Bestiario del dopoguerra

Ventimila battute sotto i mari
 
Bestiario del dopoguerra

Era estate ed era fame. In quegli anni di stomaco vuoto, non c’erano sconti per nessuno. In fondo, non ci si poteva lamentare. Noialtri, che si abitava in campagna, qualcosa da mettere sotto i denti la rimediavamo sempre. Alla una precisa, Leda suonava la campana e, uno alla volta, le gambe trascinate, le spalle basse, tornava la processione silenziosa dei mietitori. Il tavolone era nell’aia, proprio davanti alla porta della cucina. Le scodelle raccoglievano il sudore di uomini piegati dal lavoro, gialli come le stoppie e neri come il carbone, gli occhi da tiroide e i polmoni di pleurite. Si afflosciavano sulle sedie e, dal momento in cui le pietanze erano servite in tavola, non volava una mosca, solo i rumori della masticazione piegavano l’aria ferma.

Erano giorni che Ettore e Amerigo lo tenevano d’occhio. Si era riuscito a infilare nella dispensa la notte prima, solo il diavolo sa come. Aveva la testa grossa, spropositata rispetto alla magrezza del corpo. Vestiva di grigio, un grigio uniforme che non lasciava spazio ad altri colori. Aveva fatto man bassa di quel poco che c’era. Durante la scorribanda, aveva intruppato contro il bottiglione dell’aceto, e la madre, che ricordava un grosso mollusco, agonizzava sul cotto, esalando un odore così pungente da rianimare un reggimento intero. Si era portato via un pezzo di lardo che i Papini, quelli della fattoria oltre i campi di sorgo, avevano regalato a Leda in cambio di iniezioni a domicilio. Si era salvato solo il pane e il lievito madre. La Leda l’aveva rinfrescato la sera prima, lievitava sogni dentro un canovaccio sulla madia. Era finito per terra, pure quello, ma con una lavata si poteva rimediare.

Dietro casa nostra, nella campagna alle spalle di via di Pietralata, scorreva l’Acqua Marcia. Di notte, tra lenzuola ruvide di lisciva, il materasso crepitava di foglie di grano turco, mentre lo scrosciare dell’acqua dai fontanili scandiva un tempo di estate anche per noi che il mare non lo avevamo mai visto. Dalla finestra, il ponentino sospingeva bagliori di fuochi fatui di lucciole e odore persistente di erba falciata e letame.

L’aveva visto sfrecciare fuori dalla porta, il lardo stretto tra i denti, e sparire nel buio, seguito da Ettore e Amerigo. Aveva provato a dargli una voce, ma quelli si erano girati di scatto e con un’alzata di mano l’avevano messa a tacere.

– Ma ci pensa lei che se li mangiano i cani?

Il figlio, che con manovra accorta ha aggirato con la sedia a rotelle il golden retriever sdraiato sul pavimento, fa cenno di non dare peso alle sue parole. Alza occhi e naso al cielo. Teresa, invece, continua a parlare.

– Se li mangiano, eccome.

– In Cina?

– Sì, in Cina. Ma io dico come si fa a mangiare questi? – e con la mano indica il cane che si finge addormentato.

– Però i gatti, in tempo di guerra, se li mangiavano.

– I gatti so’ un’altra cosa. L’ho mangiato pure io.

Quando Ettore era riapparso al limitare dell’aia, stringeva un sacco tra le dita; Amerigo lo seguiva a pochi passi. Aveva un ghigno soddisfatto al punto che si riusciva a vedere il bianco dei denti in bella mostra dalla finestra.

Il giorno seguente, dopo il lavoro nei campi, mentre Leda e le altre donne mondavano fagiolini, i gomiti a strusciare il legno del tavolone nell’aia, li aveva visti sparire nella rimessa per poi uscirne con un sacco di iuta a seguito. Teresa li aveva seguiti con lo sguardo. Quando si era liberata dalle faccende, li aveva raggiunti ai fontanili. Il grosso del lavoro era già stato fatto. Gli avevano staccato la testa, un colpo secco di mannaia, quella che Leda usava per tagliare le zampe ai polli. Ora troneggiava su uno stecco di legno, il pelo a far da mantello, che sembrava di stare al cospetto di un re in ermellino, come quello che aveva visto sul libro di fiabe illustrate della povera Adele, anche se grigio e non bianco.

– Ma che avete fatto?

– Quello che si doveva fare – le rispose secco Amerigo, ravviandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

– Sciò, sciò, fila via! – gli fece eco Ettore, – Corri dalla mamma. Domani spezzatino per tutti. Alloro e rosmarino, servono. Ci pensi tu?

Teresa non aveva risposto, gli occhi fissi sulla mano di Amerigo, il corpo del gatto come un trofeo sotto il getto dell’Acqua marcia.

– Ve’ com’è diventato bianco? – aveva fatto notare Ettore soddisfatto, – Sembra proprio coniglio, così senza testa.

– I gatti, sì, ma i cani… come si fa? Io l’ho assaggiato un gatto, una volta.

– E com’era, ma’? – le fa eco il figlio.

– Era bono. C’era il rosmarino, l’alloro, tutte le erbe. Il sapore era quello del coniglio; i miei cugini l’avevano tenuto per ventiquattro ore sotto l’acqua. Noi ci avevamo l’Acqua marcia vicino casa, scorreva giorno e notte. La carne, trattata così, era diventata bianca e tenera. La testa gliel’avevano tagliata. Uh! Quant’era grossa! Ci avevano certi capoccioni, quei gatti. L’avevano cucinato alla cacciatora, un goccetto di vino e tutto quanto. Quando l’hanno portato a tavola, faceva ’n profumo. C’era una fame da starnutire, figurati se ci si metteva a pensa’ che era.

Quel giorno le lingue dei mietitori erano inarrestabili, più veloci delle mani. All’alba, prima di riversarsi sui campi, una colata di gesso di canottiere bianche a coste larghe e pantaloni marroni, erano passati dalla cucina per una tazza di latte e un tozzo di pane raffermo. Durante la colazione, avevano sentito l’odore, il crepitare del lardo nella padella, ché l’olio era bene prezioso e si usava solo per l’insalata, e poche gocce. Aglio, alloro e rosmarino avevano fatto il resto.

– Che ci avete sui fornelli, sora Le’?

– Una sorpresa per pranzo, caro mio. Va’ a lavora’, che si è fatto tardi, dopo ti lecchi i baffi.

– Io l’ho assaggiato, il gatto, ma ce lo sapevo. Mio cugino, invece. Che storiaccia.

– Perché?

– Perché, perché… quello era debole di stomaco e di testa, pure.

Il figlio la lascia parlare, va fuori a fumarsi una sigaretta. Ha capito che non c’è verso di farla stare zitta.

– Ilario aveva tredici anni. Aveva proprio una passione per i gatti. A differenza degli altri ragazzini, non gli tirava la coda, non gli faceva i dispetti, insomma. Sapete come i sono i ragazzini a quell’età? Tutti cacciatori. Ma lui, no, Iaio era di un’altra pasta. Sognava di avere un gatto tutto suo. A quei tempi era tutto un corri corri da un angolo all’altro, erano sempre in fuga, ‘ste pore bestie. Non sia mai li acchiappava qualcuno, la fine loro era il tegame.

Prima fu l’odore, un odore denso che sembrava una colata di melassa. Sotto al tavolo le gambe non riuscivano a trovare requie e così le mani a caccia di schegge nel legno del tavolone. Quando c’era carne era sempre così. Non capitava quasi mai e quando capitava, anche se era solo un boccone, il palato ci viveva di rendita per mesi. Il tegame fumante al centro del tavolo, un bocconcino per uno, poca cosa, insalata per sciacquare la bocca e un bicchiere di vino spuntato a commento del pasto. Quando la Leda aveva alzato il coperchio, si erano tutti ammutoliti. Il piatto bianco sembrava un deserto con quella porzione minima a farsi varco tra lattuga e pomodori. Era calato un silenzio spesso, come un respiro schiacciato dal guanciale, la salivazione difficile da contenere.

– Ci avete l’acquolina in bocca, eh? – non si trattenne Leda facendo porzioni.

Schioccavano lingue e sospiri in quel silenzio da tavola, un silenzio insaziabile da fame nera. Solo Iaio, il cugino di Teresa, aprì bocca per parlare.

– Bono, zi’, che è?

– Zitto e magna – gli rispose secca Leda.

– A quei tempi non la facevano mica la lavanda gastrica, ma quella sarebbe servita, al povero Ilario. Pure morto presto, pora creatura. Faceva il muratore e un giorno a Terracina, bum, secco. Ha fatto un volo da un’impalcatura e buona notte al secchio. Ci aveva solo diciassette anni, manco alla maggiore età è arrivato.

– Mi dispiace.

– Cara mia, capitava spesso, e pure oggi. Che non li senti i telegiornali?

Ilario aveva piegato occhi e collo e con la forchetta aveva cominciato a disegnare ghirigori con la salsa dello spezzatino nel piatto bianco.

– Vuole sape’ che è? Ma dico io, zitto e magna. E ringrazia il signore – aveva tuonato la Leda.

Amerigo era stato il primo. Da capotavola, e via via tutti a seguire, gli uomini avevano iniziato a intonare un miagolio sommesso, cresciuto di intensità fino a raggiungere Ettore, che sedeva all’altro capo.

Ilario aveva alzato la testa dal piatto ed era fuggito via, la sedia era rovinata sulla terra secca alzando un polverone.

L’avevano ritrovato a sera. Era nel pagliaio, ricoperto di stoppie. Aveva dato di stomaco e continuava a farlo, solo succhi gastrici ché aveva mandato giù neanche un boccone scarso. Leda l’aveva tirato su di peso e gli aveva allungato uno scappellotto, prima di finire tra le grinfie di Ettore e Amerigo che l’avevano riportato a casa a calci nel sedere. Teresa li aveva spiati dalla finestra, dalla feritoia degli scuri semichiusi.

– Era estate, era tempo di fame, cara mia. Si mangiava tutto, pure le ramoracce. C’era poco da storce’ il naso.

luglio 2019

Grande come una città
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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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