La città come vetrina

La “disneyzzazione” della città

Il parco Disneyland è stato aperto cinquant’anni fa ad Anaheim, un sobborgo di Los Angeles, ed è un luogo che è molto più di un parco a tema, in quanto ha saputo diventare un modello di riferimento per le società occidentali. Si può addirittura sostenere che sia in corso un processo di crescente “disneyzzazione”, come ha fatto lo studioso inglese Alan Bryman nel volume The Disneyzation of Society (2004).

Secondo tale autore, infatti, oggi i principi regolanti il funzionamento dei parchi a tema disneyani costituiscono un modello che è in grado di accrescere il fascino di beni e servizi e vengono adottati in maniera crescente dalle società occidentali e dai loro principali settori d’azione. Sono cioè sempre più largamente seguiti nella realizzazione delle città, dei centri commerciali, dei musei e delle istituzioni sociali.
     La tesi di Bryman può essere senz’altro condivisa, perché l’influenza della “disneyzzazione” risulta evidente se si pensa al ruolo che i parchi Disney esercitano nell’operare come modello per la nostra vita sociale. Le città di grandi dimensioni, o comunque dotate di risorse architettoniche e artistiche in grado di attirare masse di turisti e consumatori, si “disneyzzano” progressivamente per potersi meglio mettere in mostra. Rimettono cioè a nuovo la loro zona centrale, liberandola dai residenti, restaurandone gli edifici e installandovi luoghi fortemente spettacolari (musei, centri commerciali, alberghi, ristoranti e locali di intrattenimento). È il trionfo del marketing sulla cultura tradizionale della città ed è dunque in una realtà completamente “disneyzzata” che le persone trascorrono oggi gran parte del loro tempo libero.
     Il modello di Disneyland si impone però anche nei luoghi dove le persone vivono durante la settimana. D’altronde, la stessa Disney con Celebration, cittadina abitata da 20.000 abitanti vicino ad Orlando, ha dato un efficace esempio di come sia possibile realizzare un luogo urbano “disneyzzato”. Un luogo che, con le sue architetture in stile fine Ottocento e una musica rilassante che invade le vie e le piazze, proietta immediatamente in un mondo di fiaba, dove non c’è bisogno di proteggersi e i bambini possono giocare tranquilli nei giardini. Proprio come a Celebration.
     L’influenza di Disney sui progetti urbanistici è particolarmente evidente nello sviluppo in corso delle cosiddette “comunità-fortezza”, ovvero le città fortificate con guardie e servizi privati che negli Stati Uniti sono già abitate da più di 30 milioni di persone e si stanno diffondendo anche in Italia. In generale, però, è la maggior parte dei nuovi centri urbani che sembra risentire dell’influsso del modello disneyano. Si pensi, per restare a Milano, ad esempi come Bicocca o Santa Giulia. Insomma, sembra che i nostri spazi pubblici siano sempre più ispirati al modello di “città ideale” creato da Walt Disney negli anni Cinquanta. Come Disneyland, infatti, sono progettati e realizzati affinché tutto funzioni perfettamente, non vi siano rifiuti in giro e i rapporti sociali possano svilupparsi senza rischi.
     Esattamente quello che succede in quel centro commerciale costruito alla periferia di New York che riproduce alcune delle vie principali di Manhattan: Madison Avenue, Fifth Avenue, Third Avenue, Canal Street.

Mall

Gli originali sono disponibili a pochissima distanza, ma le persone amano frequentare queste loro copie. Forse gli originali spaventano con il loro carico di realtà, con l’urgenza dei loro problemi concreti. È molto meglio la replica collocata nel centro commerciale, che con la sua evidente natura finzionale è percepita come rassicurante perché si colloca fuori dal tempo, in una dimensione lontana e di sogno.

     Come ha affermato Alain Bourdin (2005), è dunque in atto un passaggio dalla “città come ordine” alla “città come offerta”. Vale a dire che “la città non disegna più un ordine sociale, societale o locale, che si materializza attraverso una organizzazione dello spazio, con i suoi viali, le sue piazze pubbliche e i suoi monumenti. Essa costituisce un sistema di offerte: di attività professionali e d’impiego…, di servizi e di prodotti, di relazioni, di senso, di comportamenti possibili e, più specificamente, di ambienti, di racconti di avvenimenti, di strutture di mobilità. È il gioco di queste offerte tra loro, la loro capacità di strutturare delle domande, l’interazione tra le domande, che organizzano l’esperienza metropolitana e la stessa città” (Bourdin, 2005, pp. 83-84).

2. Disneyzzazione, mcdonaldizzazione o starbuckizzazione?

Il concetto di “disneyzzazione” e quello di “mcdonaldizzazione” del sociologo statunitense George Ritzer (1997) sono in apparenza simili. Bryman confessa di essersi ispirato al precedente concetto di Ritzer, ma ritiene che la “disneyzzazione” debba essere considerata incompatibile con quella tendenza verso l’omogeneizzazione e la standardizzazione che caratterizza la “mcdonaldizzazione”. Pur ammettendo infatti che anche la “disneyzzazione” possa comportare un certo livello di omogeneizzazione, essa si caratterizza per tale autore per la capacità di creare varietà e differenze. A causa di ciò, secondo Bryman, il concetto di “disneyzzazione” si presta maggiormente a spiegare il funzionamento delle attuali società postmoderne, dove dominano la personalizzazione e una grande varietà di scelte per il consumatore, mentre quello di “mcdonaldizzazione” può essere applicato solamente ai sistemi sociali legati al modello industriale e moderno.

MAcDonaldWoody Allen, Il dormiglione, 1973

     Ma che cosa sono i Disneyland sorti dopo l’originale californiano e sparsi in giro per il pianeta – Orlando, Tokio, Parigi, Hong Kong – se non semplici repliche? Non è la varietà, allora, che caratterizza il modello Disney, ma la “clonazione” dello stesso originale in infinite copie con poche varianti locali. Non siamo molto lontani dunque dal modello di McDonald’s, azienda che oggi aggiunge anch’essa alla sua classica formula basata su ristoranti standardizzati delle piccole variazioni locali. Da questo punto di vista, però, McDonald’s e Disney sono sopravanzate dalla strategia di Starbucks, che nelle sue oltre 6.000 caffetterie sparse in 28 Paesi si è spinta più in avanti nell’introdurre differenze in una catena standardizzata. Non è un caso che si sia ispirata alla varietà tipica dei tradizionali caffè italiani. Lo fa però con una catena che deve adattarsi ad una società che ha bisogno della varietà, ma anche dell’omogeneità. Le imprese, infatti, standardizzando ottengono dei vantaggi economici, mentre i consumatori ricercano la gratificazione della varietà, ma anche la rassicurazione dell’omogeneità.

     D’altronde, come sta cambiando lo spazio urbanistico in cui viviamo? Non è forse vero che le città non fanno che smantellare vecchi quartieri con una storia alle spalle per diventare sempre più simili tra loro? La memoria del passato viene cancellata e si insegue la sintonia con un presente che, in quanto privo di radici, non può dare spazio alle identità troppo forti e diversificate. È il presente del consumo, che ha bisogno di favorire al massimo gli scambi e i flussi del commercio, e non tollera identità solide e radicate, ma solo identità leggere che cambiano al mutare sempre più rapido delle mode. Perciò, come sostiene l’architetto Rem Koolhas, stiamo andando verso “città generiche”, sempre più estese sul territorio, prive di confini e omogeneizzate dalla presenza di aeroporti, centri commerciali e palazzi di uffici molto simili tra loro.

3. Lo spettacolo della città

È necessario osservare che le realtà “disneyzzate” sono straordinariamente perfette ed efficienti, ma soffrono di un problema di mancanza di autenticità. Così, come è successo a City Walk (la città artificiale prodotta alla periferia di Los Angeles dagli Universal Studios), si deve inserire l’imperfezione propria dell’umano collocando delle finte carte di    caramella    nella    pavimentazione    delle    strade.    Ma    non    si tratta, appunto, che di finzione.
È pertanto fondamentale che la città ospiti degli eventi spettacolari in grado di attribuirle un’identità. Un’identità effimera eppure efficace, perché la città diventa più piacevole, dunque più “vendibile”, se viene animata attraverso l’organizzazione di spettacoli che prevedono una continua produzione di innovazioni, di variazioni in grado di suscitare un effetto sorpresa.

     Si tratta dello stesso modello che è stato adottato nel Seicento e nel Settecento dalle città “barocche” europee. Cioè da parte di quelle città che trasformavano le loro piazze e i loro palazzi in palcoscenici teatrali in grado di legittimare, con le loro sorprendenti rappresentazioni, il potere detenuto dal principe e dalla chiesa. È stata però, alla fine del Settecento, la vetrina a codificare una logica di “messa in scena spettacolare” e ad estenderla progressivamente all’intera società. Gli spettacoli che si svolgevano nelle città barocche avevano invece dei confini ben delimitati in termini di tempi (carnevale o feste particolari), luoghi (teatri o particolari piazze), ma soprattutto di ruoli specificamente riservati ai protagonisti attivi e al pubblico passivo. Oggi infatti lo spettacolo non è più confinato in momenti delimitati o in luoghi chiusi specificamente dedicati, ma si è ampiamente diffuso nella città, divenuta una vera e propria “città-spettacolo”. È saltata dunque ogni distinzione tra scena e platea. Lo spettatore è immerso nello spettacolo ed è divenuto attore egli stesso perché “Non è più sufficiente assistere a uno spettacolo, o al limite parteciparvi, ma occorre farne l’esperienza, cioè coincidere in toto con lo spettacolo stesso, divenendo registi del proprio divertimento” (Bégout, 2002, p. 62).

MallPiazza Sant’Ignazio di Loyola

     È saltata perciò anche qualsiasi vetrina in grado di produrre una separazione netta tra quello che viene ammirato e coloro che lo ammirano. L’intera città è diventata una vetrina luccicante dove ciascuno è continuamente esposto e ha acquisito il diritto di esibirsi e affermarsi attraverso la spettacolarizzazione. Dove il “corpo-packaging” dell’individuo può mostrarsi incessantemente.
     Ciò comporta però che il singolo individuo sia costretto a pagare le conseguenze della sempre maggiore esposizione sociale con una crescita della sua insicurezza psicologica. Robert Castel (2004) ha sostenuto come questo risultato derivi dalla sostituzione dei legami comunitari tradizionali (che definivano per tutti delle precise regole di comportamento e quindi creavano anche un sistema di protezioni) con il dovere individuale di prendersi cura di sé e di fare da sé (che produce inevitabilmente insicurezza e paura rispetto alle intenzioni del prossimo). Così, gli individui potenziano le loro connessioni comunicative con l’intera cultura planetaria, ma al tempo stesso si rinchiudono a livello locale dietro barriere e sistemi di sicurezza. La città, che era nata per dare sicurezza ai suoi abitanti, è ora sempre più vissuta come il luogo del pericolo. Più che di città, allora, è necessario parlare di territorio. Non soltanto per la crescita abnorme degli agglomerati urbani, che attualmente comprendono circa metà degli abitanti del pianeta e che si prevede saranno abitati nel 2025 da due abitanti su tre (Bauman, 2005, p. 44), ma anche perché “territorio” deriva da “terreo”, ovvero aver paura, provare terrore.

Pubblicato il 31 dicembre 2005 sulla rivista dell’Associazione Italiana Studi Semiotici on-line che ringraziamo.

Bibliografia
Bauman    Z.    (2005),    Fiducia    e    paura    nella    città,    Milano,    Bruno Mondadori.

Bégout  B. (2002), Zeropoli.    Las    Vegas,    città    del    nulla,    Torino, Bollati Boringhieri.
Bourdin A. (2005), La métropole des individus, Le Moulin du Château-La Tour d’Aigues, Éditions de l’Aube.
Bryman A. (2004), The Disneyzation of Society, London-Thousand Oaks- New Delhi, Sage.
Castel    R.    (2004),    L’insicurezza    sociale.    Che    significa    essere protetti?, Torino, Einaudi.
Ritzer G. (1997), Il mondo alla McDonald’s, Bologna, Il Mulino.


Vanni Codeluppi

Vanni Codeluppi

Vanni Codeluppi insegna Sociologia dei media all’Università IULM di Milano. In passato, ha insegnato nelle Università di Urbino, Palermo e Modena e Reggio Emilia. I suoi recenti libri italiani includono I media siamo noi (FrancoAngeli, 2014), Mi metto in vetrina (Mimesis, 2015), Il divismo. Cinema, televisione, web (Carocci, 2017), Il tramonto della realtà (Carocci, 2018), Che cos’è la pubblicità. Nuova edizione (Carocci, 2019).


 

 

 

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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