in movimento, per poi sorpren- derlo e pestarlo, quel rendere attive le interruzioni con sparatorie volanti, quel far procedere il nemico in stato di snervante attesa, di batticuore, di tensione nervosa: questa è la guerra partigiana» (p. 252; corsivo aggiunto)51.

ed essa «almeno è giusta» (p. 190)! Ma è poi “vera” guerra? Un po’ risentito, infatti, Nuto riferisce che

la nostra lotta di Liberazione – guerra di volontari, di popolo, di ribelli – appare incomprensibile a tutti i reduci dalla prigionia: la giudicano una pagina di guerra insignificante52.

Distinzione inconsistente, secondo Nuto, che pure sa bene che «la nostra è una guerra del tutto particolare, ma è comunque una guerra»53.
Non siamo di fronte a pignolerie o a inconsistenti rivendicazioni di su- periorità, ma allo sventagliamento in tutte le sue valenze di una concezione della guerra, che nel nostro caso non è quella dei partigiani in confronto a quella dei soldati che ci può aiutare a capire, perché è l’idea stessa di guerra che è inaccettabile in se stessa e inevitabile: «combattevamo per una guerra sbagliata, e lo sapevamo»54.

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5. Finché sparo non penso55

Nuto era evidentemente ossessionato dal tempo, come dimostrano il “mai” e il “tardi” del suo diario della guerra russa, e il “finché”, almeno in apparenza nichilistico, con quel rifugio nella violenza (ma che sappiamo fosse tutt’altro – riguardava il ritorno a casa), che esprimono drammaticamente l’angoscia esistenziale e i dubbi che investirono un giovane tra i suoi 23 e 26 anni. Tre anni vissuti sotto un «cono di stelle di fuoco»56 e che ruotano intorno alle ultime parole di Mai tardi: “mai tardi” potrebbe significare che non è mai tardi per compiere qualche azione, obbedire a un’intenzione. Nuto non era un violento né era stato educato a una tale cultura: lo sfogo che scultoreamente gli esce dal cuore non è quello della vendetta, né del ristabilimento di una parità tra offesa e difesa – è il grido disperato di chi è stato schiacciato dall’eccesso di violenza vissuto e che vorrebbe impedire a chiunque altri sia di scatenarla, sia di subirla. Come fare? «Farvi fuori» è la risposta – agghiacciante! E a chi si riferiscono? Nelle righe appena precedenti Nuto sta maledicendo il duce e le sue “mele” (sic!), e non più soltanto gli ex-alleati tedeschi: quel «farvi fuori» dunque accomuna gli uni e gli altri: nazisti e fascisti… in quel marzo del ’43 Nuto non sapeva quanto profetiche fossero le sue parole né che pochi mesi dopo si sarebbe ritrovato «a sparare per non pensare».
Questa decisione, che è in fondo l’ultima parola di Nuto, ci conferma quanto la guerra ecceda gli esseri umani che si riconoscono ormai soltanto più di fronte alla morte e alla guerra. Nuto non è stato l’unico eroico combattente di quella che è stata, finora, la più immane tragedia politico-sociale della storia che conosciamo, ma ne ha vissuto tutti i gironi, è sceso dall’uno all’altro, precipitando inarrestabilmente, iniziando da una guerra tradizionale, a cui è seguita una tragica ritirata (l’aveva provata anche Napoleone…). Ma subito dopo precipita nel rovesciamento di alleanza che altro non è – per parlar semplice – che un tradimento al quale non può non far seguito, nell’ultimo girone, il fratricidio spietato che dovrà spez- zare il circolo vizioso. È a quest’ultimo punto che Nuto arrivò: io non credo che abbia mai potuto “superare” quella tragedia, nella sua vita.
Ma per tutti noi, leggere Nuto oggi non è “mai tardi”, perché Mai tardi – ben più che un diario e ben che ormai purtroppo dimenticato – è diventato ormai un classico, un classico senza tempo e per sempre.

Note

Il tempo della collera
L’espressione è di N. AJELLO, La guerra dei poveri, in «Comunità», XIV, n. 101, luglio-agosto 1962, p. 29.

1 N. REVELLI, Mai tardi, Cuneo, Panfilo, 1946, p. 178. Tutte le citazioni saranno tratte dalla prima edizione. Una successiva edizione, incorporata poi in La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1962, comporterà 114 pagine rispetto alle 261 della prima edizione, alleggerendo la drammaticità dell’impatto di tale lettura sul lettore. Anche se nelle mie intenzioni non c’è alcuna velleità filologica, il confronto tra il diario del 20 gennaio 1943 nelle due stesure (Mai tardi, pp. 171 e sgg.; La guerra dei poveri, cit., pp. 55-60; o ancora tra p. 228 di Mai tardi e p. 87 de La guerra di poveri, relativamente alla giornata del 27 gennaio), illustra bene la diversa intenzione che muova Nuto nelle due narrazioni. È più che logico che una rivisitazione compiuta a 16 anni di distanza induca Nuto a un tono più rassegnato e compìto, mentre ciò che domina Mai tardi è una incontenibile e irrefrenabile rabbia! Cfr. anche G. CINELLI, Nuto Revelli. La scrittura e l’impegno civile, dalla testimonianza della Seconda guerra mondiale alla critica dell’Italia repubblicana, Torino, Aragno, 2010, p. 39 e sgg.

2 N. REVELLI, Mai tardi, cit., p. 133.

3 ID., La guerra dei poveri, p. 58. Cito dalla ristampa del 1993.

4 ID., Mai tardi, cit., p. 247.

5 Mi riferisco alla mia Introduzione a N. REVELLI, I conti con il nemico. Scritti di Nuto e su Nuto Revelli, a cura di L. Bonanate, Torino, Aragno, 2010; e a I conti con la guerra, ovvero i vinti e le guerre, in L. BONANATE (a cura), Uno storico tra le montagne, Torino, Accademia delle scienze di Torino, Quaderni, n. 20, 2015.

6 Naturalmente un’opera della stessa grandezza è quella di Primo Levi, anche se relativa a un differente contesto.

7 Scovato un deposito tedesco pieno di casse di cognac, gli alpini, sfiniti, ne bevono tanto da ubriacarsi, il che li destina ad addormentarsi e quindi a morire assiderati senza accorgersene. Nuto cercò, invano, di convincere tanti compagni a sfuggire a quel destino.

8 N. REVELLI, Mai tardi, cit., p. 234.

9 Ne fa fede, naturalmente, Il disperso di Marburg, Torino, Einaudi, 1994.

10 Vedi la Premessa (pp. 3-13) in La guerra dei poveri, cit.

11 N. REVELLI, Mai tardi, cit., p. 246. In spirito di totale compartecipazione e commozione – vorrei invitare chi lo voglia a seguirmi nella rivisitazione che Nuto scrisse di quel 20 gennaio 1943 ne La guerra dei poveri, cit., a p. 98: più composta e compunta, meno sfrenata e disperata che in Mai tardi. Nulla di critico o di irrispettoso da parte mia, ma l’indizio dell’evoluzione di un sentimento “puro” (distillato) dell’immanità della tragedia che scoppia dentro l’animo di chi la ha dovuta vivere: è stupido che ci invitiamo a immedesimarci in quell’evento, ma è doveroso che ne facciamo l’avvio di una riflessione sul senso delle guerre.

12 N. REVELLI, Mai tardi, cit., p. 251.

13 Sul punto cfr. G. CINELLI, Nuto Revelli, cit., p. 16, e p. 83.

14 Ovviamente non intendo distinguere o graduare la gravità delle guerre della storia – ciò che vado dicendo vale per tutte allo stesso modo.

15 Sentiamo la delicatezza con cui uno dei dispersi sul fronte russo racconta la guerra sforzandosi di rassicurare i parenti: «la guerra è più bella di quello che si pensa da casa», vedi N. REVELLI, L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi, 1971, p. 197 (la lettera è di Francesco Borro, un contadino ventiquattrenne, di Vezza d’Alba).

16 Figli del XX secolo, siamo abituati a pensare che le guerre abbiano il fine di migliorare il mondo, grazie al trionfo del bene sul male – ma ci sbagliamo.

17 A questo riguardo ci sarebbe una bella divagazione da fare: chi ha mai detto che il modo migliore per difendere la “patria” sia quello di aiutarla a fare delle guerre? Evidentemente non basta una mera chiamata per convincerci a obbedire: allora, vuol dire che chi risponde “ci crede” (nel caso nostro Nuto non ci nasconde la buona fede patriottica con la quale partì per la Russia). Ma qui il discorso si amplierebbe troppo.

18 Conosciamo nome e cognome di tutti quelli che la vollero e la diressero; ma ovviamente il problema non è anagrafico ma esistenziale.

19 N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 109.

20 Renderemmo più scultoreo il punto se giungessimo fino a dire che le guerre sono tutte uguali.

21 Vedi l’intervista di L. CAMPETTI, Ricordo con rabbia e con tenerezza, raccolta in N. REVELLI, Il testimone. Conversazioni e interviste. 1966-2003, a cura di M. Cordero, Torino, Einaudi, 2014, p. 57. Cfr. anche N. REVELLI, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Einaudi, Torino 1977, p. 174: «E la mia rabbia cresceva».

22 Chi mi conosce sa non soltanto che tanto ho imparato da Clausewitz e tanto l’ho commentato e discusso nei miei studi: nessuno spirito polemico, quindi, ma l’evidenziazione della diversità dei mondi a partire dai quali si può parlar di guerra.

23 Di “fuga” parla a p. 250, di Mai tardi.

24 V. M. SMALL-D. J. SINGER, Resort to Arms. International and Civil Wars. 1816-1980, Sager, Beverly Hills 1982, p. 195. Ancorché datata, la notizia sarebbe rafforzata da conteggi successivi.

25 Cfr. G. CINELLI, Nuto Revelli, cit., p. 16.

26 Sfiora il punto Nuto: «anche i pochi che allora capivano, che sapevano, se non sono finiti in galera, sono colpevoli: colpevoli del loro silenzio!», La guerra dei poveri, p. 149. Tematizza questo aspetto anche G. CINELLI, Nuto Revelli, cit., p. 126.

27 Ovviamente su questa “strettoia” tornerò più avanti.

28 N. REVELLI, Mai tardi, cit., p. 261.

29 G. CINELLI, Nuto Revelli, cit., p. 82.

30 Cfr. N. REVELLI, Il disperso di Marburg, Torino, Einaudi, 1994.

31 ID., Mai tardi, p. 153.

32 ID., La guerra dei poveri, p.150.

33 G. CINELLI, Nuto Revelli, cit., p. 20.

34 Nelle pagine di Mai tardi, più volte si coglie invece la simpatia di Nuto per il “nemico”. russo.

42 N. REVELLI, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 51 Queste parole sono state scritte molti anni dopo che Nuto le aveva pensate, ma valgono anche per il suo pensiero maturo.

43 N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 16.

44 Dovrei dire “sincerità” – ma questa è scontata.

45 N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 114. Ho saltato un punto interrogativo legato al contesto della frase, che però avrebbe deviato il senso dell’affermazione.

46 ID., La guerra dei poveri, cit., p. 168.

47 Questa è una frase compresa in La guerra di poveri, cit., p. 127.

48 Determinate dall’autorità legale degli stati (sovrani) che vi sono impegnati, da una formale dichiarazione di guerra, dall’applicazione delle regole del diritto dei conflitti, ecc. Nel nostro caso potremmo dedurre che la guerra “vera e propria” è quella senza regole, senza limiti.

49 Sarebbe questo l’unico caso a cui si potrebbe applicare la definizione clausewitziana di “guerra assoluta”, cfr. C. VON CLAUSEWITZ, Della guerra, trad. it., Milano, Mondadori, 1970, Libro VIII, II.

50 N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 127.

51 Poco più avanti Nuto aggiungerà: «la nostra è guerra partigiana di montagna, contro i tedeschi: guerra vera, quella che gli alpini chiamano “spessa”», (p. 280). Allo stesso ambito può essere riferita un’altra delle distinzioni che Nuto evidenzia, quella tra il “colpista” e il “combattente”, laddove il primo sarebbe lo spregiudicato e audace autore di un’azione coraggiosissima, ma che finisce per logorarsi e crollare, mentre il secondo è sorretto dalla costanza di un coraggio cosciente e da una ferma volontà, che resiste alla stanchezza e allo sfiancamento; cfr. La guerra dei poveri, cit., p. 208.

52 N. REVELLI, La strada del Davai, Torino, Einaudi, 1980 (1966), p. XIII.

53 N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 168.

54 Ivi, p. 149. Nuto poteva ben commentare: «io la guerra l’ho vista per quello che è, né tutta eroica né tutta bella, anzi assai più brutta che eroica», in N. REVELLI, Il testimone, cit., p. 28.

55 ID., La guerra dei poveri, cit., p. 373.

56 ID., Mai tardi, cit., p. 62. Questo riferimento mi colpisce straordinariamente perché cor- risponde a una delle rappresentazioni pittoriche più significative della Grande guerra: così C. R. W., NEVINSON, Scoppio di granata (London, Tate Gallery, 1915); CH. MARTIN, La folie de la guerre (s.d., s. l.); F. VALLOTTON, Verdun (Paris, Musée de l’Armé, 1917), tra gli altri, evocano la stessa immagine del cono luminoso formato dalle esplosioni; cfr. L. BONANATE, Dipinger guerre, Aragno, Torino 2016, II, II, 1 – una continuità che sembra confermare l’“unitarietà” del fenomeno guerra.

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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