Cattività

Ventimila battute sotto i mari
Cattività
di Emma Monti

Giorno 1. Incipit.

«Che hai?»
«Ho dormito male.»

Adriana esce dalla stanza, una mano sullo stipite.
Ed è tra le lenzuola, di nuovo, il peso della trapunta sulle gambe, tese, ferme.
Due file, separate. Uomini, donne. Gli occhi a sfiorare l’asfalto, la strada sconnessa. Una porta in fondo. Una luce taglia di netto la soglia. Adriana non capisce se provenga dall’interno o sia il sole che taglia la giornata in quel modo innaturale.
Esci.
La voce la riporta indietro, mentre l’acqua scorre nel lavandino, le mani di Adriana sotto il getto caldo, l’aria satura, lo specchio appannato.
«Cosa stai facendo?»
«Non lo so.»
Adriana chiude il rubinetto e raggiunge la camera da letto. Lo sfiora appena, con noncuranza come se avesse paura anche solo del contatto.
Si siede sul bordo del letto e si infila i collant.
«Non fai la doccia?»
«No, non oggi.»
La fila delle donne è ordinata, regolare. Gli uomini si assembrano, si spintonano. Qualcuno fa una battuta che rimane sospesa nell’aria ferma. Una donna abbandona il suo posto, si avvicina all’uomo, gli dà uno schiaffo a mano piena.
«Che ti prende, stronza?»
«Nulla»  risponde lei. «Devi stare zitto. Hai capito?»
La donna alza la testa. È Adriana, anche se i giorni sembrano aver fatto un lavoro pietoso sul suo viso, il corpo appesantito, le scarpe come sformate dal peso.
L’uomo abbassa lo sguardo. Riprende il suo posto, in silenzio.

«Vado a fare la spesa. Vieni con me?»
«No, te l’ho detto. Non ne ho voglia.»
«Perché ti sei vestita, allora? Fatti una doccia, dammi retta, poi va meglio.»

Adriana non risponde. È di nuovo in fila. Davanti a lei una donna, è giovane, più giovane di lei. Piange piano, come fosse una vergogna da nascondere, il viso nel fazzoletto di carta bianco.
«Non devi» dice piano Adriana.
«Sì, lo so. non fa niente, non importa, scusa. Lasciami in pace.»
Alle spalle di Adriana, una signora sui settanta. Dritta come un fuso, muove le labbra, non si riesce a capire se stia dicendo.
Adriana cerca di farsi più prossima. Deve capire. È una filastrocca, o almeno sembra ma le parole sono così dense, vischiose, inafferrabili.

Dài, su andiamo.
Ma non ne ho voglia.
Sì, che ne hai voglia, invece. Metti gli occhiali da sole, non puoi uscire così.
Va bene.

In strada ci sono i lavori in corso. Una escavatrice si infila nella terra umida, scura. I rumori che arrivavano da fuori, riscaldavano le stanze di normalità, di tutti i giorni, di quotidiano. Ora, a vederli, gli operai fanno paura. Adriana si tiene discosta, cerca di camminare dritta, ma l’andatura si flette, come sospinta da una forza cieca, che non riesce a capire.

Giorno 2

Se guardi oltre la prima spianata di verde, ma anche oltre la discesa, immagini l’enorme pozza di acqua piovana che si forma in autunno o alla fine dell’inverno, quando le piogge sono costanti e incontenibili. L’ultimo acquazzone ha alimentato il fiume, aperto passaggi, cambiato l’aspetto del parco. L’aria è umida, quando Adriana raggiunge la quercia in cima al terrapieno che divide lo spiazzo in due, alle spalle del corso d’acqua. Si guarda intorno, non c’è anima viva. Si siede, respira. Il sole batte forte, scalda le ossa. La lontananza è sollievo, riprende il battito, ritmato, costante. Gli occhi sembrano non incontrare ostacoli; sottovuoto i rumori, solo ricordi sfocati, il tramestio di passi, le frenate improvvise, i clacson impazziti, le chiacchiere spigolose delle persone assembrate davanti al supermercato. Una sforbiciata di tempo per pensare, un boccata di vuoto, per allargare polmoni e cuore.
Solo allora lo vede, sulla destra, in fondo al sentiero. Un uomo, sui cinquanta, forse più anziano. Avanza piano, trascinando le gambe. Adriana pensa che, in fondo, parlare con qualcuno, a una distanza di sicurezza, potrebbe essere un bene. Si alza, si incammina piena, evitando la pendenza, segue il declivio.
All’improvviso si rende conto che l’aria ha perso calore, consistenza. È rarefatta e insidiosa, penetra sotto i vestiti, si insinua tra i capelli, lambisce la nuca. Adriana rabbrividisce. Non guarda avanti, gli occhi a terra, non si rende conto della distanza percorsa, i passi non hanno consistenza, un’alternanza di destro, sinistro, lunghi, sgraziati, a causa del terreno impervio, l’erba che ha ricominciato a crescere bagnata sulle caviglie. Quando alza gli occhi, lo vede. A pochi metri da lei. Forse è anche più giovane di come avesse immaginato. Adriana fa un cenno con il capo, cerca di sorridere; l’uomo ricambia portando la destra alla fronte, una specie di saluto militare. Poi si fa più prossimo. Nel superarla, senza dire una parola, la bocca sigillata, le struscia una spalla con la giacca verde scuro che indossa. Ricorda una mantella, lunga fino quasi alle ginocchia, larga. Passa oltre. Adriana respira, continua a camminare.

Giorno 3. In fila.

«Devi lasciarmi spazio, mi hai sentito?»
«Quante storie. Dove vuoi che vada?»
«Fai un passo indietro, idiota.»
La donna che ha alle spalle le tira i capelli. Un gesto non voluto, un automatismo selvaggio.
Adriana si volta, la spintona forte, le mani sul petto, con cattiveria studiata, invece il peso bilanciato sulle gambe. La donna cade, gli occhiali, già tenuti con lo scotch, si infrangono sul selciato, la lente sinistra si disintegra. Non c’è nessuno che si avvicini per darle una mano. Alla fine, recuperati quel che resta degli occhiali, ci pensa da sola. Si tira su a fatica, raggiunge Adriana.

«A tavola.»
«Cosa?»
«È pronto.»
«Sì, grazie, arrivo.»
Adriana scrolla le spalle, si alza, cammina piano, appoggiandosi agli stipiti, guadagna la cucina. La tavola è apparecchiata come in un giorno qualunque. È un giorno qualunque.

La donna ha gli occhiali di sbieco sul naso. Adriana cerca di allontanarsi, di prendere le misure, ma quella le si butta addosso, a peso morto.

«Siediti. Che fai in piedi?»
Adriana scosta una sedia dal tavolo.

Giorno 4.  Rompete le righe

La fila procede con lentezza. Un minuto, un’ora, un giorno. Non si sposta. Adriana cerca di mantenere le distanze. Prende le misure tendendo le braccia, le dita tese. Sente le gambe cedere, ma resta in piedi. Davanti a lei, molti si sono seduti, non hanno rispetto, riducono lo spazio del respiro, si stringono, si sfiorano, si toccano. Adriana avrebbe voglia di urlare ma si trattiene.
«Perché stai lì? Cosa pensi di fare?»
«Chi io?»
«Vedi qualcuno oltre te in questa stanza?»
«No.»
«E allora cosa chiedi?»
Adriana si alza dal water, raggiunge l’ingresso, accende la luce.
La fila riprende a muoversi, piano, solo un paio di passi.
Accanto, la fila degli uomini, scomposta, disarticolata. Adriana vede suo marito, gli fa un cenno con gli occhi.
Lui abbassa la testa, fa finta di non averla vista.
Il comando del ‘rompete le righe’ arriva ogni sera alla stessa ora.
Rompete le righe, urla l’uomo in camice bianco.
E tutti si lasciano andare, rilasciano la tensione del giorno trascorso adagiandosi a terra, così, dove si trovano.
Adriana resta in piedi, si guarda intorno svuotata. Poi, si rilassa, trova un angolo, una posizione. E pensa che domani è un altro giorno.

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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