Dai patti di collaborazione alla Coalizione dei beni comuni di Roma

Uno spazio accessibile, curato e godibile si presta a divenire anche spazio di legami sociali, affezione al territorio, sperimentazione di nuove forme di creatività e incontro.
Questa dimensione immateriale e affettiva dello spazio si rafforza quando una comunità, legata da relazioni di collaborazione e fiducia, ne reinventa l’utilizzo: uno spazio abbandonato viene reso nuovamente vivibile, un luogo di passaggio si trasforma in punto di incontro, un bene privato viene messo a disposizione della comunità, un territorio degradato diventa bello.
Questa espansione, non fisica ma di senso, dei confini di un territorio si estende se è il frutto non solo di una presa di coscienza e di un’attivazione di cittadini organizzati, ma anche di un’attitudine collaborativa da parte dell’amministrazione.
All’interno di Grande come una città, il gruppo Spazi pubblici e privati lavora proprio per individuare, nel Terzo Municipio, spazi pubblici e privati da valorizzare come beni disponibili per un uso comune. Questo sforzo di inserisce in un movimento più ampio che viene ricostruito e analizzato nell’approfondimento che segue.

Giulia Pietroletti, studentessa di dottorato in studi politici presso l’Università di Roma La Sapienza, analizza luci e ombre di un processo che ha portato, in vari contesti italiani, alla stipula di patti di collaborazione tra cittadini e Pubblica Amministrazione per la cura e la gestione dei beni comuni.
Ciò che avviene nel contesto romano è raccontato, nella seconda parte di questo approfondimento, da Guido Ditta e Katiuscia Eroe che rappresentano la Coalizione per i Beni Comuni di Roma, una rete informale di 189 realtà associative che da anni lotta per ottenere l’approvazione da parte dell’Amministrazione capitolina di un regolamento per la cura, la rigenerazione e la gestione in forma condivisa dei beni comuni romani.

                                                                             la Redazione

Regolamenti per la cura e la gestione dei beni comuni: elementi di successo e ostacoli all’attuazione

Giulia Pietroletti

I Regolamenti per la cura e la gestione dei beni comuni sono dei regolamenti comunali che consentono ai cittadini di curare a adottare dei beni comuni attraverso la stipula di patti di collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione. Molti comuni italiani se ne sono già dotati e molti altri hanno iniziato dei processi propedeutici all’approvazione. Ma perché un Comune dovrebbe utilizzare questo strumento? È davvero utile? Quale contributo può portare al miglioramento della vita collettiva? Secondo alcuni contributi teorici, come le teorie dell’amministrazione condivisa, i Regolamenti possono diventare un possibile motore di cambiamento e innovazione civile e amministrativa ma, a quattro anni dalla prima approvazione, è possibile esprimere qualche considerazione sul loro reale funzionamento che, pur contenendo molti elementi positivi, dovrebbe essere maneggiato con cautela, perché è ben lungi dall’essere una panacea, soprattutto per le amministrazioni in crisi.
I Regolamenti sono ispirati all’atto approvato dal Consiglio Comunale di Bologna nel maggio 2014 e ben 164 comuni italiani ne hanno deliberato l’approvazione tramite delibere di consiglio. Questo genere di regolamento costituisce una unicità italiana e sono ispirati al paradigma dell’“amministrazione condivisa” elaborato dal giurista Gregorio Arena. Questo modello di amministrazione, fondato sulla collaborazione tra amministrazione e cittadini, riconosce questi ultimi come portatori di conoscenze e capacità che l’amministrazione si adopera per valorizzare richiamandosi all’articolo 118 della Costituzione sulla sussidiarietà orizzontale e verticale.
Mentre la sussidiarietà verticale è un principio noto internazionalmente, perché regola i rapporti tra istituzioni di diverso livello, ispirando, per esempio, l’ordinamento dell’Unione Europea, in cui l’Unione interviene, soltanto se e nella misura in cui degli obiettivi non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri, il concetto di sussidiarietà orizzontale è molto più sfumato e soggetto a interpretazioni. Esso è stato introdotto nella riforma costituzionale del 2001 e riguarda i rapporti tra i cittadini – singoli o associati – e le Amministrazioni pubbliche, attribuendo ai primi la facoltà di svolgere una funzione pubblica. I cittadini attivi sono considerati quindi come una risorsa che deve essere valorizzata dalle amministrazioni pubbliche, nell’interesse generale.
Il Regolamento di Bologna è stato il primo esempio concreto di applicazione del principio costituzionale che, dalla sua istituzione nel 2001, non era ancora mai stato calato nella vita collettiva attraverso uno strumento di policy. L’utilizzo di un regolamento comunale per applicare un principio della costituzione costituisce una novità giuridica e forse un’anomalia. Le ragioni possono essere di due tipi: una specificità dovuta alla particolare natura della sussidiarietà, che si richiama alla dimensione della prossimità dei cittadini, ma anche come una espressione di disfunzionalità da parte degli altri livelli istituzionali nel recepire le innovazioni sociali che introducono delle nuove scale di azione.
Dall’epoca della sua prima approvazione, il Regolamento si è diffuso tra le amministrazioni comunali italiane con una velocità sorprendente, anche grazie alla grande opera di divulgazione e advocacy condotta da associazioni come Labsus. Labsus si occupa da sempre di promozione della cittadinanza attiva e, grazie al contributo di qualificati giuristi, tra cui lo stesso Arena, è stata coinvolta in numerosi progetti per il sostegno della cittadinanza attiva, come quello che ha prodotto appunto il Regolamento di Bologna. La diffusione del Regolamento non è però una garanzia del suo universale successo, perché molti comuni non sono poi stati in grado di utilizzarlo proficuamente. Infatti, oltre il 50% dei comuni che hanno adottato il Regolamento non hanno poi stipulato patti di collaborazione e il 25% di quelli che li hanno sottoscritti ne hanno stipulati un numero inferiore a due.
Questo elemento induce a una seria riflessione su alcune caratteristiche di questo strumento normativo che, se non correttamente compreso e contestualizzato, rischia di restare lettera morta o addirittura di produrre effetti indesiderati.
Ansell e Gash, due studiosi americani di governance collaborativa, scrivono che le politiche e gli strumenti che si ispirano a una gestione allargata e partecipata dei processi gestionali e decisionali hanno bisogno di alcune precondizioni per poter lavorare efficacemente e generare degli effetti positivi. Questi comprendono la mancanza di significativi squilibri di risorse o di potere tra gli stakeholder, la preclusione di altre arene in cui gli attori coinvolti possono realizzare i propri obiettivi e un clima di collaborazione e fiducia. Il deficit di questi elementi determina l’insuccesso delle azioni collaborative promosse delle istituzioni e necessita di azioni correttive da mettere in campo prima di attivare un processo di gestione collaborativa.
Nel caso dei Regolamenti per la cura dei beni comuni, l’analisi delle precondizioni non correttamente effettuata ha pregiudicato l’esito positivo della loro applicazione da parte dei comuni che hanno adottato il regolamento senza poi riuscire a metterlo in pratica.
Ma cosa bisogna sapere per capire se il Regolamento può essere uno strumento adatto a migliorare la vita della nostra comunità?
Esistono tre ambiguità di fondo connesse al Regolamento, che vanno conosciute e affrontate perché possono spostare il senso e l’uso del Regolamento in modi diametralmente opposti.
La prima riguarda le motivazioni per cui una comunità decide di dotarsi di questo strumento. Queste possono essere di due tipi: legate alla promozione di una politica di cittadinanza e quindi di tipo pedagogico oppure mirate a utilizzare un nuovo strumento per risolvere delle impasse dell’amministrazione. Quando prevale quest’ultima motivazione, il rischio di insuccesso è più alto perché si manifesta il rischio di considerare i cittadini non come una risorsa positiva in grado di attivare innovazione e processi virtuosi, ma come una risorsa necessaria a sostituire delle inadempienze dell’amministrazione.
La seconda ambiguità investe invece il concetto di sussidiarietà orizzontale e le sue valenze, positiva e negativa. La sussidiarietà può essere definita come quel principio regolatore secondo il quale, se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l’azione. A seconda del lato da cui si guarda questa affermazione si può privilegiare l’aspetto positivo, in cui i cittadini attivi mettono le loro energie al servizio del bene comune o quello negativo, per cui l’azione dei privati si sostituisce alle arene pubbliche e democratiche in una logica di disgregazione e di interessi individualistici.
La terza ambiguità riguarda la funzione e il ruolo delle istituzioni democratiche, visto che questo strumento si richiama a delle teorie, come quelle dell’amministrazione condivisa e della governance collaborativa, che parlano di un superamento del cosiddetto paradigma bipolare che un tempo separava nettamente gli ambiti dello Stato amministratore e dispensatore e dei cittadini/utenti passivi. Le teorie della governance sono state introdotte a partire dagli anni ’90 per giustificare e orientare i cambiamenti istituzionali ed economici introdotti dalle politiche che hanno ridotto l’ambito di azione dello Stato in favore di soggetti di mercato, sposandone le logiche e il modus operandi anche all’interno dell’amministrazione stessa (New Public Management). L’ambiguità a cui facciamo riferimento investe quindi la crisi del modello della democrazia rappresentativa, perché ne propone un correttivo o un superamento, a seconda della prospettiva. Infatti, il Regolamento, in base all’angolo da cui può essere guardato, può essere un aiuto per recuperare efficienza e legittimità all’azione amministrativa, facilitando il rapporto con i cittadini e rendendo semplice l’accesso alla cura dei beni comuni. Ma, cambiando visuale, può invece rappresentare un tassello di un processo di depoliticizzazione, che attraverso una disintermediazione dei rapporti tra cittadini e amministrazione, taglia fuori la politica in base a una concezione che la concepisce come corrotta, discrezionale e quindi delegittimata a curare i beni comuni. Il prezzo della depoliticizzazione è però molto alto perché, pur con le loro inefficienze, le istituzioni democratiche rimangono luoghi pubblici e aperti al dibattito e il loro bypass non cancella le dinamiche di potere, ma si limita a trasferirle su arene non pubbliche e quindi non confutabili.
Possiamo dire che un’applicazione di successo del regolamento si gioca su almeno quattro fattori. Il primo è basato sull’analisi del contesto che deve già essere predisposto a un clima di collaborazione e fiducia tra cittadini e istituzioni e tra cittadini stessi. Il secondo su un’interpretazione del regolamento da parte degli attori che lo mettono in pratica, basato su l’investimento sul valore pedagogico e politico della cittadinanza attiva, anziché sull’utilizzo dei cittadini per risolvere storiche inefficienze. Il terzo sulla valorizzazione delle energie della società civile e non sulla delega ai privati dell’interesse pubblico e l’ultimo su un’azione amministrativa imparziale ed efficiente, invece di una delegittimazione della politica democraticamente eletta.
La riuscita e ancor prima l’approvazione del Regolamento anche a Roma è subordinata a questi fattori e non può prescindere da una seria analisi del contesto. I tentativi di dotare Roma di questo strumento si sono ripetuti a partire dal 2015 e sono stati promossi da una molteplicità di attori politici e sociali, ma senza successo. Dalla prima bozza di regolamento redatta sotto il Sindaco Marino dall’Assessore fino alla partecipazione Masini alla Coalizione per i beni comuni, animata da moltissime realtà sociali quotidianamente attive nella cura, purtroppo spesso informale, dei beni comuni romani, il muro di gomma nei confronti del Regolamento non è stato sfondato. Il fatto che la comunità politica e sociale non riesca a concludere questo processo è già in sé un fatto significativo che dovrebbe farci riflettere sul fatto che forse, in modo stranamente saggio, Roma non si considera pronta per questo strumento e che quello che bisogna fare forse è rimuovere e lavorare sulle condizioni che ne impediscono la realizzazione. E se davvero riusciremo a portare al centro di un programma politico la creazione di un modello di cittadinanza, la valorizzazione delle energie civiche e una politica che si fa pubblica, non avremo solo approvato il Regolamento ma realizzato qualcosa di più grande.

Cittadini e Amministrazioni insieme per la cura dei beni comuni. Una proposta per Roma

Katiuscia Eroe e Guido Ditta

La Coalizione dei Beni Comuni a Roma, oggi una rete informale di 189 realtà associative, nasce dall’incontro/scontro tra una sempre più crescente richiesta di partecipazione da parte della cittadinanza attiva e gli strumenti adottati tradizionalmente dall’Amministrazione Capitolina a tali scopi.
Burocrazia, richieste, assicurazioni, affidi totali di responsabilità, oneri e costi, nessuna partecipazione congiunta e coordinata tra cittadini e Amministrazione. Tempi lunghi e regole variabili a seconda dell’interlocutore. Le centinaia di realtà romane – associazioni, comitati, gruppi formali e informali – che da anni si prendono cura di strade, giardini, parchi, scuole, beni culturali ecc., troppo spesso dimenticati per mancanza di forze e fondi, a Roma si scontrano con tutto questo. Situazione talmente grave per alcuni Comitati che oltre ad attivarsi in “prima persona” in un ricorso al Tar contro il disciplinare approvato nell’agosto 2017 in tema di assicurazioni e modalità di partecipazione, iniziano a interrogarsi, in un numero sempre maggiore, sulle possibili soluzioni, al di là degli aspetti legali.
Ed è in tale contesto che nasce la Coalizione dei Beni Comuni, con l’obiettivo di far adottare, anche dal Comune di Roma, un Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e Amministrazione per la cura, la rigenerazione e la gestione in forma condivisa dei beni comuni romani, aggiungendosi ai 17 comuni del Lazio – tra cui Viterbo e Latina – che hanno già adottato un proprio Regolamento e avviato Patti di Collaborazione.
Abbiamo deciso di farlo presentando, lo scorso 31 gennaio 2018, in Comune, un Regolamento attraverso una delibera di iniziativa popolare, che necessita di almeno 5.000 firme valide, entro tre mesi, per poter essere portata in Consiglio e poi votata. Il tema della cura e della gestione dei beni comuni è talmente sentito, che nel tempo previsto sono state raccolte, per la prima volta nella nostra città, ben 15.000 firme, di cui poco più di 12.000 valide, e depositate il 30 aprile 2018.
Da qui l’avvio dell’iter procedurale per l’esame della proposta, che passa anche per le Commissioni interessate e per i Municipi, per arrivare poi, anche in base ai pareri pervenuti, alla sua votazione in Consiglio. Questo almeno il normale iter. Oppure, qualora la proposta in qualsiasi forma, presenti criticità o pervengano possibili proposte di miglioramento, proponenti e riceventi possono decidere di lavorare insieme e avviare un percorso di collaborazione per migliorare la proposta e far partire poi le procedure di voto su una ipotesi congiunta, cittadini e Amministrazione. Per chi propone i Patti di Collaborazione, basati proprio sulla collaborazione tra cittadini e amministrazioni, non può, questa seconda strada, su richiesta delle Commissioni Patrimonio e Bilancio, che trovare accordo. Obiettivo della richiesta è quello di concordare “un nuovo regolamento”, fermi restando i principi generali di riferimento, che possa meglio adattarsi alle peculiari esigenze dell’amministrazione capitolina, soprattutto riguardo alla cura e rigenerazione dei beni immobili. Percorso al momento fermo, in attesa di un quarto incontro. Due le azioni contestuali portate avanti dalla Coalizione. Da una parte, un’interlocuzione con l’Assessorato all’Ambiente per l’inserimento dei Patti di Collaborazione all’interno del nuovo Regolamento del Verde. Obiettivo al momento quasi raggiunto, essendo presenti nella bozza approvata dalla Giunta Capitolina e in attesa di arrivare alla sua approvazione finale. Dall’altra, la promozione di incontri formativi-informativi sui principi e sulle pratiche connessi all’applicazione del regolamento, con la consapevolezza che la cultura della sussidiarietà non è scontata.
L’approvazione del Regolamento potrebbe, arrivati a questo punto, prevedere tempi non proprio brevi. Ma crediamo che questa sia una battaglia che valga la pena affrontare. Il Regolamento per i Beni Comuni e i Patti di Collaborazione sono uno strumento concreto in grado di avvicinare, in un rapporto di sussidiarietà orizzontale, le istituzioni ai cittadini. Fondamentali per meglio definire i rapporti tra le amministrazioni locali e quanti vogliono offrire il proprio contributo volontario per la cura, la rigenerazione e la gestione dei beni pubblici urbani.
Ma quella della Coalizione per i Beni Comuni a Roma non è una storia isolata. La crescente richiesta di partecipazione dei cittadini alle decisioni e alle azioni che riguardano la cura di interessi aventi rilevanza sociale, infatti, vede la sua legittimazione nel concetto di sussidiarietà, grazie alla nostra Costituzione, con la modifica del Titolo V nel 2001. L’articolo 118, ultimo comma, prevede, infatti, che «Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà». Ciò implica il dovere da parte delle amministrazioni pubbliche di favorire tale partecipazione, nella consapevolezza delle conseguenze positive che ne possono derivare per le persone e per la collettività. 

Un po’ di storia

Il primo Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni urbani, nasce nel 2014, approvato dal Comune di Bologna, innescando un formidabile processo di contagio in tutte le regioni italiane. A oggi, gennaio 2019, sono 189 i comuni, piccoli e grandi, che hanno adottato un proprio regolamento.
Ma era proprio necessaria questa formalizzazione, visto che non mancavano gli strumenti per regolamentare le attività dei cittadini che impegnano tempo ed energie in svariati campi (promozione della cultura, sostegno alle persone in situazione di fragilità personale e sociale, tutela dell’ambiente, tutela dei diritti civili ecc.)?
Di fatto, attraverso i Regolamenti, si è voluto introdurre un nuovo concetto istituzionale, quello dell’amministrazione condivisa, arricchendo il paradigma che lega nelle città gli amministratori e gli amministrati.
Noi conosciamo, fondamentalmente, l’amministrazione tradizionale, quella che vede i nostri comuni e municipi quali gestori della cosa pubblica, amministrata con atti autoritativi, sia permessi che divieti, in ottemperanza al quadro delle leggi.
A questo modello tradizionale, si vuole affiancare – non certo sostituire – quello di amministrazione condivisa che si realizza attraverso la co-progettazione degli interventi effettuata tra entrambi i soggetti interessati: gli amministratori e i cittadini. Alla base di ciò vi è la certezza che le persone sono portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità e che è possibile che queste capacità siano messe a disposizione della comunità per contribuire a dare soluzione, insieme con le amministrazioni pubbliche, ai problemi di interesse generale[1].
Il Regolamento viene applicato, nella pratica, attraverso “patti di collaborazione”, veri e propri contratti tra amministrazioni comunali e cittadini, in cui vengono indicati gli obiettivi da realizzare, senza alcun compenso e a solo titolo di volontariato, definendo gli impegni di entrambe le parti, così che in maniera trasparente si possano verificare gli interventi dei cittadini nelle varie tipologie di beni comuni: beni materiali (per esempio, strade, piazze, aiuole, parchi e aree verdi, aree scolastiche, edifici.) e beni immateriali (per esempio, inclusione e coesione sociale, educazione, formazione, cultura, sensibilizzazione civica, sostenibilità ambientale)[2].

 

 

[1] La differenza concettuale tra amministrazione tradizionale e amministrazione condivisa passa anche attraverso gli strumenti che incorporano i due modelli ed è bene per questo saperli distinguere, tenendo presente che il principale atto dei Regolamenti sono i Patti di collaborazione.
I Patti di collaborazione si distinguono con evidenza dagli atti che hanno natura unilaterale, ovvero che sono emanati dai soggetti di amministrazione. La distinzione non riguarda, evidentemente, solo gli atti che producono effetti negativi (divieti, limiti, espropriazioni, ecc.), ma anche quelli positivi, come le autorizzazioni, le concessioni, le licenze ecc. E non importa neppure se questi atti unilaterali sono emanati prevedendo la partecipazione – anche molto diffusa – dei cittadini: il punto è che, in questi casi, è sempre l’amministrazione che progetta, guida, dirige e decide i rapporti con i cittadini. Al contrario, la caratteristica principale dei patti di collaborazione è la co-progettazione. (Labsus)

[2] Il percorso per arrivare a prendersi concretamente cura dei beni comuni si articola in tre passaggi ineludibili, dall’art. 118 ultimo comma della Costituzione, al Regolamento e infine ai patti di collaborazione, in una scala che va dal massimo di generalità ed astrattezza (la Costituzione) al massimo di specificità e concretezza (il singolo patto), passando per una fonte normativa i cui contenuti sono sostanzialmente uniformi per tutte le amministrazioni locali, ma in cui si esprime pur sempre l’autonomia regolamentare dei comuni. Ognuno di questi snodi è indispensabile e l’uno rinvia necessariamente all’altro, in una circolarità di relazioni che a sua volta è una delle caratteristiche principali della sussidiarietà orizzontale.
Senza il Regolamento infatti il principio di sussidiarietà avrebbe continuato ad essere inapplicato, com’era successo dal 2001 al 2014, ma a sua volta il Regolamento è legittimato dall’essere fondato sulla Costituzione. Senza i patti il Regolamento sarebbe inefficace, ma i patti di collaborazione senza il Regolamento sono per così dire “vulnerabili” perché manca loro quella infrastruttura di principi e regole contenuta nel Regolamento che li protegge e li rende realmente efficaci. (Labsus)

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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