Abituato a fotografare, girovagando con il kayak per il lago sabatino, i volatili lacustri, mentre con le loro zampette palmate sbattono l’acqua per cercare di spiccare il volo, o i miei nipoti che, per l’autorità concessa dal mio ruolo, non possono mettere in discussione il mio diritto a fotografare, aderire al progetto fotografico di Grande come una città dal nome I volti del terzo, ha rappresentato l’equivalente del povero Tarzan costretto a riacquistare il titolo di Earl of Greystoke.
Il progetto comporta un grado di libertà praticamente zero. Per ordine del nostro nume tutelare JR, fotografo e regista con Agnès Varda del delizioso Visage Villages, che si palesa tramite Francesco Amorosino, simpatico conduttore del nostro gruppo, il cerimoniale è rigidamente ossessivo: «Prima di tutto la firma della liberatoria, poi uno schermo bianco che decontestualizzi il soggetto e uniformi le varie foto, e mi raccomando le persone devono togliersi gli occhiali, fotografate all’ombra, e ogni persona deve essere una foto a sé stante». Tutto deve essere simile, monocromatico, il più possibile impersonale e decontestualizzato.
Sul campo bisogna essere in tre, un’adescatrice, compito sicuramente femminile, che con aria seduttiva chiede al prescelto se vuole avere l’onore di partecipare ad un grande progetto del Terzo municipio; un decontestualizzatore, femmina o maschio che sia, che deve porre un grande cartone bianco dietro al soggetto per collocarlo in una sorta di nube senza tempo e senza luogo, infine il fotografo/a che con il suo click manda il segnaposto al punto di partenza. Considerandomi un fotografo naïf, amante del come viene, questa procedura è una sofferenza a cui mi sottopongo malvolentieri per amore di Grande come una città.
L’epoca digitale impone che queste fototessere passino sul grande tavolo autoptico dello schermo del computer. Cerco di finire il mio lavoro di fotografo asettico e mando le mie opere più intonse possibile al coordinatore che provvede, da quanto mi sembra, a renderle ancora più impersonali.
Fatto questo sono finalmente libero e posso lasciarmi andare alla mia perversione creativa, che come Frederick Frankenstein cerca di generare mostri da quei poveri corpi-file originali che vengono progressivamente straziati.
La fotografia computazionale rischia infatti di creare dipendenza creativa e in questa creatività si generano cloni del soggetto fotografato che somigliano sempre più al loro creatore. La fotografia non riflette più l’altro ma l’altro-come-lo-vorrei-io in una sorta di narcisistica riproduzione di sé nell’altro. È un gioco affascinante che fa sentire onnipotenti. Questa rappresentazione narcisistica dell’altro con il quale si possono passare pomeriggi interi a vedere, scoprire, migliorare, cambiare, modificare, esaltare, crea un rapporto particolare con il soggetto fotografato del tutto sconosciuto a chi si limita a produrre una foto, e questo mostra quanto la parte narcisistica giochi un ruolo non piccolo nella relazione con l’altro.
Credo che ogni fotografo dovrebbe dare una restituzione a chi accetta di farsi fotografare, cioè restituirgli una sua immagine. Questo è un momento particolare, la foto è un oggetto d’amore che l’altro può accettare o rifiutare. A volte accade che l’altro si piaccia maggiormente nella rappresentazione più lontana dalla realtà che facciamo di lui, quindi si riconosce nel lavoro, per quanto perverso, di ricostruzione creativa del fotografo e questo crea un rapporto fra fotografo e fotografato che si avvicina all’amore di una levatrice che fa nascere un bambino e che, per quanto nella vita possa diventare grande e trasformarsi, lo considera sempre un po’ figlio suo.