Camera d’aria

Ventimila battute sotto i mari
di Cristina Pasqua
Camera d’aria
L’insegna recita Tuscia Gomme. Una discesa polverosa si para davanti come una bocca malata, spalancata su denti marci di copertoni, marmitte accatastate e scheletri di biciclette. L’officina, un casermone sgraziato, si trova sulla destra dello spiazzo. Due locali ampi, bui, nonostante le saracinesche alzate. Fuori, sul piazzale, attaccate alla costruzione, come una mano rattrappita nell’atto di stringere un fianco, due rampe di scale portano al primo piano di un’abitazione privata. Finestre con i telai scorrevoli, gli infissi di alluminio anodizzato rilucono al vento, mentre le tende, un tempo bianche, si gonfiano inquiete a contatto con l’aria.

– Buongiorno, ho bucato, che faccio? Lascio la macchina o me la può fare subito?

L’uomo, intento a riparare un tosaerba, alza la testa solo quel tanto che basta per fulminarlo con lo sguardo. Ha la barba incolta, due fessure al posto degli occhi.

– Non so’ io, è lue – e indica fuori.

– Mi scusi, credevo…

ma quello è di nuovo un pezzo unico con l’attrezzo, non ascolta più.

La scritta Michelin ha perso la lettera ‘n’, quel ‘Micheli’ fa pensare più a un cognome che non a un marchio di pneumatici. Sulla porta di lamiera si legge a malapena  “Per chiamate urgenti Sante”, seguito dai numeri sghembi di un cellulare. In quella penombra oleosa, in fondo alla rimessa, si intravede una specie di ufficio, un bugigattolo a vetri. Sante è inscatolato lì dentro, un’età indefinita sotto le unghie nere di grasso, sbeccate dai ferri del mestiere; i denti, i pochi che restano, tormentati dalla nicotina. Nonostante tutto ha una faccia rassicurante, gli ridono gli occhi; la bocca meglio se la tiene chiusa.

– Buongiorno, abbiamo bucato.

– Non c’è problema, faccio subito.

Apre il cofano, tira fuori la gomma e la fa rotolare fin dentro l’officina.

– Bucato? L’avete squartata,’sta qua. Va cambiata.

– Mi tocca cambiarle tutte e due?

– Per forza. E che fai, sennò?

Mara, accaldata, si passa una mano sulla fronte; suo figlio, che finora è rimasto in silenzio, privato del cellulare, inizia a lamentarsi.

– Zitto – gli fa eco – non vedi che ora non si può?

– Lascia! – grida lui, e la strattona.

Un bolo denso e vischioso sale dallo stomaco, si arrampica fino in gola, arriva alla radice della lingua, ma poi si placa e ridiscende. Riuscisse a sputarla tutta quella rabbia di sicuro si sentirebbe meglio. Invece, ingoia piano e cerca di tenere a regime la tensione di quella che tutto sembra tranne una vacanza.

– Va bene, le cambiamo tutte due, non credo ci sia scelta – sta dicendo suo marito, – Pago subito?

– Voi pagate e io ordino. Quella di scorta ve la impresto io. Sicuro, le nuove me le portano presto. Alle brutte, domani o domani l’altro. Voialtri girate poco, ché se forate è roba da carro attrezzi, questa che vi do io è d’emergenza.

– Andiamo a fare il bancomat, allora.

– Tutti? – chiede Mara.

– Sì, perché?

– No, io non ci vengo – fa eco Carlo e batte i piedi per terra.

– Tu ci vieni, eccome.

– Vado io? – si intromette il marito, e Mara pensa che, lì, in mezzo alla polvere, con suo figlio e quella bocca sdentata che parla di extracomunitari all’Albergo del Falco come fossero carne da macello, non ci vuole restare.

– No, vado io. Andiamo? – dice cercando un tono conciliante.

– Io non ci vengo – ripete il bambino scandendo bene le sillabe.

– Su, vai tu da sola. Carlo resta con me – conclude lui che trova sempre la soluzione giusta.

Il gommista è appena fuori dall’abitato, roba di cinque minuti a piedi. Superata la salita e il bar Leopardo, lo sfiato di camionisti e vecchi nullafacenti, tra canottiere, lingue sporche e mani in saccoccia, allunga il passo, in bilico, sul ciglio della strada, tra tubi di scappamento e marmitte di motorini sbiellati. Il bancomat è a due passi dalla chiesa. Mara preleva e riprende la via del ritorno.

Ora il bar Leopardo è schermato dalla mole geometrica di un camion. Mara attraversa la strada sollevata, tra cinque giorni tutto questo sarà solo un brutto ricordo, il gommista e i frequentatori che stazionano davanti al bar Leopardo non li incontrerà più, almeno fino alla prossima estate.

Mentre incespica sulla discesa, la prima cosa che nota è l’assenza della macchina. La monovolume di suo marito non c’è più. L’avrà portata dentro, pensa. Superato l’uomo del tosaerba, sempre a testa bassa come se oltre a quelle lame non esistesse nulla, e oltrepassato il cimitero di carcasse, entra nell’officina. L’odore di grasso e di plastica bruciata le prende la gola. La macchina lì non c’è. Non c’è neanche suo figlio, nemmeno suo marito.

– Scusi…

Sante si alza in piedi e tira fuori la testa dal bugigattolo di vetro.

– Sì?

– No, è che cercavo…

– Un gommista? Ha bucato? Le serve aiuto, sto qua apposta, io.

– No, cercavo mio marito.

– E qua lo cerca?

– Non si ricorda? Ci siamo visti meno di un quarto d’ora fa, ho lasciato qui lui e…

– Ma voi…

– Che dice?

– Voi, dico, la testa, dico, ’ndo l’avete lasciata?

– Cosa? Ma come si permette?

– Mi permetto, perché lei arriva qui e fa la padrona. Cerca chi? Qui non è venuto nessuno. Chieda, chieda pure a Moreno, qua a fianco, sta qua da stamattina. Co’ sta crisi non si batte un chiodo, manco bucano più le gomme.

Mara deglutisce, si stringe nelle spalle. Una volta fuori, è costretta a schermare gli occhi dal sole. Si guarda intorno. Le finestre della casa di Sante sono chiuse, le tende spiombano ferme.

Prende coraggio, rientra nell’officina. Il rumore di una radiolina a transistor copre la voce che ha faticato a ritrovare.

– Ma lei non si ricorda di mio figlio? Quel bambino…

– Bambini? Ma come le viene in mente? Lei non ce l’ha mica tutti i venerdì. Un bambino qui? E che ci viene a fare? Li caccio via peggio dei cani, sciò, sciò! – e agita le mani, come davvero ce ne fossero, di cani, lì dentro.

– Signora mia, se si fanno male qua, so’ cazzi. E chi li sente i genitori? E chi paga?

– Erano qui, le dico, mio marito, mio figlio. Vi siete messi d’accordo, ha detto che avrebbe ordinato le gomme, io sono andata al bancomat…

– Senti signora, vattene. Quella è la porta, non mi rompere più i coglioni che io ci ho da fare.

Mara, ripiegata su se stessa, riprende la strada diretta alla salita, un senso di vertigine le inchioda i passi. Con il fiato sempre più corto oltrepassa quel cimitero di camere d’aria. Quando lo supera, Moreno alza gli occhi dal tosaerba, la guarda disgustato, come se provasse pena, poi con la sinistra allontana una mosca.

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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