Il potere del corpo delle donne

C’è chi porta con sé il ricordo degli animi. Io porto con me il ricordo dei corpi. Non conosco la mia anima né quella degli altri. Conosco il mio corpo, conosco i loro corpi. E mi basta.

Salwa Al-Neimi, La prova del Miele, Feltrinelli, 2008

Il 28 febbraio scorso, gli USA e i talebani hanno firmato un accordo di pace in quattro punti, incentrato sul ritiro graduale delle truppe statunitensi dall’Afghanistan e sulla cessazione degli attacchi terroristici da parte degli ex-avversari, e sullo sforzo di contenimento dei combattenti dell’Isis. Ciò di cui non si è parlato e di cui formalmente non esiste traccia, è la spinosa questione dei diritti delle donne nonostante il noto primato dell’emirato nel periodo 1996-2001.

D’altronde, di afghane non ce n’erano al tavolo delle trattative a Doha. Si è evitato, con la loro assenza, qualsiasi tipo di malaugurato intralcio al buon esito dell’accordo tanto voluto da Trump, prossimo alle elezioni presidenziali, e proficuo per i talebani che, di fatto, hanno ricevuto il riconoscimento politico dalla nazione più potente al mondo.

Le donne afghane, dunque, sono state formalmente abbandonate, sacrificate alla real politik sul cui sacro altare ne è bruciata di vergogna umana. Sperare che il tema venga inserito nell’agenda dei colloqui che dal 10 marzo dovrebbero iniziare tra il presidente afghano Ashraf Ghani e il rappresentante dei talebani è pura illusione.

Ma qualcuno ricorda, all’indomani dell’11 settembre, mentre gli Stati Uniti spingevano l’acceleratore per un attacco contro l’emirato del mullah Omar, l’appassionata first lady Laura Bush dichiarare in televisione che le truppe americane insieme ai loro alleati sarebbero andate in guerra per liberare le afghane dal peso del burqa imposto dai barbuti fondamentalisti?

‘L’accordo di pace’ ha il sapore amaro della beffa per le tante attiviste che negli anni si sono battute per un miglioramento della condizione e dei diritti delle donne nel loro paese, contro un governo corrotto e dominato dai signori della guerra rimessi e tenuti in sella dai presidenti americani succedutisi alla Casa Bianca. Queste donne coraggiose vedono ora materializzarsi il loro incubo peggiore: la riammissione nell’agone politico del paese dell’ultima compagine oscurantista.

«Si chiuderà un diabolico cerchio» mi aveva predetto due anni fa Malalai Joya, l’attivista politica ed ex parlamentare che dal 2005 vive sotto scorta in Afghanistan. «Combattere per la giustizia e l’autodeterminazione diventerà ancora più difficile».

Ma le donne afghane non sono le prime, né saranno le ultime, sul cui corpo, che non dimentichiamo è portatore di diritti, si consumano duelli politici che hanno altri fini e intenti. Per fare un esempio, il lungo negoziato sul nucleare, ben 20 mesi, conclusosi il 14 luglio 2015 tra i cinque stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania e l’Iran, non ha mai visto sul tavolo delle trattative la questione di un miglioramento dei diritti civili, umani e delle donne. Pur se più volte richiamati in questo senso da organizzazioni umanitarie e associazioni di dissidenti, le nazioni occidentali, USA in testa, con il beneplacito degli alleati commerciali dell’Iran, Russia e Cina, si sono ben guardati da sollevare ‘fastidi’ ai rappresentanti della teocrazia islamica.

La Repubblica islamica dell’Iran tiene rinchiuse nelle proprie carceri moltissime attiviste per i diritti umani, avvocate, sindacaliste che a vario titolo si sono battute per rivendicare il primato di donne, e anche uomini, a manifestare dissenso contro regole repressive e intimidatorie. Tra tutte, ricordo Nasrin Soutadeh, avvocata finita due volte in carcere, l’ultima luglio scorso a scontare 33 anni di detenzione e subire la punizione di ben 148 frustate. Accusata di ‘collusione contro la sicurezza dello stato’, ‘propaganda contro lo stato’, ‘essere apparsa in pubblico senza l’hijab1 e ‘istigazione alla corruzione e alla prostituzione’, in realtà la ‘colpa’ di Nasrin Soutadeh è di aver difeso tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 giovani donne, anche conosciute come le Ragazze di Enghelab2  Street, che si erano tolte il velo in pubblico per protesta.

Ancora, sono molte le studentesse arrestate e tradotte nel famigerato carcere di Evin a Teheran, a seguito delle manifestazioni svoltesi nella capitale e in moltissime altre città del paese, a partire dal novembre 2019. Se le proteste popolari erano iniziate a causa del malcontento suscitato dall’ennesimo aumento da parte del governo del prezzo della benzina, sono poi deflagrate in vere e proprie manifestazioni di dissenso contro il potere della casta religiosa e dei suoi pretoriani, i guardiani della rivoluzione, i pasdaran.

Le iraniane non si sono tirate indietro e nelle piazze, per le strade sono state le più attive nell’azione di denuncia contro un regime che le opprime in ogni aspetto della propria vita. Diverse sono state uccise, altre arrestate. Alcune notizie sulle violenze fisiche, psicologiche e sessuali sono trapelate dall’interno delle carceri gestite dai temuti pasdaran, rimarcando quanto la pratica repressiva si accanisca maggiormente sui corpi femminili.

Nelle guerre odierne l’esposizione delle donne combattenti catturate o uccise è un dato di fatto. Le offensive condotte dai regolari turchi e dai miliziani al soldo del governo di Erdogan all’interno della regione curda del Rojava nella Siria settentrionale, ne sono solo l’ennesimo esempio. L’avanzata militare è stata contrastata dalle Ypj, le addestrate forze di difesa femminile, salite alla cronaca internazionale durante la coraggiosa difesa e successiva liberazione della città di Kobané dai miliziani del Daesh alla fine di gennaio 20153.

Molte sono state le giovani a cadere sul campo di battaglia, ma più terribile è stata la sorte toccata a quelle fatte prigioniere, vive, dai maschi nemici. Ci sono foto oscene che mostrano il corpo nudo e straziato di una combattente Ypj. E un video, in cui viene ripresa una comandante curda, circondata dai miliziani che l’hanno catturata, derisa e minacciata. I volti di quegli uomini che si filmano con la ‘preda’, al di là del disgusto che muovono, inducono a una riflessione. Sui prigionieri di guerra agisce sempre un’azione di potere coerente con un dato incontrovertibile: “io ho vinto, tu sei il perdente”. Ma quando sono le donne combattenti a essere sconfitte, l’azione di spregio esercitata dal vincitore ha una doppia valenza: una sul ruolo di combattente ricoperto dalla donna, la seconda in quanto femmina.

L’esercizio per l’affermazione del potere lo ritroviamo in situazioni meno estreme da quelle fin qui descritte, come le manifestazioni di piazza. Se guardiamo a quelle esplose in Cile l’ottobre scorso, la repressione della polizia contro i dimostranti portava la memoria indietro al periodo più buio della storia del paese, la dittatura di Pinochet. Dalle testimonianze rilasciate dalle cilene che hanno preso parte alle proteste si è potuta documentare la crudeltà e il sessismo a cui i militari e le forze di polizia le hanno assoggettate. Toccate e quasi spogliate sulla pubblica piazza, esposte agli sguardi mentre venivano trascinate verso le camionette; vittime di atti di violenza sessuale, quale una delle forme di tortura subite all’interno delle gendarmerie.

O in Iraq, dove da mesi i giovani sono mobilitati per protestare contro la corruzione del governo e di tutti i partiti, espressione della divisione settaria e dell’influenza delle potenze regionali, come l’Iran, e della superpotenza occupante, gli Stati Uniti. Lo scorso febbraio sui social network iracheni ha girato una foto che mostrava una giovane stesa sull’asfalto, percossa con un bastone e ammanettata da poliziotti con il volto coperto. Le ragazze irachene, la gran parte al di sotto dei trent’anni, stanno partecipando attivamente alle manifestazioni, poiché prime vittime di una condizione sociale e culturale che è andata aggravandosi dal 2003 a oggi con l’introduzione del modello iraniano nella società – vedi l’obbligo di indossare lo hijab in molte scuole, nonché il deteriorarsi delle condizioni economiche.

Si potrebbe continuare per pagine e pagine tante sono le sfide che le donne stanno oggi affrontando in tutte le parti del mondo e in ogni tipo di modello istituzionale. La centralità del corpo femminile è però un dato che va acquisito da una prospettiva di forte rivendicazione storica e non unicamente come riferimento di una condotta violenta a cui le donne, dagli albori della struttura patriarcale della società umana, sono state sottomesse. Siamo tutte e tutti impregnati di una cultura plasmata dal pensiero maschile e dai criteri da questo propugnati al fine di rendere il corpo femminile espressione fondativa del potere dell’uomo. Non esiste questione di classe sociale o economica in questa operazione, anche il più povero, il più emarginato potrà esercitare il proprio dominio sulla donna, proprio perché il sistema lo ammette.

Se ripensiamo agli studi fatti nel corso della scuola dell’obbligo, la mitologia greca e poi quella romana, le opere d’arte degli artisti del Medioevo e del Rinascimento, e i testi di epica e dei romanzi del XIX secolo, ci rendiamo conto di come dentro ognuna di noi sia stato introiettato un modello difficile da scardinare: quello della donna oggetto di possesso da parte dell’uomo. Qualche esempio: il potente dio Zeus che violenta tutte le donne che desidera; Apollo e Dafne, dove lei per sfuggire al più bello tra gli dei si trasforma in un albero di alloro; il ratto delle Sabine da parte dei Romani; Lucia nei Promessi Sposi, oggetto delle attenzioni perverse di Don Rodrigo (un romanzo sullo stalking?).

Il corpo della donna come un territorio da conquistare, contro cui nei duemila e cinquecento anni circa di storia umana qualsiasi umiliazione è stata permessa.

Ma tutto ciò non sta a indicare quanto potere ha di fatto il corpo femminile? Se si tenta da millenni e a tutti i livelli di reprimerlo, conquistarlo, imprigionarlo, violarlo, plasmarlo in comportamenti accettabili o meno, non è logico pensare che l’idea dell’azione di cambiamento, che l’agire di tanti corpi può portare contro il sistema patriarcale, metta paura?

Tutte le conquiste ottenute dalle donne in occidente nel XX secolo sono ascrivibili a un movimento corale che si è fatto leva per scardinare norme e leggi che fossero d’impatto per il cambiamento e la conquista di diritti necessari per le donne nel cammino verso la parità e l’autodeterminazione. E ancora oggi, che queste conquiste sono sotto attacco o vengono disattese – vedi l’obiezione di coscienza sull’aborto nonostante la legge, le donne sono chiamate a rispondere mettendo il proprio corpo al centro della lotta di resistenza, questa volta nella consapevolezza storica che i diritti della donna sono essenzialmente una questione politica, prima che culturale, educativa o sociale.

Tale evidenza, le nostre sorelle dei paesi del sud del mondo ce l’hanno fatta notare più volte nella loro azione, civile ma anche militare, contro sistemi reazionari o in situazioni di conflitto aperto. I diritti delle donne, con tutto ciò che ne consegue, sono al centro del cambiamento politico dei propri paesi, non sono questione che possa essere lasciata a un futuro di normalità. La storia stessa della nostra resistenza ha insegnato come le tante donne combattenti – sottolineo non solo staffette – dopo la liberazione sono state rimandate a casa, fatto salvo per alcune preziose eccezioni.

È questa la sfida che abbiamo di fronte, mettere i nostri corpi al centro, insieme, ritrovare il significato più vero della parola sorellanza, rompere innanzitutto dentro noi stesse gli stereotipi che fin da piccole ci hanno inculcato nel cervello e nei sentimenti. La scelta individuale di cosa vogliamo, sia il senso del corpo che ci appartiene, ci spingerà poi verso l’unione con tante altre donne, nella differenza, consapevoli però del potere produttivo ma soprattutto riproduttivo che possediamo e che gli uomini – questa la verità – non hanno. La nostra missione è spezzare il sistema patriarcale che troppe vittime ha fatto e continua a mietere tramite le guerre, la distruzione della natura, il dominio della finanza, l’emarginazione socioeconomica.

In un cambiamento costante e inarrestabile, che mostri agli uomini come dal loro affrancamento all’azione di possesso agita sul corpo femminile passa anche il loro cammino di liberazione.

Questa la visione che ha mosso le donne cilene del collettivo Las Tesis ideatrici del flash-mob El violador eres tu, lo stupratore sei tu, replicato in tantissime città del mondo, che recentemente hanno fondato il primo partito femminista del paese, il PAF – Partito Alternativa Femminista.

E le argentine che mobilitatesi a migliaia impugnando i panel (fazzoletti) verdi nelle piazze di Buenos Aires, hanno spinto il presidente Alberto Fernandez a dichiarare che entro dieci giorni presenterà la proposta di legge per la legalizzazione dell’aborto. Ponendo i presupposti in caso di ratifica, a divenire l’Argentina il primo grande paese dell’America del sud a riconoscere l’interruzione di gravidanza, considerando che attualmente nei 21 paesi del continente tale diritto è legale solo a Cuba e Uruguay.

Ancora, le spagnole che da anni invadono le strade in centinaia di migliaia come una marea viola allo slogan Solo sì è sì, hanno ottenuto alla vigilia della Giornata internazionale della donna dal governo di Sanchez l’approvazione del disegno di legge che trasforma profondamente il reato di aggressione sessuale in Spagna. Senza espressa volontà della donna non c’è consenso, pertanto è violenza.

E arriviamo da noi. In Italia le case delle donne, che da anni non solo svolgono un lavoro di supporto e accoglienza alle vittime di violenza italiane e immigrate, ai loro figli, sostenendole nei percorsi di autodeterminazione e autonomia, ma fanno cultura e politica di incontro, sono sotto attacco minacciate dalle istituzioni locali di chiusura.

A Roma sono due: la Casa internazionale delle donne e Lucha y Siesta. Le attiviste che per anni hanno prodotto servizi soprattutto attraverso la militanza pura, sono ormai da mesi in mobilitazione e non intendono arrendersi pur di fronte alle rigide posizioni di una giunta che non ha mostrato conoscenza, né tantomeno interesse, verso l’esperienza civile e culturale prodotta dalle due realtà; né d’altra parte la volontà politica di trovare una soluzione che salvi tali luoghi, di fatto veri e propri patrimoni della città di Roma.

Ecco, le donne semplicemente continuano con determinazione a portare avanti le proprie istanze e rivendicazioni, mettendo il proprio corpo fisico in gioco al fine di ottenere risultati e aprire nuovi varchi a cammini verso la fine delle leggi discriminatorie del patriarcato. In un periodo storico come quello attuale dove si costruiscono muri e il filo spinato si srotola a marcare le frontiere, le donne dimostrano di essere in grado di continuare a muoversi controcorrente.
Mai come in questi ultimi anni, infatti, si sono trovate unite grazie anche a parole d’ordine come Non una di meno o El violador eres tu, che hanno battuto confini e creato ponti.

*Hijab, inteso come velo, nel senso comune.
*Enghelab, ovvero ‘Rivoluzione’.
*Enghelab street è una delle principali vie di Teheran, capitale dell’Iran.
*Daesh, come in arabo viene chiamato l’Isis o stato islamico.

fiocchetti

Patrizia Fiocchetti, operatrice sociale e coordinatrice di progetti in favore di richiedenti asilo, ha svolto missioni in Afghanistan, Palestina, Kobané, Serbia, Bosnia e Senegal. Tra le sue pubblicazioni Afghanistan fuori dall’Afghanistan (Poiesis Editrice, 2013) con Enrico Campofreda e Variazioni di Luna. Donne combattenti in Iran, Kurdistan e Afghanistan (Lorusso Editore, 2016).


Grande come una città
Grande come una cittàhttps://grandecomeunacitta.org
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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