Sono il vicequestore aggiunto Luca Wu, ho trentaquattro anni, e sono nato in Italia da genitori cinesi. Sono italiano e sono cinese.
Il primo capitolo del mio romanzo Il Cinese si chiude così. Con il protagonista principale che si presenta. Luca Wu, appunto, è nato in Italia, più precisamente a Bologna, in una famiglia cinese.
Mio padre si chiama Wu Wenhua, detto Silenzioso Wu, e ha sessant’anni. Mia madre si chiamava Wu Jianling, detta Luminosa Wu, ed è morta quando io avevo quindici anni.
Con mio padre sono rimasti in Italia i genitori di mia madre: mio nonno, Li Dingfu, detto Forte Li, che ha settantanove anni, e mia nonna Li Meyu, che ha settantasette anni e un tempo tutti chiamavano Bellissima Li.
È italiano a tutti gli effetti, e allo stesso tempo è profondamente cinese.
Questa duplice natura è il suo elemento fondante.
Per lavoro, viene trasferito da Bologna alla guida del commissariato di Tor Pignattara, e si trova a indagare sull’omicidio di un piccolo imprenditore cinese e di sua figlia.
La foto in apertura ritrae la manifestazione di protesta della comunità cinese di Roma a seguito dell’omicidio proprio di un commerciante cinese e di sua figlia a Tor Pignattara nel 2012.
Questo è il fatto dal quale sono partito per costruire la trama del romanzo, la quale poi ha preso ovviamente una strada tutta sua, diversa dalla cronaca.
Ma sono partito dalla realtà.
E quella manifestazione c’è anche nel romanzo.
Da qui comincia l’indagine di Luca Wu, che per investigare è costretto a penetrare nella comunità cinese di Roma, e la sua duplice natura si rivela essere una spaccatura che non riesce a sanare.
Soprattutto, per svolgere la sua inchiesta, entra dentro un mondo.
E io ci sono entrato con lui.
Tutto ciò che so sulla comunità cinese in Italia e a Roma, lo so attraverso gli occhi del vicequestore Wu.
Qui però devo fare un passo indietro.
Ho scritto Il Cinese perché avevo voglia di raccontare un eroe.
Volevo trovare e seguire un personaggio che avesse in sé dei tratti epici. Che fosse complesso, contraddittorio, profondo e vero, ma che stesse senza dubbio dalla parte dei buoni, coraggioso, forte, carismatico, capace anche di incutere timore fisico, se necessario. Cercavo una figura che mi sembrava mancasse nella nostra narrativa, e in gran parte anche nel nostro cinema e nella nostra fiction televisiva. Un protagonista con un’anima ricca e varia, ma di cui si percepisse anche un impatto corporale. Testa e muscoli, energia, velocità.
Sapevo già che questo personaggio sarebbe stato un poliziotto, fin da quando Giancarlo De Cataldo mi aveva detto di rimettermi a scrivere romanzi, di scrivere un giallo. Volevo un poliziotto diverso dagli altri, uno che fosse non solo abile a cogliere dettagli, mettere insieme indizi e assecondare intuizioni fulminanti, ma anche uno sbirro d’azione, che sapesse sparare, correre, guidare, e all’occorrenza atterrare a mani nude un aggressore.
Sapevo anche che questo sbirro avrebbe fatto un’indagine su una serie di omicidi all’interno della comunità cinese di Roma. Un’indagine che poi a poco a poco si sarebbe allargata fino a comprendere tutta la realtà cinese in Italia.
Le ragioni che mi spingevano in questa direzione erano due: la mia passione per le arti marziali, e la mia passione per la Cina, dove sono stato una prima volta nel 1990, e una seconda a novembre 2017.
Poi c’è stato un incontro determinante, quello con Francesco Sisci, uno dei più importanti sinologi italiani. È stato lui a dirmi: «Per la storia che hai in mente tu, un poliziotto italiano non funziona. Ci sono già in Italia dei carabinieri di origine cinese, perché non pensi a un poliziotto sino-italiano?».
E lì ho sentito quel click nella testa che gli scrittori conoscono bene.
Lì è cambiato tutto. Ho trovato il personaggio che stavo cercando. Il mio eroe.
Con Luca Wu è cominciato il mio viaggio dentro la comunità cinese in Italia e a Roma.
Alla Scuola Superiore dei Carabinieri ho incontrato il tenente Dino Cheng, che poi nel romanzo è diventato il tenente Chen dei ROS. Ho incontrato Antonio Grillo e Mauro Scaglione, due funzionari in servizio al commissariato Esquilino.
Loro hanno iniziato a spiegarmi certe cose, e a farmele vedere.
Esattamente come nel romanzo il tenente Chen fa con Luca Wu.
Da Termini prendiamo per via Cavour, poi svoltiamo a sinistra su Piazza di Santa Maria Maggiore. Siamo nel pieno dell’Esquilino.
«La presenza cinese a Roma ha origine qui» dice Chen. Da Piazza di Santa Maria Maggiore ci spostiamo a Piazza Vittorio. Insegne con caratteri cinesi. Negozi d’abbigliamento, casalinghi, agenzie di viaggio, empori di merci varie. «Qui ci sono stati i nostri primi stanziamenti. Vicini alla stazione centrale, in un tessuto urbano già degradato e multietnico. Siamo abili in questo. Come certi insetti, costruiamo il nido e deponiamo le uova nelle ferite di un organismo, e prosperiamo.»
Accanto alle insegne cinesi, però, ce ne sono altre, numerose, con i caratteri tamil dei cingalesi. «La situazione sta cambiando. In questa zona, si stanno insediando altri gruppi etnici, e i cinesi-italiani di seconda o terza generazione si lamentano perché questi stranieri portano via il lavoro a loro.» Chen sorride. Via Principe Eugenio, via di Porta Maggiore. Poi: «Piazza di Porta Maggiore, altra enclave cinese. Da Porta Maggiore abbiamo seguito le due Vie della Seta romane, la Casilina e la Prenestina, e ci siamo radicati verso le periferie.»
Per scrivere il romanzo ho continuato a percorrere lo stesso tragitto che compiono Luca Wu e il tenente Chen. Da solo, con il mio cellulare per scattare foto e un quaderno sul quale prendere appunti. Sono stato a Tor Pignattara, a Tor Tre Teste, a Porta Maggiore, a Centocelle. Ci sono stato e ci sono rimasto. Per lo più seduto a osservare.
Non sono tanto bravo a fare domande, mi sembra sempre di dare fastidio. Sono più bravo a stare fermo a guardare e ascoltare. A questo va aggiunto che è vero che la comunità cinese è tendenzialmente chiusa, e poco propensa a svelarsi.
Stavo fermo, osservavo, ascoltavo e scrivevo sul mio quadernetto.
Però i cinesi sono anche curiosi. Molto. Esattamente come noi italiani.
Quindi succedeva spesso che fossero loro a fare domande a me, con un atteggiamento misto di sospetto e voglia di capire. A quel punto, una volta ridotte le distanze, tutto era più semplice.
E le cose in comune prendevano il sopravvento sulle differenze.
Le persone, tutte le persone, di fondo desiderano raccontarsi. Anche l’apparentemente inespugnabile comunità cinese.
Ho iniziato così a scoprirla.
Ho otto anni, e sono al Giardino dell’Imperatore, il ristorante di mio padre. Un cliente gli ordina un piatto – un’anatra laccata – e mio padre gli dice che glielo porterà subito. Va in cucina, io lo seguo, e il cuoco lo informa che hanno finito gli ingredienti. Mio padre non lo comunica al cliente, e questi dopo un po’ torna a chiedergli la sua anatra. Mio padre risponde ancora che gliela porterà subito.
Io domando a mio padre perché non abbia detto al cliente la verità, e cioè che non può portargli nessun’anatra laccata.
Lui mi spiega che noi cinesi facciamo così. Ci piace trattare, litigare, ci accaloriamo, però se una certa richiesta non possiamo o non vogliamo soddisfarla, e se non siamo in vena di discutere, allora diciamo di “sì” perché è più facile. Se dici di no, devi discutere subito. Se dici di sì, discuti dopo. E magari tra adesso e dopo, qualcosa cambia, e la discussione non è più necessaria.
Sono stato nei ristoranti cinesi delle chinatown romane, nei bar, nei negozi di casalinghi, ho visto gli enormi container in cui viene stivata la merce proveniente dalla Cina. Ho visto i capannoni di via del Fosso di Tor Tre Teste.
Nei capannoni, c’è di tutto: laboratori artigianali, magazzini all’ingrosso di scarpe, casalinghi, cosmetici, biancheria. I negozianti cinesi dell’Esquilino vengono qui a rifornirsi. Negli ultimi anni, però, vengono anche tanti gli italiani che hanno negozi di lusso e che rivendono come merce pregiata i pezzi acquistati lì. Per comprare in quei magazzini, comunque, vale la “regola cinese”, cioè qualcuno già conosciuto ti ci deve portare, ti deve presentare e introdurre. Se sei conosciuto o introdotto, gli affari si conducono in un certo modo. Altrimenti, all’improvviso, tutti diventano ligi e precisi, ti chiedono la partita IVA, garanzie, e una quantità minima d’acquisto talmente alta da scoraggiarti. E puoi comperare solo all’ingrosso. Perché lì si produce all’ingrosso, si stiva all’ingrosso, e si vende all’ingrosso.
Li ho visti lavorare, i cinesi. Perché se c’è una cosa che senza dubbio i cinesi fanno è proprio lavorare. Lavorano senza sosta, e fanno soldi.
Di nuovo, nel romanzo, è il tenente Chen che spiega a Wu in quale contesto si sta muovendo.
«Non parliamo dell’Italia o di Tor Pignattara. Parliamo di Roma. Io sono qui da più tempo di te, e in un certo senso mi sono specializzato. I dati ufficiali dicono che ci sono quasi 15.000 cinesi residenti, e dal 2010 sono aumentati del 15%. Gli irregolari sono talmente tanti che non riusciamo a contarli. Si parla spesso della chinatown di Milano, o di Prato, ma a Roma di chinatown ne abbiamo almeno quattro o cinque, e tu guidi il Commissariato di una di queste. Se poi pensiamo alle imprese cinesi – regolari, intendo – i numeri fanno girare la testa. A Roma ne nasce una nuova ogni giorno, e ce ne sono quasi 3.000. Negli ultimi dieci anni l’incremento è stato del 250%. Di quelle irregolari non abbiamo cifre, ma sono ancora più impressionanti. E in mezzo a tutto ciò, ci sono le Triadi. Questo è il contesto.»
Ecco, le Triadi.
Il Cinese è un romanzo giallo, quindi non potevo non approfondire i fenomeni criminali legati alla comunità cinese.
«I Wang avevano contatti con le Triadi, qui in Italia?»
«Le Triadi?»
«Sì, la mafia cinese. Crede che possano essere stati loro a mandare i croati?»
«Vicequestore Wu, le Triadi non esistono più nemmeno in Cina. E tutti sanno che la mafia cinese, qui in Italia, non uccide.»
«Non esiste o non uccide?»
Non solo per la trama, ma proprio per capire la comunità in sé. Esattamente come chi volesse comprendere l’Italia non potrebbe non soffermarsi sulle sue mafie.
Allora mi sono messo a studiare.
«Ok. Fine del giro turistico. Cosa abbiamo visto, Wu?»
«Non lo so. Un sacco di negozi e imprese cinesi, di tutti i tipi. Un sacco di cinesi.»
«Hai notato qualcosa di vagamente illegale?»
«No.»
«E dopo il nostro ripassino di Storia, cosa abbiamo stampato in testa?»
«In pratica, che i mafiosi cinesi non vogliono fare i mafiosi.»
Esatto. La differenza principale tra le mafie italiane e la mafia cinese è questa: al mafioso cinese importa poco dei rituali, del controllo militare del territorio, l’uso della violenza è visto sempre come l’ultima risorsa, e di fronte a un problema preferisce corrompere invece di uccidere. Il mafioso cinese vuole soltanto fare soldi, poi fare soldi, e dopo fare ancora soldi. Ed essere riconosciuto soprattutto come uomo d’affari.
I clandestini cinesi che arrivano in Italia contraggono un debito con le organizzazioni criminali che procurano loro i documenti e i mezzi di trasporto. Lavorano gratis per uno o due anni per ripagare quel debito, ma una volta estinto sono liberi di mettersi in proprio a aprire le loro attività. Sono le organizzazioni stesse a fornire il denaro per farlo, e le attività pagheranno sempre una “tassa”, ma questa non sarà mai così alta da metterle in difficoltà. Perché l’organizzazione ha interesse a che l’attività rimanga aperta, così da riciclare denaro e al tempo stesso far girare l’economia.
I moderni mafiosi cinesi ambiscono a diventare uomini d’affari. È così che vogliono essere visti, è così che loro si considerano. E nella loro evoluzione, in realtà lo sono.
In Italia sono attivi diversi gruppi, come ad esempio, nel Lazio, l’Uccello del Paradiso o l’Alleanza Orientale. Hanno rapporti più o meno stretti con le Triadi a Hong Kong, in Cina e nel resto dell’Asia, e pur con tutte le differenze possibili rispetto alle mafie italiane, hanno al loro interno una struttura verticistica e piramidale.
Alla base della Piramide, ci sono i 49: i soldati ordinari. Immediatamente dopo, viene il 415, Pak Tsz Sin, Ventaglio di Carta Bianca, il contabile. A questo segue il 426, Hung Kwan, Bastone Rosso o Placche di Ferro, l’incaricato della sicurezza e della disciplina. Poi il 432, Cho Hai, Sandalo di Paglia, il portavoce, colui che trasmette le informazioni. Poi ancora i 438, gli Alti Consiglieri. Fu San Chu, il Vicario del Capo; Heung Chu, Maestro d’Incenso, l’addetto ai cerimoniali; Mengzheng, il Garante delle Alleanze; Sinfung, Guardiano del Vento, il Responsabile della Sorveglianza Interna.
Infine il 489, San Chu, La Testa del Drago.
Il boss.
Ma comprendere la natura delle Triadi non è chiaramente sufficiente per comprendere la comunità cinese in Italia e a Roma. C’è una parola che ne identifica il nucleo più vero: Guanxi.
Guanxi è una parola semplice che in mandarino rimanda a un concetto molto complesso. Significa “rapporto, relazione, legame”. Per i cinesi è fondamentale. È una vera e propria arte: l’arte di mantenere le relazioni maturate durante tutta una vita. Ci sono genitori che scelgono le scuole per i figli in base alle amicizie che vi potranno stringere. E questi legami sono vincolanti. Guanxi è chiedere aiuto agli amici quando hai bisogno. Agli amici degli amici. Che ti sostengono, ti prestano soldi, danno una mano per la tua attività.
Nella concezione cinese esistono tre tipi di famiglia, quella naturale che comprende moglie, marito e figli, la famiglia estesa che raggruppa più nuclei famigliari, e poi c’è la Chia. È la famiglia “economica”, che ruota attorno a un bene messo in comune, come può essere un negozio, o una qualche attività commerciale. Una sorta di associazione di imprenditori, appunto. Le persone che hanno a che fare con questo bene comune sono legate dal Guanxi, che si estende anche alla loro vita privata, alla loro salute, ai loro problemi personali.
In Cina, quasi tutto è Guanxi.
Se non capisci cos’è Guanxi, non puoi capire nulla della comunità cinesi.
E oggi capire le comunità cinesi non è soltanto una questione culturale o antropologica, è prima di ogni altra cosa una questione economica e sociale. La Cina è una grande potenza, è il secondo Paese più ricco del mondo, nel giro di pochi anni sarà il primo. Possiede gran parte del debito pubblico americano. Ha una penetrazione profonda in Africa.
La Cina sta cambiando il Mondo, la comunità cinese sta cambiando l’Italia.
Le grandi imprese, la tecnologia, l’import-export, ma anche nei piccoli centri i bar che prima erano degli anziani adesso sono dei cinesi, le botteghe storiche che diventano negozi cinesi, i quartieri che mutano, le nostre campagne e non solo le città che si trasformano.
Capire non per difenderci, o chiuderci a nostra volta, ma anzi per trovare sempre più punti di contatto, accordi, terreni condivisi.
Per scrivere Il Cinese ho continuato a farmi i miei giri lungo le Vie della Seta a Roma, e ho continuato a studiare. Ho letto tantissimo. Libri, studi demografici e sociologici, articoli di cronaca e di costume, informative di polizia, atti giudiziari.
Ho scoperto che la grande maggioranza dei cinesi presenti in Italia provengono da una sola regione della Cina, lo Zhejiang, e in particolare da una provincia, quella di Wenzhou.
Nel 1982 mio padre è un silenzioso giovane zencha yuan della Rénmín jǐngchá, è un ispettore della Polizia del Popolo, è sposato da poco con mia madre, che fa la maestra d’asilo, e vivono vicini alle loro famiglie a Caoping, un piccolo centro nella Provincia di Wenzhou, all’interno della regione dello Zhejiang.
Quando pensiamo, come detto, alla chiusura delle comunità cinesi, dobbiamo tenere conto di questo dato. Le comunità stesse sono composte da grandi nuclei familiari, che parlano lo stesso dialetto, hanno le stesse tradizioni, e sono autosufficienti dal punto di vista economico e relazionale.
Ho scoperto, e poi raccontato, che molte cose che pensiamo di sapere sui cinesi sono falsi miti. Come quello che i cinesi in Italia non muoiono mai, o che nessuno ha mai visto un funerale cinese.
I cinesi più anziani tornano in Cina per morire, e funerali cinesi ci sono eccome in Italia, ma sono riti per lo più privati, e molto diversi da quelli cattolici a cui noi siamo abituati.
Il posto è stato adornato con le scritte del lutto in caratteri cinesi tradizionali, ci sono candele rosse e altri fiori, fiori bianchi, ovunque. Una lunga fila silenziosa di persone entra nella palestra. Sono soprattutto cinesi, ma ci sono anche italiani, e altri stranieri. È la gente del quartiere. Depongono altri fiori sulle bare.
Poi i cinesi si accostano a un braciere sistemato in un angolo e vi gettano piccoli fogli di carta gialla ripiegati a forma di barca. Rappresentano il denaro con il quale i defunti potranno sostentarsi nell’aldilà.
Poi, certo, un altro discorso è quello sul traffico di documenti attraverso il quale persone diverse assumono sempre la stessa identità.
Ma ciò non significa che i cinesi non muoiano mai. Solo, vanno a farlo a casa loro.
Contemporaneamente, ho scoperto che alcune leggende metropolitane sono vere: esistono banche clandestine cinesi, ed esistono ospedali clandestini destinati solo ai cinesi.
Ma soprattutto ho scoperto che la comunità cinese in Italia e a Roma non può essere racchiusa dentro definizioni nette. Come ogni altra comunità è fatta di singole persone, e ha al suo interno spinte diverse, a volte opposte. Il vecchio e il nuovo, la tradizione e la modernità, l’appartenenza e il distacco.
Nel romanzo il vicequestore aggiunto Luca Wu si trova di fronte un giovane imprenditore cinese, Alberto Huong. Il loro confronto dice molto.
Huong si prende un momento. Quindi prova di nuovo a spiegarsi, e sembra ancora sincero. Per la prima volta ricorre al dialetto. «Vicequestore Wu, io cerco di fare il mio lavoro, di dare lavoro ad altri, e se posso di aiutare chi è in difficoltà, come con Wang Xinxia dopo la morte del marito e della figlia. Non sono immacolato» torna a indicare i libri contabili taroccati, senza nominarli, «ma sono onesto. Faccio il meglio che posso. Per noi è più difficile, e lei dovrebbe capirlo.»
«Perché anche io sono un cinese nato in Italia?»
«Sì.»
( … )
Quando il tenente Chen è venuto a parlarmi è emersa la stessa questione. L’idea che, essendo entrambi italo-cinesi, allora abbiamo molto in comune.«Non è vero?»
«No, non è vero.»
Non ci assomigliamo. Tutti e due siamo cinesi, tutti e due siamo nati in Italia da famiglie provenienti dalla stessa area della Cina, abbiamo un cognome cinese, un nome italiano, e un nome cinese che non usiamo con gli italiani.
Ma le nostre similitudini finiscono qui. Io vivo questa doppia natura e la frattura che comporta. Huong, no. Anche se veste con completi eleganti, anche se parla un italiano più corretto del mio, rimane un cinese.
Credo che in fondo sia una brava persona. Questa è la mia impressione da sbirro, alla quarta volta che ci incontriamo. E può essere davvero sincero quando parla di sé, glielo concedo, ma resta succube di schemi, modi e consuetudini. Afferma di voler compiere un salto in avanti, però in realtà è prigioniero di una certa mentalità precisamente cinese.
Nulla di tutto ciò mi appartiene.
La comunità cinese, proprio come Luca Wu, è divisa tra due culture. E al tempo stesso anche questa spaccatura è in continua evoluzione.
C’è una giovane donna, nel romanzo, che mette alle strette il vicequestore, proprio come fanno le donne nella vita reale.
Sofia Sun tace per un momento e mi fissa. «Lei è cinese, dottore. Eppure guarda ai cinesi con tutti i peggiori stereotipi. Se qualcuno di noi fa fortuna, o ha un ruolo di rilievo, per forza deve essere disonesto, o addirittura un mafioso.»
«Non mi piacciono gli stereotipi, avvocato. I miei genitori e miei nonni sono cinesi, qualche soldo l’hanno fatto, ma si sono anche sfiancati tutta la vita.»
«Allora perché per il signor Huong e per Vecchio Zhao non può essere lo stesso?»
«Perché conosco la mia gente.»
«Strano, non pensavo considerasse noi cinesi la sua gente.»
«Lei sì, avvocato Sun?»
«Sì. Sono una donna cinese nata in Italia da genitori cinesi a loro volta nati in Italia. Italiana di seconda generazione, quindi. Molto di me è italiano, ma rimango cinese. Non sono una banana.» Gialla fuori, bianca dentro. «Lei, invece, non capisce bene dove stare, vero?»
Luca Wu, con il suo sentirsi sempre diviso in due, ma anche con la sua forza e la sua integrità, rappresenta il presente della comunità cinese in Italia e a Roma.
Penso a mia moglie, e alla frattura tra le parti diverse di me che mi porto sempre dentro. «Io sto dalla parte dei buoni, avvocato» dico. «E voglio prendere i cattivi.»
Poi c’è un altro personaggio, è una ragazzina e compare appena in due scene. Ha sedici anni, si chiama Maria Tan ma tutti la chiamano Mary, ha gli occhi a mandorla luminosi, un piercing al naso, e parla in romanesco stretto. È tosta e sfrontata.
«Comunque, ti hanno detto qualcosa?»
«Manco mezza parola.» Tania piega le labbra in un mezzo sorriso, amaro, che stona sul suo viso giovane. «In questo semo pari, dotto’. Lei è cinese, ma è ‘na guardia. Io so’ cinese, ma so’ piccola e femmina.»
«Tu perché ti sei messa a fare domande?»
«Pe’ lei, dotto’.»
«Per me?»
«Vojo di’, a lei je serve sape’ questa cosa per l’indagine che sta a fa’, giusto?»
«Ma tu che ne sai?»
«Già gliel’ho detto, dotto’. Qua al quartiere se sa tutto de lei. E mica solo qua. Se sa che sta a fa’ n’indagine grossa, che ce stanno de mezzo i Wang e pure qualcun altro “più su”.»
«Sì, è vero.»
«Ecco, a me è venuta in mente la fija loro. La bambina, Profumata Wang… Per questo me so messa a chiede’.»
«Ecco. Appunto. Sei piccola e femmina, ma hai fatto qualcosa che nessun altro qua ha avuto il coraggio di fare.»
Maria Tan è il futuro.
Andrea Cotti (San Giovanni in Persiceto, Bologna, 1971) per anni ha vissuto a Roma, alla Garbatella, dove ha ancora casa. Tra i suoi romanzi, Stupido, dal quale è stato tratto il film Marpiccolo (Alessandro Di Robilant, 2009), e Un gioco da ragazze (2008), che ha ispirato il film omonimo, esordio alla regia di Matteo Rovere. Per il cinema, ha firmato la sceneggiatura di Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (Isotta Toso, 2010), e The Lithium Conspirancy (Davide Marengo, 2012). Sceneggiatore di serie TV – tra cui L’Ispettore Coliandro, Squadra Antimafia, R.I.S. Roma –, nel 2018 ha pubblicato il suo ultimo romanzo Il Cinese per Rizzoli, nella collana Nero Rizzoli.