Omicidi bianchi. Lo sfruttamento uccide, non il lavoro

“C’è del marcio in Danimarca” direbbe Shakespeare ed è il caso, visto che quella occorsa il 12 settembre scorso nell’azienda agricola di Arena Po, Pavia, è una tragedia. Quattro lavoratori sono morti, presumibilmente a catena, aiutandosi nel tentativo di salvarsi. E invece non ce l’hanno fatta. Sono morti tutti, scivolando nella vasca dei liquami per il compost, asfissiati dai miasmi generati dagli escrementi.

Ora che i morti sono quattro e la cosa esce dall’ordinario morto quotidiano si torna a parlare di misure da prendere, urgenza, controlli. La neoministra del lavoro Nunzia Catalfo, riportano i giornali, “si è subito attivata per aprire un tavolo con l’Inail su prevenzione e sicurezza – anche con le parti sociali e gli attori istituzionali”. E sarebbe proprio il minimo, dal momento che solo quest’anno i morti sono arrivati a 990, più di 4 al giorno. Se poi lavorassero al tavolo anche sette giorni su sette festivi inclusi, magari 12 ore e più dimenticando le ferie, forse riuscirebbero anche a farsi la domanda chiave. Che comincia col chiedersi se non sia che ormai i buoi sono scappati dalla stalla.

Perché il segnale che più fa riflettere è che dopo la crisi che ha attraversato i primi anni di questa decade facendo sparire il lavoro, quel minimo di ripresa – precaria lei per prima – ha fatto invece sparire i lavoratori, e in modo direttamente proporzionale.

Dunque se prima della crisi, che c’era più lavoro, il problema c’era e in modo consistente, adesso che ce n’è di meno queste morti diventano un numero esponenziale. Che, appunto, pone la domanda esiziale: COME si lavora? E non come nel senso di senza caschetto, senza mascherina, senza guanti, senza scarpe antinfortunistiche ecc ecc – sia chiaro, strumenti di protezione indispensabili – ma COME nel senso della modalità. COME che vuol dire QUANTO, che vuol dire QUANDO, ma anche CHI, ma anche DOVE. E PERCHÉ.

Lo so, sono i capisaldi del giornalismo, ma lo sono appunto perché sono esattamente le domande sostanziali che servono a capire le cause di una tragedia, e chi sono i responsabili.

E paradossalmente il caso aiuta, perché in quest’ultima tragedia a morire, fra i quattro lavoratori, ci son anche i due fratelli proprietari della ditta. Un caso successo già decine di volte, e per lo più con una dinamica simile a questa: anche i proprietari lavoravano con le stesse mansioni dei loro dipendenti, una vasca, o un silos, o un’autocisterna, pulizia, solventi, svenimento, soccorso dei colleghi, caduta a catena, morte. Manili spa, i quattro morti dell’Umbria Olii, Truck Center di Molfetta, altri quattro morti. Ditte esterne, appalti e subappalti.

Dunque: COME si lavora. QUANDO, QUANTO, DOVE, PERCHÉ. Per campare, per arrivare a fine mese, per costruire una vita, o ricostruirsi, o dare un futuro ai figli. In che condizioni, a che età, e quante ore, quanti giorni alla settimana, al mese, all’anno, quando le ferie, quando il riposo. E nell’arco di ogni giornata, con che tempi. E con quale guadagno. Perché le due cose sono correlate. Se i costi sono alti, e il guadagno è scarso, l’unica alternativa è il cottimo. Dai braccianti sotto i caporali, fino alle ditte messe in piedi col sudore dell’autosfruttamento. E col sangue. Perché il lavoro è questo, oggi molto più di ieri: nero, sottopagato, schiavizzato. E individualizzato, la condizione ideale per radicare l’idea che non ci sia alternativa all’accettare queste condizioni. Essere una merce per produrre denaro con denaro nel passaggio degli appalti. Che si chiamino appalti o agenzie interinali o caporali o altro, è lo stesso.

La percentuale di lavoro organizzato nella fabbrica, o in un cantiere che si rispetti, quella per cui norme più stringenti e controlli a tappeto hanno, nel periodo di maggiore controllo da parte dei consigli di fabbrica, alzato il livello delle tutele e dall’altra posto ben prima la domanda chiave, è ridotto ai minimi termini. Ecco perché i buoi sono scappati dalla stalla.

Sono i capisaldi di una questione che pone il problema di cosa è diventato – o tornato ad essere il lavoro – e di COME è ora di cambiare il sistema che lo genera.

Immagine di Rudy and Peter Skitterians

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Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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