Non c’è da stupirsi se l’Italia dei privilegiati si rifugia in Portogallo

L’economia ci spiega la decadenza italiana. La fotografia sull’Italia (e sugli italiani) di oggi la restituiscono quattro o cinque scatti di macro-statistica economica che fanno capire con irreversibile precisione la decadenza del sistema-Paese e il nostro confinamento nel vagone di terza classe dell’Euro. Il lavoratore italiano dal 2000 al 2017 (rilevazione Censis) ha visto aumentare il proprio stipendio di 400 euro lordi (mediamente 250 euro netti), un’inezia e una bazzecola rispetto al range (5.000-6000 euro) di Germania e Francia. L’esempio tipico è quello dello stipendio di un insegnante, palesemente sottodimensionato rispetto a quello di un collega occidentale. Contratti di lavoro non rinnovati, integrativi statici, ridimensionamenti per stati di crisi e cassa integrazione, riducono ulteriormente il valore di uno stipendio italiano. Però per quote di lavoro pro capite l’italiano lavora di più del collega tedesco e francese.

Bella contraddizione, non vi pare? Anche perché è dal 1969 che non si parla più di riduzione dell’orario di lavoro (argomento ora rispolverato dal nuovo responsabile dell’INPS Tridico), salvo una fugace resipiscenza (v. Bertinotti) delle 35 ore, all’inizio degli anni ’90 sull’onda dell’esempio francese. “Lavorare meno, lavorare tutti!”. Ci si siamo dimenticati di uno slogan che inneggiava alla libertà di gestire una vita ricondotta alle passioni fuori dall’orbita del lavoro in un Paese in cui gli indici di disoccupazione sono sempre allarmanti. D’altra parte con la discutibile riforma del Jobs Act di renziana memoria i lavoratori sono aumentati da 22 milioni a 23 milioni. Ma questa milioncino di occupati in più contrasta con la vistosa diminuzione delle ore d’impegno conseguente all’adozione di moduli sempre più esasperati di lavoro temporaneo: non a mesi ma anche a settimane, a ore e a giorni, ricalcando una sepolcrale profezia di Massimo D’Alema di inizio millennio (“Dobbiamo abituarci a forme diverse dal lavoro fisso”).

Il peso del debito pubblico ricade su ogni nuovo nato in un Paese di sempre più ridotta natalità (1,24 figli per famiglia, fonte Istat). Ogni neonato nasce con un debito virtuale di 38.000 euro che potremmo compartecipare a tutti gli stranieri di diverso status che prendono con fierezza e orgoglio la cittadinanza italiana. Tanto per avere un confronto internazionale possiamo ricordare che un neonato norvegese si affaccia al mondo con un credito sovrano di 161.000 euro. Dunque la forbice sperequativa tra il nostro mondo e il loro, regno di fortunate creature, è di circa 200.000 euro. Ma torniamo al lavoratore standard italiano. Lo Stato non lo tratta bene, vaneggia di patrimoniale, già in atto, per il peso di alcune proventi indotti (46 miliardi complessivi per imposte su casa, auto, tivù e investimenti finanziari) ma non riesce ad abbassargli le tasse (ora con un’incidenza media in crescendo pari al 45,4%), continuando a non incidere sul cuneo fiscale, garantendo servizi di welfare (vedi anomalia Roma) assolutamente non proporzionati a questo prelievo fiscale. Eravamo quasi l’unico Paese dell’Unione Europea non dotato di un reddito di cittadinanza, rimaniamo uno dei pochi Paesi europei (ora 6 su 28) a non avere un salario minimo legale, ovvio deterrente per la legalizzazione potenziale del lavoro nero, irregolare, mal pagato. L’impatto dell’Euro, secondo la fonte cepStudy, è stato terrificante generando per un tedesco un guadagno complessivo di 23.000 euro nell’arco cronologico 1997-2017 e per l’italiano una perdita di 73.605 euro: terrificante! Ma l’italiano resiste. Avvilito e rancoroso, secondo il rapporto Censis, dominato dal sovranismo psichico, riesce ancora a detenere in banca circa 4.400 miliardi su un dominio complessivo di 8.500 miliardi (soprattutto proprietà immobiliari). Di questa imponente cifra, un patrimonio che non ha pari in Europa, tiene immobilizzati su conti correnti passivi circa 1.400 miliardi. Dato che non si fida dello Stato accumula, risparmia. Ogni vincita viene trasformata in accumulo e non in un investimento economico che, secondo i teorici della crescita, potrebbe muovere l’economia. Lo specchio per capire che razza di Paese statico e immobilizzato (dalla burocrazia, anche) sta in queste cifre che documentano una schizofrenia di sistema. Se si aggiunge che il Paese illegale e/o criminale, tra mafie, corruzione ed evasione fiscale, costa 550 miliardi all’anno c’è ancora da meravigliarsi sulla sopravvivenza del sistema-Italia e si comprendono le vie di fuga. Come la delocalizzazione, soprattutto in Romania, per abbassare sensibilmente il costo del lavoro. E nessun Paese europeo tassa le pensioni come lavoro dipendente. Non c’è da stupirsi se l’Italia dei privilegiati si rifugia in Portogallo.

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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