Homo ethicus-œconomicus

Dopo la seconda lezione Non possiamo vivere senza la politica, a cura della Scuola di Politica Popolare di Grande come una città, con ospite il Professor Mario Tronti, siamo orgogliosi di pubblicare, per gentile concessione dell’autore, il saggio tratto da Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (Il Saggiatore, 2015).

 

Zarathustra felice perché la lotta di classe è finita.
Friedriech Nietzsche, Al di là del bene e del male

Per quanto l’uomo possa essere supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni princìpi nella sua natura che lo inducono a interessarsi alla sorte altrui e gli rendono necessaria l’altrui felicità.

Sono le parole con cui comincia l’opera prima di Adam Smith che lo rese famoso, Teoria dei sentimenti morali. La sua prima edizione è del 1759 e quindi di molto precedente alla prima edizione della Ricchezza delle nazioni, che è del 1776. Pochi sanno, o ricordano, che il padre dell’economia politica, il teorico del libero mercato fondato su un sistema dell’egoismo, nasce intellettualmente come filosofo morale, tiene lezioni di etica e giurisprudenza a Glasgow prima di dare sistemazione classica allo spirito economico del mondo, moderno.
In verità, la traduzione italiana a cura di Adelino Zanini ha bene espresso una recente riconsiderazione dell’opera smithiana, nelle sue molteplici articolazioni, epistemologiche, etiche, storiche, economiche. Smith parla oggi come «filosofo ed economista». E quando andiamo a saggiare di che segno sia questa filosofia smithiana, la ritroviamo farsi carico in via privilegiata del problema morale. Una moralità, però, come fenomeno sociale, più che come indicazione, constatazione di un ethos sociale, a cui si è rimproverato da varie parti, Max Scheler ad esempio, o il nostro Giulio Preti, una certa indifferenza a istanze individuali di valore. Il clima culturale di provenienza è quell’illuminismo scozzese, che tra xvii e xviii secolo vede personaggi come Hutcheson, Hume, Thomas Reid e altri, in dialogo con la grande cultura inglese di Hobbes e Shaftesbury, Newton e Locke, a loro volta interlocutori della cultura continentale, quella dei Paesi Bassi, Grozio e Pufendorf, ma anche Spinoza, e quella francese, da Descartes a Helvetius. Smith poi conoscerà e frequenterà a Parigi alcuni dei più importanti illuministi francesi. È dentro questo storico laboratorio di idee che maturano lentamente le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. La teoria economica moderna, e con essa una prima fase di stabilizzazione dell’ordine borghese moderno, nasce intrecciata a un grande dibattito culturale generalista, sul modo migliore di corrispondere a quel passaggio d’epoca, aderendo a tutte le pieghe della nuova forma di convivenza, politiche e sociali.
Di qui, la forza di presa, la solidità empirica, la potenza di radicamento, la capacità di durata delle nuove leggi economiche di movimento dei nascenti spiriti animali capitalistici. Lo scambio, monetario prima, produttivo poi, vuole come premessa l’associarsi degli individui. Ecco la morale che precede l’economia. La morale del Moderno è la filosofia del Mercato. Oggi si dice morale, etica, come fossero termini equivalenti, o peggio identici. Non lo sono. Hegel, il grande sistematore della concettualità moderna, chiarirà e distinguerà definitivamente. Moralität, Sittlichkeit: moralità, cioè proponimento e colpa, intenzione e benessere, bene e coscienza; eticità, cioè famiglia, società civile, Stato. Tutto questo si ritrova, in nuce, pre-dialetticamente, già in Adam Smith. La teoria economica diventerà una triste scienza specialistica, ma il suo atto di nascita moderno la vede intimamente intrecciata a una concezione generale dell’uomo e del mondo umano, a una possente, vincente, decisione antropologica.
Si trattò all’inizio di scegliere tra due antropologie, una fortemente negativa l’altra moderatamente positiva. Da un lato Hobbes e Mandeville, dall’altra Shaftesbury, Hutcheson, in parte Hume. Nomi e pensieri che attraversano la Teoria dei sentimenti morali di Smith: dove si cerca di cogliere la verità dell’una e dell’altra posizione, in un luogo intermedio, che prevede anche la preferenza e la stessa esistenza di un «io medio sociale». La concezione pessimistica dell’uomo dell’età della transizione al capitalismo diceva troppo crudamente troppa verità sul nascente individuo borghese: la guerra di tutti contro tutti poteva essere pacificata solo con un potere leviatanico, oppure erano solo i vizi privati che potevano assicurare le pubbliche virtù. È la concezione ottimistica dell’uomo che dà inizio alle grandi ideologie: non è la paura reciproca, ma una «calma» disposizione degli affetti, e dunque una benevolenza universale fondata su un ragionevole amor proprio, che sta alla base dell’industriosità umana, nel crescere insieme di bene pubblico e felicità individuale, nella corrispondenza tra mondo morale e mondo naturale. Smith sa che è più vera la prima concezione, ma è più utile la seconda. E tuttavia nel passaggio dalla filosofia morale all’economia politica, in lui, le due prospettive antropologiche si tengono.
Gli interpreti si sono scontrati sul «problema Adam Smith», sulla contraddizione tra il concetto di «empatia» della Theory e il concetto di «egoismo» della Enquiry. Oggi, in età postideologica, si ritiene superata la contraddizione tra i «due Smith», ma senza vederne la complementarità. L’economista non solo non ripudia il filosofo, ma quella filosofia si colloca alla base della sua economia.
La «mano invisibile», forse l’espressione per cui Adam Smith è più conosciuto, sta nel trattato di filosofia morale prima che nel testo classico di economia politica. Leggiamo nella Teoria:

I ricchi […] malgrado il loro egoismo e la loro ingordigia naturale, malgrado essi facciano conto solo sul loro proprio interesse, malgrado l’unico fine a cui essi volgono le fatiche delle migliaia di persone da loro impiegate sia l’appagamento dei propri vani e insaziabili desideri, essi dividono coi poveri i prodotti di tutti i miglioramenti conseguiti. Da una mano invisibile sono guidati a fare quasi la stessa distribuzione dei beni necessari alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti eguali fra tutti i suoi abitanti, e così, senza volerlo e senza saperlo, promuovono gli interessi della società.

Conseguenza:

Nel benessere del corpo e nella pace della mente, tutti i diversi ceti sono quasi allo stesso livello: il mendicante che si crogiola al sole a lato della strada maestra possiede la sicurezza per la quale combattono i re. (A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Bibliotheca Biographica, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1991, pp. 248-249)

È la semplice chiarezza dell’autore classico. Che non è semplicità, tanto meno facilità, di pensiero. In realtà, come i grandi inventori, magari di una sola idea, Smith prende pezzi di idee da varie parti: teodicea naturale, giurisprudenza pratica, meccanicismo newtoniano, comune moral sense. Maneggia e risistema, in rapporto tra loro, categorie diverse: appropriazione e benevolenza, beneficenza e giustizia, prudenza e merito, autoapprovazione, autocontrollo. Jacob Viner ha potuto dire di lui: «il grande eclettico». Ne verrà fuori, intorno a questa figura, a questo soggetto dell’homo faber et mercator, quel concetto di kosmos sociale, e anche politico, di cui parlerà poi, mentre il Novecento girava su se stesso, von Hayek: ordine spontaneo, autoregolato e in sviluppo, ancora oggi la più potente idea di «ordine» che mai sia stata elaborata e praticata. Grandi crolli l’hanno quasi abbattuta, grandi rivoluzioni l’hanno per un momento cancellata, grandi macchine l’hanno trasformata, piccole e medie crisi ciclicamente la aggiustano, ma è sempre lì, quell’idea di «ordine», lontana dalla fine, più o meno, malgrado gli immani mutamenti, come era stata inventata all’inizio.
Così Smith la espone nella Teoria dei sentimenti morali:

L’uomo saggio e virtuoso è sempre disposto a sacrificare il proprio interesse privato all’interesse pubblico del proprio ordine, o della propria comunità. Inoltre, è sempre disposto a sacrificare l’interesse di tale ordine o comunità al più grande interesse dello Stato o sovranità, di cui quell’ordine o comunità è solo una parte subordinata. Dunque, dovrebbe ugualmente esser disposto a sacrificare tutti quegli interessi inferiori al più grande interesse dell’universo, all’interesse della gran comunità di tutti gli esseri sensibili e intelligenti che Dio stesso dirige e amministra. Se egli è toccato nel profondo dalla convinzione costante e totale che questo Essere benevolo e assolutamente saggio non possa ammettere nel proprio sistema di governo nessun male parziale che non sia necessario per il bene universale, deve considerare tutte le sventure che possono capitargli, o capitare ai suoi amici, alla sua comunità, al suo paese, come eventi necessari alla prosperità dell’universo; e quindi, non solo come qualcosa a cui doversi sottomettere con rassegnazione, ma come qualcosa che egli stesso, se avesse conosciuto tutte le connessioni e le dipendenze delle cose, avrebbe dovuto sinceramente e devotamente desiderare. (Ivi, pp. 320-321)

Ecco l’ethos sociale borghese moderno, anch’esso secolarizzazione di concetti teologici, anzi vera e propria «teologia economica», dove trova posto, conseguentemente, anche la soluzione del problema dei problemi, quel «terrore della morte, terribile veleno per la felicità, ma anche grande freno all’ingiustizia umana che, affliggendo e mortificando il singolo, salvaguarda e protegge la società» (ivi, p. 12). Ritroviamo in questo Smith filosofo morale una meccanica delle passioni, tutte positivamente riferite a quell’appropriata medietà dell’individuo sociale. Per questo poi nell’opera maggiore potrà concedersi la facile possibilità di tradurre passione e vizio con vantaggio e interesse.
Hirschman vede bene come esattamente a partire da Smith si ha la rottura con la tradizione della contrapposizione tra passioni e interessi, che aveva trovato il culmine con Montesquieu in Francia e con Steuart, proprio in Scozia. Il filosofo apre la strada all’economista, perché tutte le passioni, per «la grande moltitudine dell’umanità», possano essere ridotte a un solo interesse, quello di «aumentare la ricchezza». La scoperta delle leggi non economiche dell’attività economica porta a cogliere, nell’essenza, le leggi del comportamento economico.
L’economia politica – si legge nell’Introduzione al libro quarto della Ricchezza delle nazioni – «si propone di arricchire sia il popolo che il sovrano». In questo, risponde a un impulso naturale del singolo uomo. «A che scopo» troviamo scritto nella Teoria «tutto il trambusto e la lotta di questo mondo? Qual è il fine di tutta l’ambizione e la cupidigia, della ricerca di ricchezza, potere, preminenza?» Risposta: «È soprattutto per i sentimenti degli altri uomini che perseguiamo la ricchezza ed evitiamo la povertà. […] Non ci interessa l’agio o il piacere, ma la vanità» (A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., pp. 65-66). È come per la divisione del lavoro: non è l’effetto di una saggezza umana. È solo la conseguenza – dirà nelle prime pagine della Ricchezza – di una tendenza della natura umana a trafficare, a barattare, a scambiare una cosa con un’altra. Tendenza che riguarda tutti gli uomini e solo gli uomini. «Nessuno ha mai visto un cane fare un vero e deliberato scambio di un osso con un altro cane.» La verità è che

l’uomo ha quasi sempre bisogno del soccorso dei suoi fratelli ed invano egli l’attenderebbe soltanto dalla loro benevolenza. Avrà più probabilità di ottenerlo, se potrà volgere a proprio favore il loro interesse, mostrando loro che tornerebbe a loro vantaggio fare per lui quello che egli richiede da loro. (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, utet, Torino 1958, p. 17)

Volgere a favore proprio l’interesse altrui, questo ci comanda l’imperativo etico dello scambio universale del libero mercato.
Marx ha speso una vita e ha consumato un’opera a dimostrare che l’economia politica classica voleva far passare l’individuo borghese per l’uomo di natura. E non era solo apparato ideologico di mascheramento. Era questa una necessità strutturale del meccanismo di funzionamento della produzione. E se dovessimo constatare, a questo punto terminale della storia moderna, che quell’individuo borghese medio è veramente diventato l’essere umano naturale? L’occupazione capitalistica del moderno esattamente questo ha prodotto: la realizzazione, tendenziale ormai per «la grande moltitudine dell’umanità», dell’imperativo nietzscheano, «divieni quello che sei»!

 

 

 

Mario Tronti è uno dei più noti pensatori politici italiani (o meglio, come lui stesso ha preferito definirsi, un “politico pensante”). Militante iscritto al PCI negli anni cinquanta del Novecento, nel corso degli anni sessanta partecipa alla nascita dei Quaderni Rossi e fonda e dirige successivamente Classe operaia ed è, in tal senso, uno dei protagonisti dell’operaismo italiano: un’analisi politica imperniata sulla soggettività della classe operaia e sulla centralità politica delle lotte delle fabbriche. Testo chiave nella definizione di questa critica politica è, nel 1966, il suo Operai e capitale. Prende corpo così, in quegli anni in Italia, una sinistra marxista alternativa al PCI, che si svilupperà nei movimenti politici degli anni successivi.

Il giudizio critico sulla capacità trasformativa della visione operaista – e, successivamente, sul movimento del sessantotto – lo portano ad allontanarsi, già dalla fine degli anni sessanta, da questa interpretazione e da questa posizione, e a sviluppare successivamente una teoria dell’‘autonomia del politico’, influenzata anche dalla lettura di Carl Schmitt: una visione ‘realista’ della politica, che pone in evidenza la sua centralità – di quella dello Stato e del partito – come luogo dell’azione e della mediazione (Sull’autonomia del politico, 1977). In questi anni si riavvicina al PCI, entrando a far parte del Comitato centrale, e partecipa, negli anni ottanta, all’esperienza intellettuale della rivista Laboratorio politico. Docente universitario di Filosofia politica e Filosofia morale, è stato eletto senatore per il Pds, nel 1992, e per il Pd, nel 2013. Nel 2004 è diventato presidente del Centro di riforma dello Stato, fondato da Pietro Ingrao.

Negli ultimi anni ha ripercorso criticamente la parabola del declino della sinistra e, più in generale, della politica, come crisi compiuta della modernità e delle prospettive di liberazione umana del Novecento, maturando una visione pessimista della storia, e ha sviluppato un’attenzione particolare alla teologia politica, esito di una valorizzazione della spiritualità come dimensione umana imprescindibile. Tra le sue opere recenti, La politica al tramonto (Einaudi, 1998), Dall’estremo possibile (Ediesse, 2011), Per la critica del presente (Ediesse, 2013), Dello spirito libero. Frammenti di vita e pensiero (il Saggiatore, 2015), Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015) (Il Mulino, 2018).

Grande come una città
Grande come una cittàhttps://grandecomeunacitta.org
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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