Racconti Edizioni e la forma breve

Lo diciamo spesso: Racconti è la casa editrice che amo, ah no, scusate; riprovo. Racconti è più che altro lo scontro di civiltà (meglio?) di uno speed metal punk con un b-boy, più precisamente io e Emanuele Giammarco. Nonostante venissimo entrambi da Villa Mirafiori e dalla mai abbastanza vituperata facoltà di Filosofia, non ci eravamo conosciuti negli anni universitari perché io sono oggettivamente più vecchio, come spesso mi vien fatto di notare, e mi ero concentrato sui perfidi albionici che hanno inventato il football e il mondo in cui viviamo mentre lui era un indefesso hegeliano pangermanista völkisch che nottetempo fa il bagno nei laghi sassoni intonando cori per Thomasino Haßler gò.

Ci siamo conosciuti sempre in un’aula, a sorpresa non bunker, del master in Editoria, giornalismo e management culturale (qualsiasi cosa esso sia) della Sapienza. Dopo un’iniziale diffidenza, che forse avremmo dovuto assecondare, c’è stato un lentissimo disgelo a suon di battute di Nino Frassica e Corrado Guzzanti, e abbiamo capito di avere una cosa in comune: entrambi volevamo diventare schifosamente ricchi. Per questo è nata Racconti edizioni. Il suggello sono state un’amichevole a Craven Cottage contro il Crystal Palace e un turno di coppa all’Olimpico in cui la Roma affrontava il Viktoria Plzen che hanno cementato, come usa dire tra noi millennial, un’amicizia che fortunatamente è sfociata in un patto Molotov-Ribbentrop di colleganza non belligerante.

Ma bando ai lazzi: Racconti nasce per ovviare a un’esigenza. Ci ritrovavamo in possesso di un precisissimo macchinario d’epoca sovietica che incrocia i dati statistici di ciò che vuole la gente e quello che offre il mercato, e produce una serie di responsi stile oracolo di Delfi sotto forma di bigliettini dei biscottini della fortuna scritti da Jay McInerney interpretabili da un clero formato soltanto alla Bocconi o alla Scuola Holden. Pertanto sarebbe stato davvero uno spreco non metterlo a frutto in un’impresa solo virtualmente non redditizia come una casa editrice che pubblica esclusivamente racconti. Oggi ricordare quei giorni in cui ancora non pasteggiavamo a chablis e tartare di quetzal immersi nelle bollicine di una Jacuzzi al centro del nostro ufficio un po’ ci fa sorridere. L’idea aleggiava nell’aria miasmatica per il Tmb già da tempo. Attorno al racconto si erano coagulate e infine erano sorte come funghi che nemmanco nell’area X di VanderMeer fanzine, osservatori e riviste, mancava solo Natalie Portman.

Da che mondo è mondo le piccole-ma-agguerrite case editrici non-solo-romane si concentrano su aree tematiche oppure geografiche-linguistiche, c’è quella che fa solo i caucasici che si dolgono per il tramonto dell’occidente rilasciando interviste liricheggianti a Paolo Condò, quella che invece preferisce i suonatori di cumbia del realismo magico, chi si concentra sul vudù nella tradizione balcanica e chi chtulhucheggia avendo a cuore la necessaria estinzione della razza umana. Non volendo rinchiuderci in nessuna di queste novecentesche gabbie ideologiche abbiamo benpensato di dare una casa delle libertà alla forma che amiamo (aridaje): il racconto. A influenzarci enormemente in questa scelta sono state le seminali raccolte di Christian Raimo di cui abbiamo entrambi diversi poster compromettenti negli armadi, accanto a quelli ormai sorpassati per esaurita fascinazione di Red Ronnie nel suo periodo nouveau roman. Da questa iniziatica illuminazione è giunta la scoperta che in realtà quasi nessun altro si curava di pubblicare racconti per via di quello che è stato definito un pregiudizio incancrenito che affondava le sue radici all’epoca gloriosa dei lebbrosi (la cui prima attestazione sancisce una qualche comunanza etimologica da cui deriverebbe che i lebbrosi, nell’antichità, erano i primi manoscrittari). Lebbroso è una parola bellissima, ce lo dice Hillman. Di lì a poco ci sono venuti incontro en masse, folle di autori e autrici dunque autoru che scrivevano racconti e agitavano indici ammonitori verso il demi-monde dell’editoria tutta friccichi e pinzimonio che si riunisce in conventicole segrete ai danni del cittadino.

Erano gli anni del Movimento che si è autoassegnato 5 stelle su goodreads. Noi eravamo in difficoltà con cotanta scelta e abbiamo pazientato un anno nelle nostre camerette studiando e meditando, solo saltuariamente uscendo per una boccata d’aria e per comperare l’ultimo di Paolo Di Paolo di cui siamo avidi lettori. Quando nel maggio 2016 sono usciti i nostri primi tre libri in concomitanza col Salone del Libro di Torino siamo stati abbracciati virtualmente e non solo da una comunità che ancora non si è riconosciuta tale, internandosi in qualche struttura adeguata. Da allora, cenacoli di figli di baby-boomer hanno messo mano alle loro tasche sostentando la causa. Il macchinario sovietico, che affettuosamente chiamiamo Epson, in combutta con Jay Mac, ha emesso il verdetto durante una manche di Indovina chi: Se è un lui, ha i baffi, una certa ammirazione per il percorso politico di Pippo Civati (ma compra Il Foglio), un’inconfessabile predilezione per i Genesis anni ’80, indossa camicie a quadri e gira per la città con la bicicletta solo per fare incazzare Francesco Piccolo e i tassinari, è su twitter ma non sa come si usa, ha una band indie fuori tempo massimo perché gli hanno detto che non serve saper cantare, ha letto Proust ma non si vergogna di sapere come finisce Tre metri sopra al cielo, scrive i libri che legge. Se è una lei, ha la frangetta, sa tutto di telefonia mobile ma sfoggia un Nokia 3310, conosce la regola del fuorigioco e quella dell’amico, pensa che il sushi is so 2011 e si meraviglia che in giro non si trovi il kimchi, rolla le sigarette che si fuma lui, ha letto tutto il ciclo della Spada di Shannara ma il film è meglio, a differenza del maschio compra i libri che legge. Entrambi vivono al Pigneto in un brutto monolocale. Dopo il responso del macchinario siamo andati a conoscere i lettori di Racconti scoprendo che in effetti sono proprio solo loro due. Li abbiamo omaggiati di un numero speciale, fuori collana con tutti i racconti mai scritti da Tony Damascelli.

Grande come una città
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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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