Ora che sono vecchio e ho più tempo per fermarmi e ricordare, sento che è giunto il momento che io racconti una delle incredibili avventure che ho vissuto. Non vi chiedo di credermi, solo di ascoltarmi. Anche se non riuscirete ad accettare che ciò che udrete l’abbia vissuto davvero, serbate con rispetto questo racconto nei vostri ricordi.
Mi avrete già sentito parlare di un uomo che tutti chiamavano il Capitano Triste.
Conobbi quell’uomo nel porto di Liverpool, nei primi anni dell’Ottocento. È di lui che vi voglio parlare e di come mi ha cambiato la vita.
Era un uomo taciturno, molto alto e magro. Portava sempre un lungo pastrano grigio e un cappello di quelli in uso sulle navi mercantili. Fumava in continuazione, da una pipa chiara, di schiuma. Il fumo azzurro che lo circondava era una sorta di filtro che lo proteggeva dagli sguardi.
Quando ti parlava ti fissava dritto negli occhi, anche se non sempre te ne rendevi conto. Se il vento allontanava il fumo o gli alzava per un attimo la tesa del cappello, allora potevi scorgere i suoi occhi, piccoli, azzurri, penetranti come diamanti grezzi, e ti sentivi perforato fino alla nuca. Ti sembrava che il cervello fosse penetrato, sondato, assimilato e rilasciato privo di forze e segreti.
Si diceva avesse il potere di controllare le persone e trasformarle in ciò che voleva. Si dicevano molte cose di lui, come sempre fa la gente nei riguardi di chi vive in solitudine. C’era chi sosteneva fosse vedovo e avesse molti figli, sparsi per il mondo, chi diceva che fosse stato lasciato dalla donna che amava perdutamente, chi diceva che l’avesse uccisa e fatta sparire.
Quando non era in mare, quindi per poche settimane l’anno, alloggiava nella Locanda del Bue Marino, la migliore della città bassa, all’ultimo piano, quello delle mansarde. Non parlava mai con nessuno, non riceveva visite. Consumava i suoi pasti in orari diversi dal resto degli avventori, spesso in una saletta riservata, quella destinata ai clienti fissi. A volte non cenava e rimaneva chiuso nella sua camera fino al giorno dopo. Talvolta dormiva fuori e rientrava la sera seguente. Tutti i giorni si recava alla sua imbarcazione, nella parte più isolata del porto.
Io ero poco più di un ragazzo allora, e frequentavo il porto come molti miei coetanei, in cerca di lavoro, di novità, di futuro, di avventura. Ero uno dei tanti. Ogni mattina ero al molo, a caricare e scaricare le navi in arrivo o in partenza. Quando non lavoravo, trascorrevo le mie giornate a guardare gli altri che lo facevano al posto mio.
Comunque fosse andata, alla fine della giornata mi lavavo la faccia, riordinavo il vestito, l’unico che avevo, mi infilavo le scarpe e salivo le lunghe scalinate che separavano il porto dalla città alta. Raggiunto il corso principale, mi accoccolavo in un angolo, ad osservare la vita che scorreva in superficie, sulla crosta buona della città: le ragazze a passeggio, le carrozze, i cavalli, i soldati,gli ufficiali in alta uniforme, i commercianti di tabacco, indaffarati a fissare i prezzi e fare affari.
Poi, al tramonto, raggiungevo la fabbrica dismessa alla periferia est, oltre la zona ferroviaria. La vecchia Manifattureria Bolton, abbandonata da anni. Come centinaia di coetanei, avevo il mio piccolo rifugio in quell’alveare umano, fetido e buio. Un letto di assi di legno e un materasso di paglia, incastrato tra due muri. Una tenda fatta con una vecchia vela mi proteggeva dagli sguardi mentre dormivo, un occhio aperto e il coltello nella mano destra, sotto il cuscino.
Dietro la parete esterna avevo posto un piccolo secchio, a raccogliere l’acqua piovana. La mattina mi lavavo il viso che era ancora buio e mi incamminavo verso il porto, prima che si svegliassero gli altri. Arrivare primi poteva voler dire mangiare, secondi digiunare.
Una mattina giunsi al molo che le navi più grandi non avevano ancora tirato fuori i ponti mobili. La nebbia era molto fitta e la luce dell’alba faceva fatica a filtrare. Sembrava che la nebbia fosse lì per dire no, oggi nessuno lavora, oggi è un giorno diverso. Attraverso quella barriera impalpabile, si potevano solo indovinare le sagome scure e immense dei bastimenti all’ancora. Indifferente alla nebbia, il rumore sordo del legno, i suoi schiocchi, i suoi lamenti e urli, il canto del rollio degli scafi, lo sciabordio dell’acqua, la sinfonia delle catene tese e sopra ogni cosa lo stridio di centinaia di gabbiani.
Sentii un piccolo borbottio dietro di me, una mano, grossa e pesante, sulla mia spalla destra. Era il Capitano Triste. Mi diede uno sguardo intenso che mi sembrò volesse dire non avere paura, seguimi, ho fretta. Ero paralizzato. Camminò a lungo, senza voltarsi. Giungemmo di fronte ad una piccola imbarcazione, che non avevo mai notato. Sembrava molto vecchia, e in pessimo stato. Aveva qualcosa di lugubre. Era la sua nave.
Si voltò e mi fece segno di salire a bordo. Con riluttanza, lo seguii. Il legno del ponte scricchiolava così forte che temetti di sprofondare ad ogni passo. Se dal molo il suo aspetto aveva un che di lugubre, vista da vicino la nave faceva paura. Trasmetteva un senso di angoscia e terrore, come se all’interno fossero stati commessi crimini terribili, versato sangue, praticata la tortura. Gli scricchiolii parevano proseguire anche se stavamo fermi. A sentirli bene, sembravano lamenti, gemiti di qualcuno o qualcosa che non trovava pace, che chiedeva aiuto. Avvertii, improvviso, il bisogno di piangere, di unirmi a quel coro di morte, e un attimo dopo, il desiderio di fuggire. Feci per andarmene, ma Capitano Triste mi trattenne, stringendomi un braccio. Mi sentii svenire.
Quando mi svegliai, eravamo al largo. Mi ritrovai disteso su una branda, all’interno di una cabina angusta. Accanto a me, su un piccolo tavolo, del pane e una brocca di latte. Il silenzio era totale. La nave era ferma, oppure procedeva con estrema lentezza. Doveva essere il primo pomeriggio, il sole non era molto alto. Da un piccolo oblò potevo scorgere solo mare, blu scuro, quasi fermo. Mangiai e salii all’aperto. Ad un primo sguardo il ponte era deserto. I gabbiani volteggiavano sopra l’imbarcazione ma non si sentiva alcun grido. In assoluto silenzio, osservavano me, mentre io osservavo loro. Mi diressi allora verso prua, aggirando da destra la cabina di comando. Il silenzio era denso, come una colata di melassa pronta a assorbire ogni suono e ad annullarlo in sé. Improvvisamente il vento cambiò direzione e sentii un odore forte, acre, nuovo. Mi avvolse e stordì, facendomi vacillare sulle gambe. Dovetti appoggiarmi a delle botti per non cadere.
Fu in quel momento che udii nuovamente quei gemiti; a tratti penetranti, come se qualcuno mi urlasse nell’orecchio, a tratti rarefatti, come una eco lontana. Provai ancora un improvviso, intenso desiderio di piangere e urlare, mi rannicchiai su me stesso e chiusi gli occhi. Di nuovo silenzio intorno a me; sentii chiaramente che non ero solo.
Aprii gli occhi: per quello che vidi sul ponte, ancora oggi, faccio fatica a trovare le parole.
La nave mi guardava.
Non sarei stato in grado, in quel momento, di descrivere così le mie sensazioni, ma ne ero certo, mi stava osservando. Poi, alzai una mano a ripararmi dal sole e li vidi. A prua, seminascosti dal sartiame, due grandi occhi, incastonati nel legno scuro, mi fissavano. Uno sguardo triste e profondamente consapevole.
Prima che potessi dire o fare alcunché, gli occhi si chiusero e riaprirono, muovendo due grandi e sottili ciglia. Ero terrorizzato, come mai ero stato prima, la nave lo sentiva.
Fermo, non ti muovere. Non temere. Non ti farò del male – una voce calda e profonda, di donna – Comportati come sai fare, da marinaio. Fai il tuo lavoro e non chiederti altro. Non tornare più a prua. Ora vai.
Mi resi conto che la voce la sentivo, ma percepivo anche il silenzio, ovunque intorno a me; la voce era dentro di me, nei miei pensieri. E li leggeva.
– Ti ho detto, marinaio, non farti domande. Non capiresti – e dopo una pausa – e se tu capissi, moriresti. Dimenticami. Vai, ora!
Giunto a poppa, vidi il Capitano Triste. Accanto a lui, altri quindici marinai, intenti a ricevere istruzioni. Mi fissò con rabbia e mi aggredì: – Dov’eri, bastardo? Sono due giorni che dormi! L’hai portata tu questa bonaccia? Se è così giuro che ti butto ai pesci, avanzo di fogna! – Non feci in tempo a replicare – Da dove vieni, verme? Sei stato a prua? – mi fulminò con lo sguardo.
– No – replicai – Vengo dalla cabina, lo giuro! – Gli altri uomini mi osservarono, poi si volsero a guardare il Capitano Triste, che restò muto per qualche istante, scrutandomi. – Sai che nessuno, per nessun motivo deve recarsi a prua, tranne il sottoscritto? La nave è governabile lo stesso. Stai attento a questo comando, ragazzo, o assaggerai la mia frusta.
Gli altri marinai erano tutti molto giovani, come me, tranne un paio, che mi fissavano seri. Furono gli unici due con i quali non feci amicizia. Non parlavano mai, neanche fra loro.
Ebbe inizio così un lungo viaggio. Solcammo tanti mari e toccammo molte terre, e in ognuna scaricammo e caricammo merce di ogni genere. Quando ci fermavamo per qualche giorno, la nave non attraccava, preferendo fermarsi alla fonda appena fuori dal porto. Non ricordo di aver mai visto Capitano Triste scendere a terra.
Non tornai più a prua.
Finito quell’imbarco, preferii cambiare città e lavoro, trasferendomi a Manchester. Non ho mai raccontato a nessuno, prima d’ora, quanto vidi e sentii quel giorno. Non ho mai più sentito parlare del Capitano Triste e non ho mai più provato quella sensazione di intensa tristezza e disperazione, quel desiderio così profondo e impellente di prendermi la testa fra le mani e piangere.
Marco Tosi