Di libri e di strade – Lorusso Editore

È il 2010 o 2011, sono incolonnato alla guida sulla Tiburtina, poco oltre Settecamini e a un certo punto noto un cartello a cui non avevo mai fatto caso prima. In quella parte di zona industriale incerta se votarsi all’economia immateriale o cedere definitivamente al declino, vedo l’indicazione per Fedrigoni, produzione di carta e cartone. È il produttore della carta di cui è fatta la rivista letteraria Laspro, che da un po’, con amici e amiche, ci ostiniamo a produrre, cartacea, e tutti ci chiedono: «Perché non online?».

Come tutti quelli che stanno nel traffico, inizio a inseguire pensieri, che almeno loro scorrano rapidi per le strade della città. Immagino la nostra carta avoriata uscire intonsa da lì, finire nella tipografia di Tor Cervara dove stampiamo, per poi tornare a Settecamini, in quella stanza di casa mia che funge da redazione e casa editrice. È in quel momento che mi è venuta in mente quella frase che avremmo ripetuto per anni, a proposito di Laspro ma non solo: «La nostra scrittura si nutre di suole consumate e copertoni usurati».
La casa editrice che porta il mio nome è nata da incontri, nel 2009, e dopo dieci anni continua a rinnovarsi grazie agli incontri. È stato un foglio tra tanti, raccolto durante una manifestazione, a far scattare una strana scintilla a Cristian Giodice, l’amico e compagno di una vita, e fargli dire: «Ecco, è così che voglio fare la nostra rivista!».
Quella frase sulla nostra scrittura – non so come chiamarla, motto, slogan, claim… non mi piace nessuna di queste –, era la constatazione di un fatto: per scrivere, eravamo sempre in giro. Le riunioni di redazione, il giro di distribuzione, i reading negli spazi occupati o nelle librerie indipendenti. E di ciò che vedevamo in giro, nelle nostre parti di città, scrivevamo. Scrivere delle periferie non è stata una scelta, ma la conseguenza del fatto che scriviamo di ciò che conosciamo. Il centro, e chi lo vedeva mai. Volendo tracciare una geografia delle storie di Laspro, si muovevano tutte a ridosso del raccordo anulare, prevalentemente nella zona est. Con qualche puntata nelle periferie milanesi, pugliesi, campane o nei piccoli centri del Lazio. Oppure, in periferie d’altro tipo: Palestina, Colombia, Kurdistan, Afghanistan, Iran, Messico, Turchia.
Ogni incontro creava nuove connessioni, e in qualche modo c’entrava sempre la strada. Per dire, la redazione iniziò ad allargarsi con Giusi Palomba. Scriveva su Archivio Caltari, un blog letterario per certi versi di culto, chiese di intervistarci perché aveva trovato Laspro per terra e le era piaciuto. Dall’intervista poi passò a tutti gli effetti nella redazione.
Poco dopo Laspro fu il momento dei primi libri. Ma facciamo un passo indietro.
Per registrare la testata serviva un editore. Non ci passò nemmeno per la testa di chiedere a qualcuno, pensammo a come fare da noi. Anche il ‘Do It Yourself’ non era tanto una scelta quanto un’attitudine mentale, prima ancora che un’esigenza. Strade praticabili, un’associazione, oppure una partita IVA individuale. Optiamo per quest’ultima e così nasce Luigi Lorusso Editore, quell’appendice al mio nome e cognome che ormai mi porto dietro da dieci anni.
Anche la scelta del nome non è stata ragionata, ma realistica. Un nome diverso mi sarebbe sembrato ingannevole, come se dietro di esso ci fosse stata una struttura, la ‘casa editrice’, con uffici, magazzini, dipendenti e tutto il resto. No, Lorusso Editore ero io, e basta. Ma quella ditta individuale, secondo la definizione da commercialista, è stata sempre un’impresa collettiva. Infatti, il primo libro The clash – Lo scontro. Storie di lotte e di conflitti è stata un’antologia.
La seconda parte della nostra frase diceva: «Vibra solo se in movimento». E questa non era una constatazione, ma una dichiarazione d’intenti. Stavamo con i movimenti di lotta, sociali, culturali. Della sinistra autorganizzata, se proprio vogliamo dargli un’etichetta politica. Per cui, in The clash si legge una frase, riferita a un racconto su un immaginario corteo per i dieci anni dalle manifestazioni contro il G8 di Genova 2001: «Ok, avete vinto, vi siete presi gli anni Zero. Gli anni Dieci sono tutti da giocare». Era il 2011. Com’è andata, poi… lasciamo stare. Ma la chiara visione della parte in cui stare e delle sfide da lanciare erano già tutte presenti – per inciso, quel racconto è stata l’unica cosa scritta dall’editore pubblicata nella casa editrice.
Con The clash nasceva la collana della casa editrice dedicata alla narrativa. Una collana talmente connaturata alla ragion d’essere delle pubblicazioni Lorusso, da non avere neanche un nome. Romanzi, racconti, mémoire con stili diversi, differenti attitudini, ma tutti calati nella realtà: la scuola, le lotte, il lavoro, le periferie e le marginalità. Narrativa sociale, l’abbiamo definita, seppur vista attraverso le lenti della finzione letteraria e ben rappresentata dagli omini e dagli animaletti trasfigurati e surreali disegnati nelle copertine di Susanna Campana, che hanno dato immediata riconoscibilità ai libri della collana.
Ma anche i confini della narrativa hanno cominciato a essere stretti, nei libri, così come avveniva parallelamente per la rivista Laspro. Ai racconti e alle storie di quanto conoscevamo direttamente si andavano affiancando i reportage e le memorie di chi viveva in posti lontani. Dalle esperienze direttamente vissute in Palestina viene la collana Zaatar, dal nome della spezia palestinese composta da un miscuglio di erbe e sali, per la quale ognuno ha una ricetta diversa. Anche qui gli incontri hanno determinato le scelte editoriali. Cercavamo delle illustrazioni per alcuni articoli sulla Palestina e ci segnalano una giovanissima disegnatrice di Gaza, conosciuta anche per il ritratto realizzato per il suo amico Vittorio Arrigoni. Si chiama Shahd Abusalama e tiene un blog in inglese chiamato Palestine from my eyes. Lunghe chiacchierate via Skype e poi la decisione di tradurre in italiano gli articoli del suo blog. Il tour di presentazioni del libro di Shahd in Italia – Palestine from my eyes, per l’appunto – merita di essere raccontato. Mesi per ottenere il visto, con tanto di surreali telefonate con i carabinieri del consolato italiano a Gerusalemme: «Sì, il documento è arrivato con il corriere, ma ce lo deve portare in originale di persona». «Guardi che da Gaza a Gerusalemme non può venire…». «Come no? Non sono nemmeno cento chilometri!» per poi rimanere bloccata per settimane al valico di Rafah perché l’Egitto ha chiuso il confine. E intanto il volo salta e le presentazioni già fissate pure. E il volto di Shahd dietro le recinzioni di quella prigione a cielo aperto chiamata Gaza è un altro capitolo dell’oppressione raccontata in quel libro, e in quello che viene dopo, Gaza Writes Back – Racconti di giovani autori e autrici da Gaza, Palestina. Ci riproviamo qualche mese dopo e questa volta riesce, perché ora Shahd si è trasferita in Turchia, dove ha vinto una borsa di studio, ed è tutto più semplice. Il giro di presentazioni è bellissimo, con Shahd ed Emanuele, in veste di accompagnatore, supporto logistico e morale, su e giù per le autostrade italiane, a trasmettere la passione di questa donna di ventitré anni per la libertà del suo popolo, la tenacia di chi concepisce la scrittura come una forma di resistenza, ma che a Parma non nasconde la felicità di potersi fare un giro in bicicletta.
Tutto nasce dagli incontri, anche con altre case editrici. Quelle con cui si condivide la fatica, la noia, lo sconforto e i rari momenti di esaltazione durante le fiere, e con cui abbiamo dato vita a Indie – Editori Indipendenti – Barta, Il Galeone, Nova Delphi, Ortica, Il Sirente e Lorusso. E quelle con le quali abbiamo condiviso o scambiato i diritti per le traduzioni, la spagnola Baladre, la catalana Veusambveu, la greca Red ’n Noir, che sta per pubblicare l’edizione greca di Scontri di piazza – Autonomi senza Autonomia di Marco Capoccetti Boccia. Senza grandi formalità o scambio monetario, basta uno scambio di mail: «Bene, siamo contenti che lo traduciate in italiano, mandatecene una copia!».
Oppure, anche qui un incontro, come per il libro Genere – Per capirsi meglio di Noa Delclòs Coll. Eravamo a Logos – Festa della Parola, rassegna che si tiene da una decina di anni al Csoa Ex Snia in via Prenestina e Giusi Palomba, che si è stabilita a Barcellona, mi presenta l’editore di Veusambveu. In pochi minuti, stabiliamo lo scambio di diritti per la traduzione in italiano di Genere e in spagnolo di Variazioni di Luna – Donne combattenti in Iran, Kurdistan, Afghanistan di Patrizia Fiocchetti.
Genere è un manuale a fumetti che usa disegni stilizzati, colorati e diretti, con definizioni chiare, sintetiche e a volte quasi didascaliche su tematiche, solitamente affrontate in maniera molto complessa, riguardanti il genere, l’identità, gli stereotipi, le discriminazioni, dal punto di vista delle persone trans. L’autore, Noa, aveva poco più di diciotto anni quando l’ha pubblicato in spagnolo, dopo averlo scritto per spiegare ai suoi professori e compagni di classe perché ora voleva essere chiamato con pronomi maschili, che cosa volesse dire essere una persona trans e in particolare di genere non binario. L’intento del fumetto è quello di far capire e farsi capire. Quando Noa è arrivato in Italia lo scorso anno, studiava storia con l’Erasmus a Parigi e partecipava ai movimenti di protesta degli studenti in Francia. La sua maturità e il suo idealismo pragmatico hanno conquistato tutte le persone che hanno partecipato alle sue presentazioni.
Gli ultimi incontri sono quelli con Marco Saverio Loperfido e il suo La luce assoluta dell’Etiopia – Esperienze di Montagnaterapia e Antonio Sinisi e Martoz con Astratti – Operette Amorali. C’è sempre un nuovo libro da promuovere, qualcuno da preparare e altri ancora da immaginare. È l’organismo vitale dell’editoria che vuole il suo nutrimento. Anche Aldo Manuzio, a Venezia nel XV secolo, deve aver provato qualcosa del genere.
Oggi, dopo dieci anni, la rivista Laspro non c’è più, la casa editrice invece sì. Sto ancora aspettando il primo successo commerciale e nel frattempo concilio questo mestiere con il mestiere quello vero, che mi dà di che vivere. Faccio il maestro elementare e mi piace pensare che tra le due cose ci sia una connessione. Porto sempre i libri nelle librerie indipendenti in giro per Roma con la mia borsa da piazzista e faccio ancora carico e scarico di cartoni alle fiere in località più o meno note della penisola italica. L’ho ripetuto mille volte, questa è la volta mille e una: «La nostra scrittura si nutre di suole consumate e copertoni usurati. Vibra solo se in movimento».
Se ci si muove insieme è meglio.

Illustrazione: Susanna Campana

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Grande come una cittàhttps://grandecomeunacitta.org
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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