Tradurre Lot

Qualche giorno fa mi è stato chiesto di scrivere qualcosa riguardo la traduzione di Lot, libro d’esordio di Bryan Washington – una richiesta in sé e per sé elogiativa e che in quanto tale sarebbe stato molto grave ignorare. La verità però è che non sono in grado di esaurire il discorso in modo costruttivo; ne approfitto qui per denunciare le mie difficoltà croniche nell’approcciare al tema. Perché?

Perché parlare di traduzione, anche di una sola traduzione, equivale in un certo senso a prendere posizione sulla lingua, su cosa sia, su come vada intesa. Si tratta di vera e propria filosofia del linguaggio – la sensazione è quella di affacciarsi all’abisso – e cadere in errore o in semplificazioni mi pare di una facilità unica, così come trovarsi nelle condizioni di doversi rimangiare o riformulare certi pensieri. Per parlare seriamente di traduzione, come se non bastasse, mi sembra si finisca sempre per sollevare questioni troppo difficili da risolvere, e che quindi, come accade non di rado, si corra il rischio di cadere nel vizio opposto, cioè di buttarla sul vago, e di piegare la discussione verso certe esigenze inconsciamente auto-promozionali, passando per l’elogio del libro tradotto o dell’impatto emotivo che questo ha avuto sul traduttore a cui finalmente viene consentita la parola. Non parliamo poi delle questioni teoriche: i discorsi sulla traduzione oscillano di solito, e forse oscilleranno sempre, fra gli elogi sperticati di chi intende portare la giusta attenzione sulla bravura di chi traduce, e l’ostinata, inossidabile, critica della pratica in sé – come deriva anti-letteraria, irrispettosa del vero senso della scrittura e della lettura, come travisamento di un’autenticità riservata unicamente all’originale. Insomma, come si può procedere con queste premesse? La verità, vergognosa, è che nella pratica ho risolto il problema molto semplicemente: traducendo. E la teoria? Be’, se c’è una cosa che mi sento di poter dire per uscire vivi dalle grinfie di queste antinomie è che l’impostura del traduttore va accettata e subito dimenticata; a patto però che si cerchi in tutti i modi, di lì in avanti, di togliersi di mezzo. Forse non saprei aggiungere molto altro di significativo. Forse è qui che il ruolo del traduttore e quello dello scrittore si fanno più prossimi, come in molti credono che debbano essere considerati.

Una domanda spesso occultata in quanto indiscreta, del resto, ma forse essenziale per capire il ruolo del traduttore, e che mi è stata posta più volte, è questa: Quanto c’è di me? Quanto ci ho messo di mio, nella traduzione? Ecco, per quanto mi riguarda non so dire se si tratti di una regola o di una contingenza dettata dal tipo di libro, ma quello che ho sperato, nella traduzione di Lot, è che di me ci fosse il meno possibile. Non è raro abbinare i libri che ci piacciono a rapporti speciali, emotivamente unici, e si dà per scontato, non a torto, che il traduttore debba instaurare una relazione del tutto peculiare col suo testo di riferimento, come se gli fosse richiesto un surplus sentimentale a riprova dell’autenticità delle sensazioni che il libro sarebbe chiamato a suscitare. Nella mia esperienza con Lot, chiariamoci, è senza dubbio accaduto qualcosa, si tratta di un libro che ho scelto in quanto editore, di cui mi sono innamorato e di cui forse non avrei potuto non innamorarmi, visto il fascino che la sua umanità «mista» esercita sulla mia immaginazione, anche a livello politico e sociale. Ho amato i suoi personaggi, il suo protagonista, e ho dovuto immaginarmi fra le strade di Houston, così importanti per la struttura dell’opera, tanto da andarle a ripercorrere virtualmente, grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia. Spesso però si dice che il traduttore debba essere un traghettatore, che il suo dovere sia portare in un luogo che già esiste, piuttosto che fabbricarne uno nuovo; allora quanto di mio può esserci, per esempio, in una città che non ho mai davvero visitato dal vivo? Davvero posso affermare di avere un rapporto speciale con i luoghi del libro, più di quanto capiti a un lettore particolarmente attento? E davvero ci conviene postulare questo tipo di vicinanza fra quanto scritto e chi traduce? Il traduttore è anche un demiurgo, si dice altrettanto spesso, e il suo ruolo, platonicamente, è sempre quello di costruire una copia a partire da un originale, che manterrà imbattuta e imbattibile la sua autenticità, come brillasse di una luce diversa fatta di un’altra natura. Allora come potrebbe il traduttore non avere uno sguardo privilegiato anche su questo baratro? Il testo originale presenta alle volte dei piccoli puzzle che non fanno altro che presentarti il conto, mostrarti lo scarto intraducibile e irriproducibile fra la versione originale e la supposta resa italiana; a pensarci bene fare esperienza di questa difficoltà è forse l’aspetto più caratteristico della traduzione. La Houston di Lot, per esempio, i suoi sfondi, sono spesso mediati da epifanie e da rifrazioni, guardati attraverso pozzanghere, luci particolari, orizzonti, cambiamenti e modificazioni nel tempo, mediate dalla memoria. Sono sicuro di aver vissuto sulla mia pelle momenti del genere di fronte alla mia città, e ciò di cui parla Bryan Washington è volutamente comune a molte città del mondo, ma non vorrei mai che le mie singole epifanie si sostituissero a quelle dei suoi personaggi. Suscitare determinate immagini, mi sono ripetuto durante la traduzione, è compito della lingua, non delle intenzioni. È possibile che la mia traduzione possa fare soltanto da trampolino, e che i lettori siano in grado di fabbricarsi tramite le parole scelte le loro immagini? Spero di sì. È anche probabile, però, che l’esperienza del traduttore sia costretta fra la speranza di riuscire a trasportare il lettore nel medesimo mondo visto dall’autore e la dura realtà di scoprirsi nient’altro che un semplice falsario.

Anche la questione della lingua, poi, non è così limpida come potrebbe sembrare. Da una parte si guarda alla traduzione come a una calibratura millimetrica, votata alla trasparenza, eppure per i traduttori si usano metafore davvero complicate da tenersi addosso. Da quando ho pensato di scrivere queste righe, per esempio, mi è iniziata subito a rimbombare in testa una filastrocca di devianza giornalistica che mi vorrebbe la voce italiana di Bryan Washington. La questione è sempre la stessa: In che senso questa voce può dirsi davvero «mia»? A me pare che un termine del genere possa avere senso solo se usato in maniera tanto vaga da risultare quasi ermetica. Da traduttore vorrei che questa metafora potesse essere ribaltata: la mia voce è terribilmente stridula, troppo alta, strascicata, romana, esitante, non la auguro a nessuno, figuriamoci a un autore che apprezzo così tanto. E poi non posso fare a meno di chiedermi: ma se fossi l’autore quest’espressione non mi suonerebbe ugualmente problematica? Lot è senza dubbio una polifonia, una raccolta costruita sulla molteplicità propria delle storie che passano accanto alle vie di casa, nei quartieri, anche quando la voce del protagonista ritorna lo fa sempre a partire dal tentativo di un cambiamento (un cambiamento puntualmente tradito). E la voce sempre unica del protagonista, anche lei, sembra diventare subito la voce della città, perché le sue paturnie sono intimamente legate al luogo d’origine; la raccolta stessa è costruita sulla condivisione delle storie, senza che la loro unicità venga meno, sul loro volontario ma anche involontario intreccio. Roland Barthes si chiedeva se nelle opere letterarie l’autore non fosse da considerarsi morto – cosa dovremmo augurare al traduttore? E quindi mi domando: Di chi è, in Lot, questa voce che parla in inglese, e a cui io avrei prestato un timbro italiano? Ecco qui che arriva immancabile l’odiato aneddoto personale.

Forse suggestionato sotto traccia da domande del genere, come prima cosa dopo aver deciso di tradurre il libro mi ero andato a cercare su internet se per caso non ci fosse qualche video, o qualche audio, in cui si sente l’autore recitare un proprio racconto ad alta voce (del resto è di questo che si parla, no?). E devo ammettere che parte della mia missione come traduttore si è sviluppata proprio a partire da una lettura di Lockwood, non esattamente brillante, a opera dello stesso Bryan Washington. In questo video che non trovo più (ma esiste una sua versione su SoundCloud) l’autore non fa nulla per nascondere la presenza delle sue pause e dei suoi punti. Nel primo paragrafo del racconto in otto righe ce ne sono sei, e nessuna frase ha più di una subordinata. Il racconto sembra letto come se il narratore fosse preventivamente scocciato dal superfluo; come se la superficie dei pensieri, data la forza della storia raccontata, fosse direttamente, immediatamente, collegata alla profondità delle emozioni che evoca. Come traduttore la mia prima preoccupazione – parlando di cosa buttare giù dalla torre – è stata evitare prima di tutto che questo ritmo andasse perso, cercando di trovare un equivalente italiano che rendesse il tono emotivo a partire dalla tempistica con cui «battono» le frasi, come fossero colpi di batteria. Perseguire questo obiettivo ha significato quindi il tentativo di annullare la mia voce, piuttosto che esaltarla; per trovare quella del testo, secondo un procedimento che ha avuto un suo lato del tutto metodico e performativo. La traduzione di Lot è stata terminata durante il lockdown, e ogni racconto è stato letto ad alta voce più volte prima di poter essere considerato valido. L’utopia che ho perseguito era quella di imbastire uno spartito, di spremere la voce del testo per trovare un incedere neutro, musicale, ma che fosse anche al di qua di ogni strumento vocale. Il desiderio era che, nelle sue infinite possibilità, ci fosse almeno una versione italiana dei racconti di Washington in cui le parole avessero la loro sicura posizione in termini di tempo, vale a dire di ritmo, e che quel tempo di lettura almeno io, recitandolo, l’avessi appreso con la pratica. La prosa di Lot, anche in originale, è lontana dallo scorrere liscia a una prima lettura – dopo poco però comincia a suonare. È un’educazione al ritmo, perché obbliga il lettore ad abituarsi alle sincopi, ai cambi di velocità, ai silenzi, alle pause. Va letta evitando di incespicare, come si impara a tenere un tempo dispari. E per arrivarci ho sperato di poter leggere le parole che avevo scelto solo per trapassarle, percependo oltre le mie corde vocali, nella solitudine del lockdown, la voce di qualcun altro. Quella di Houston e delle sue viejas, nemmeno quella di Washington.

Quello che ho cercato di dire sin qui, in parole povere, è che parte della mia traduzione è stata volutamente, almeno nelle intenzioni, un’esperienza estatica, ed ecco forse spiegato perché tornare a ripercorrere i momenti passati con il libro mi appare così sisifeo. Un’ultima considerazione in questo senso è legata al vocabolario. Anche da chi ha amato molto il libro mi è stato chiesto più volte: Che vocabolario hai scelto? Qual è stato il registro? E sotto la sua versione un po’ patriarcale (dato che Lot parla in sostanza di periferie e di bassifondi): Come hai fatto a rendere lo «slang»? In realtà una domanda del genere sembra dare per scontate un paio di cose sulla traduzione: che la maggiore difficoltà sia di tipo semantico – una scoria agostiniana, avrebbe detto Wittgenstein – e che la riuscita o meno di Lot, per rimanere nel mio caso, sia stata decisa dalla prossimità del suo traduttore a un vocabolario precluso ai più, infarcito di inflessioni e formule da «strada», in cui io mi sarei trovato più a mio agio di altri. La verità però è che questo libro non ha a che fare minimamente con lo slang, e che questa parola anzi, soprattutto nel suo vocabolario, smette di avere senso. Qualche anno fa un’insegnante di inglese mi disse che in a Londra nessuno parla il cockney, e che chi crede di farlo si sta solo prendendo in giro. Ecco, per tradurre Lot ho sperato con tutto me stesso di non suonare come chi si prende in giro credendo di parlare cockney, ovvero di non prendere in prestito delle soluzioni linguistiche che non fossero di nessuno. Ma chi è che nella vita parla lo slang? È possibile che, storicamente, ci siano stati dei termini allusivi di tipo economico per trattare affari loschi in una certa Londra molto lontana, o che esistano accenti particolarmente marcati da diventare lingue; il cockney, ma anche il napoletano parlato in quei contesti dove l’italiano televisivo non serve, semplicemente perché insufficiente. Ed è vero che la comunità nera americana ha costruito nel tempo una serie di sgrammaticature tipiche (tra l’altro sono abbastanza sicuro, per dire, che la canzone Ebonics di Big L risulti oggi incredibilmente datata a un giovane di Houston). Di tutto questo, però, in Lot non c’è traccia. La Houston che racconta Washington ha le sembianze di una comunità in cerca di una lingua comune, non di un meccanismo linguistico chiuso in grado di escludere orecchie indiscrete. La sua città risulta autentica proprio perché non c’è definizione calata dall’alto che la inquadri, il suo vocabolario non è macchiettistico, piuttosto è aperto e anzi desideroso di farsi comprendere. È uno di quei libri dove bastano le storie, e dove forse l’interiorità è qualcosa da tenersi stretti, da valutare sempre in base a quanto accade fuori e non in base a se stessa. Da traduttore non ho cercato una lingua che fosse parlata da qualche strato della società, piuttosto ne ho cercata una che potesse risultare comune, spendibile ovunque, trasversale. E forse questo      esercizio è servito a me per capire cosa significhi giocare con le parole, proprio perché questa lingua non era la mia. Mi viene il dubbio, anzi, che siano state le stesse pagine di Lot a farmi prendere posizione su cosa significhi muoversi in una lingua, e perché no tradurre, come si suppone abbia fatto il protagonista dei racconti a chi del suo quartiere non parla lo spagnolo, lingua che appare qui e là intro     dotta, quando c’è bisogno che le parole «dicano» di più, senza capire esattamente cosa. Il libro di Washington è in fondo anche un grande saggio linguistico, che non concepisce la lingua nella sua versione scolastica ma che ne esalta anzi la grammatica nascosta, quella del non-detto e del non-esprimibile a parole. Ma non è questo l’oggetto stesso della letteratura?

 


emanuele

Emanuele Giammarco (Roma, 1987), editore e traduttore, nel 2016 ha fondato Racconti edizioni. Suoi contributi sono usciti per il manifesto, minima&moralia, Altri Animali, Limina e Tpi.


Photograph by Todd Spoth
Grande come una città
Grande come una cittàhttps://grandecomeunacitta.org
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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