Corsia di sorpasso

Ventimila battute sotto i mari
Corsia di sorpasso
Curva dopo curva le luci rassicuranti di Orvieto perdono consistenza e Marcello a fatica segue la strada, le mani di formiche, le palpebre pesanti. Nel buio dei tornanti la linea di mezzeria diventa l’unico riferimento nel grigio ferro della carreggiata. Il concerto in piazza del Popolo, amici ritrovati, musica e vino sfuso a cena, medie chiare a seguire, lo hanno riportato anni e anni indietro. Il superalcolico finale da colpo di grazia non poteva mancare.

– Eddai, famosene n’artra! – aveva detto il Solco allargando le labbra in un sorriso rassicurante.

L’odore di terra e di mosto che si porta dietro hanno sempre fatto pensare a Marcello che la sua è stata una scelta felice. Stessa età, cresciuti insieme nel vicolo tra fionda e piccioni, la faccia del Solco ricorda un foglio stropicciato di sole e vento, ma il sorriso, quello, è rimasto sempre lo stesso.

– Te ti riporta a casa il Garba, io ne devo macina’ di chilometri fino a Castel Giorgio – prova a dire Marcello, ma il barista ha già stappato e versato di nuovo.

Nel momento in cui si chiudono la porta del bar alle spalle e rimettono piede sul selciato, capisce, anche se oramai è troppo tardi per tornare indietro, che le tre grappe di vernaccia invecchiata a dovere del Bar del Corso gli hanno acceso fuochi di stoppie nello stomaco e nella testa.

Quando scende dall’anima di ferro dell’ascensore che lo riporta al parcheggio sotterraneo, dopo aver pagato il ticket a un impiegato inanimato e ritirato il resto di spiccioli dall’apposito contenitore, una volta ritrovato a fatica il settore di appartenenza in quel vuoto pneumatico di tubi di scarico e neon asfittici, apre la portiera della macchina e monta, confortato subito dalla fragranza di pino silvestre dell’Arbre Magique, che pende dallo specchietto retrovisore, e dall’odore di fritto che gli è rimasto appiccicato addosso. Gira la chiave e sorride ripensando alle ultime battute di rito e prese per il culo dei suoi amici, il Solco che si tiene le mani sul pacco per non pisciarsi sotto dal ridere e il Garba che smolla una scorreggia in pieno corso e l’accende pure con il Bic. Fuochi fatui, bercia sgraziato, mentre Marcello batte i piedi per terra e ride, ride come non gli capitava da anni.

Nel 2004 ha sposato Teresa, sei anni più giovane di lui, madre di Castellammare di Stabia, padre di Castel Giorgio. Abito bianco con strascico e matrimonio in chiesa; il Solco, testimone coi lucciconi agli occhi, che porta gli anelli sul cuscinetto di raso bianco e mughetti; il Garba che mastica amaro al tavolo del banchetto perché lo avrebbe voluto fare lui. È da quel giorno che Marcello non ride, tre figli, trentasette anni portati male, mani rinsecchite di fabbrica, occhiaie grigie e sveglia alle cinque per il turno del mattino.

La rampa d’uscita fila liscia, ha sempre paura di rimanere chiuso in quei posti spaventevoli e quando infila il biglietto nella fessura che gli consentirà di far sollevare la barra, e mentre la vede alzarsi, molla un rutto acido frammisto a un sospiro di sollievo.

Superato il bivio, partono le curve. Non è facile tenere la vecchia Punto in riga e la strada sembra divaricarsi come le gambe di Teresa quando la stava accompagnando a partorire, solo la prima volta, le altre due se le è risparmiate. Ride pensando a quanta paura aveva preso quando le si erano rotte le acque e a come avesse pensato al Fiora in inverno, quando esce dal letto e tracima sulle coperte di terra circostanti.

La prima curva a gomito va a buon fine, ma un ciclista, con tanto di giubbotto luminescente, lo mette a dura prova. Procede zigzagando, lo stronzo, come seguisse un suo percorso mentale, manco fosse ubriaco. Perché io?, pensa. E sente il retrogusto di grappa e sigarette che prendono il sopravvento nella sua bocca, la lingua rasposa, le papille gustative abbandonate sul bancone del bar. Mentre si passa la lingua sui denti alla ricerca di un porto sicuro, ne approfitta per mettere in carica l’accendisigari e tirare fuori il pacchetto morbido dalla tasca della camicia. La seconda curva si ritrova di fronte tre ciclisti in fila indiana, e l’ultimo di questi che, per evitare una buca, gli si para davanti e lo scarta a destra all’ultimo minuto. La terza curva va a morire, facile e senza coglioni in mezzo alla strada. La quarta curva, a gomito pure quella, si dischiude sul cimitero comunale, marmo bianco che rischiara notte pesta di lumini e fiori secchi, gli strappa un bestemmione a fior di labbra. E, a seguire, in un ultimo insperato afflato cattolico in ricordo di sua madre, pace all’anima sua, la santa donna che lo spediva a calci in culo a servire messa con quel vestito ridicolo da chierichetto, l’ostia in bocca e i peccati di un bambino di nove anni che mai ha capito a che facessero capo, si fa il segno della croce, togliendo inavvertitamente la destra dal volante, e poco ci manca che prenda in pieno un altro ciclista che arranca in salita.

– Dio caro, ma da ’ndo escono questi?

Le curve successive lo fanno pensare a un tirassegno e, se fosse nella condizione di lanciare freccette, li colpirebbe tutti alla vigliacca, di spalle, i pedali che girano a fatica per l’erta e il fiato alcolico e corto, perché questa torma di avventurieri notturni su due ruote hanno di sicuro mangiato e bevuto della grossa prima di affrontare la salita.

La curva successiva è quella del belvedere. Una sterzata decisa gli ha evitato di finire nella svolta dell’agriturismo La Chiusetta, barra abbassata e frasche a far da contorno. Lo slargo del belvedere gli mette sempre un po’ di languore e, sarà la grappa e il fritto misto che fanno il loro sporco lavoro gastrico, non riesce a non ricordare Teresa ai tempi belli, la macchina parcheggiata in un angolo e i baci rubati al cambio. Pensa anche di fermarsi a prendere un po’ d’aria ma poi guarda l’ora e allora la vede Teresa, sua moglie, dieci chili in più, le tette calate e la vestaglia rosa sintetica piena di pallini da lavaggio, la faccia tirata e un’espressione di rimprovero. Non parla, ma non ce n’è mica bisogno, lui sa cosa le passa per la testa. E ci ha pure ragione. Si è spezzata la schiena tra lavatrici e pavimenti da lavare, tra i piccioni da governare e l’orto, i cardi incartati per l’inverno e i fagiolini, gli ultimi, da raccogliere.

Quando meno se l’aspetta, un gruppo di ciclisti lo sorpassa.

– Stronzi voi, ci fate pure… ma prego, passate, teste di cazzo! Ma ’sti coglioni ’ndo so diretti? E che tutta la strada così mo?

Marcello affronta le ultime curve con il piglio di un pilota di formula uno, la Punto tiene bene la strada ora che il rettilineo si avvicina. Non c’è un lampione acceso e il sonno e la stanchezza non lo spingono per certo a una guida sicura. Ed è proprio prima del rettilineo, prima de Il ritrovo del cacciatore, del Conte e di quello che era il ‘bisteccaro’ che se ne lascia una squadraccia alle spalle e procede spedito fino all’imbocco del bivio per Castel Giorgio.

L’ultimo rettilineo, campi di girasole, il laghetto da pesca e i cartelli di autovelox, lo prendono a tradimento. Si ritrova un ciclista davanti, avrà fatto una volata, lo stronzo, e proprio non lo vede. O meglio, quando lo vede è già troppo tardi, e lo prende pieno. Quello scarta di lato e finisce per campi. Marcello, doppie frecce e il cuore in gola, scende dalla macchina.

– Aho! Aho! – urla. – Ma che cazzo fai? Ce voi fa’ ammazza’ a tutti e due?

È disteso tra il fossato e il campo di erba medica che costeggia la carreggiata. Non si muove. Non risponde. Marcello si avvicina e lo scuote. Niente. Non dà cenni di vita. La strada è deserta, il cellulare scarico. E poi, pure se chiamasse un’ambulanza, ma come e quando ci arriverebbe lì, al chilometro 67 della strada provinciale? Marcello continua a smuoverlo e chiamarlo ma quello non risponde per un cazzo. Non potendo fare nulla, a lume di accendino, lo osserva da vicino.

Ma guarda questi, pensa, guarda che giubbotto. Con questo addosso non senti né caldo né freddo. E lo zaino? Saranno cento euro almeno. Noooo! La borraccia, che spettacolo! Vetro e plastica, guarda che roba! Chissà se ce l’ha un cellulare, ’sto rinnegato. Tiè, Samsung ultimo modello. Sai che foto che fa questo!

Marcello rutta forte e si batte il petto in mezzo alla campagna. Poi lento e misurato spoglia il ciclista dei suoi effetti personali, neanche fosse un manichino dei grandi magazzini. Prende lo zaino, il giubbino tecnico, la borraccia, il telefono e li butta in macchina, sul sedile vuoto del passeggero. Per finire, sente che a casa non ci arriva e si deve liberare la vescica. Così gli piscia addosso.

– La prossima ce pensi du’ a volte gira’ de notte pe’ ’e strade!

Marcello rimonta in macchina e mette in moto. Nel buio isolato della campagna, solo il rumore del motore che prende i giri e lo scrosciare di un innaffiatore partito poco prima che la notte lasci il posto all’alba.

Emma Zunz, 2017

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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