A questo mondo ci sono i seminatori. Piantano, coltivano, innaffiano, vedono crescere e raccolgono. Poi ci sono i contaminatori: spargono. Pollini, magari virus, a volte idee, e tutto questo va a modificare cose altre o altrui ambiti. Il seminatore solitamente si occupa del suo campo, ha un perimetro che è il suo e lì opera, lì osserva crescere quanto ha piantato: pota, innaffia, cura e raccoglie. Il contaminatore vola su quanto già esiste, non ha un suo perimetro ma attraversa quelli degli altri e, al suo passaggio, quei luoghi non sono più gli stessi, magari non per sempre, magari solo per un po’ di tempo… ma qualcosa succede.
Ecco, pensando ad Adriano Olivetti e cercando di andare oltre la gabbia agiografica in cui è stato messo a riposare, si potrebbe provare ad ascriverlo alla razza dei contaminatori. Con questo presupposto, e ripercorrendo i passaggi del suo operare, si potrebbe così evitare di soffermarsi luogo per luogo, scansando una noiosa via crucis, per provare a raccontarlo tutto d’un fiato, a patto, però, di averci i polmoni. E i polmoni non sono un tratto precipuo degli italiani.
Olivetti innestò le sue idee industriali sulla fabbrica paterna, un grigio opificio ottocentesco, permeato di socialismo umanitario turatiano e di geniale ‘saper fare’ artigianale. Studiò i sistemi di lavoro del fordismo e taylorismo che aveva toccato con mano negli Stati Uniti ma li contaminò attraverso una visione intrisa di un profondo umanesimo laico, seppure mutuata da una lontana formazione ebraico-protestante – il padre era di famiglia ebrea, mentre la madre era figlia di un pastore valdese. Vicino al mondo antifascista – frequentazioni gobettiane, amico di Ginzburg e dei fratelli Rosselli –, compartecipe attivo della fuga di Turati dall’Italia nel 1926 e poi comunque interessato ai meccanismi del corporativismo fascista ‘di sinistra’ negli anni a venire; in grado di venire a patti con il regime mantenendo sempre la giusta distanza che avrebbe permesso lo sviluppo e la prosperità della fabbrica e, soprattutto, degli operai, considerati centro dell’attività produttiva e beneficiati da un welfare unico non solo per quei tempi; naturalmente interessato all’architettura e, soprattutto, all’urbanistica, non approcciò mai a questo mondo con l’atteggiamento del dilettantismo intellettuale, per dirla con Gramsci.
Nelle nuove costruzioni, sia industriali sia civili, che riesce a far realizzare a Ivrea da alcuni tra i migliori architetti razionalisti italiani – Figini e Pollini –, così come nell’immane lavoro realizzato, a partire dal 1935, per l’attuazione del Piano regolatore della Valle d’Aosta, al centro c’è l’uomo, la sua emancipazione sociale e spirituale, il miglioramento delle condizioni di vita e la possibilità, per tutti, di raggiungere le aspirazioni a un’esistenza piena e appagante. Per mettere in opera tutto questo Adriano mostra una capacità su tutte: quella di saper scegliere le migliori teste della sua contemporaneità.
Questo atteggiamento risulta evidente se pensiamo a quanto l’Olivetti realizza in campo pubblicitario e commerciale. Sul finire degli anni trenta viene impiantata una struttura dedicata alla pubblicità e propaganda. Quasi subito, a capo di questo ufficio, in cui giovani graphic designers, come Schawinsky e Pintori, iniziano a mettere in atto campagne pubblicitarie in sintonia con il meglio dell’avanguardia internazionale, troviamo Leonardo Sinisgalli ‘l’ingegnere-poeta’, autore di Furor mathematicus e Horror vacui. Nel 1939 questo ufficio realizza il volume Una campagna pubblicitaria. L’opera raccoglie 16 tavole dedicate alla studio 42, la nuova portatile della casa di Ivrea, introdotte da una striminzita prefazione di due paginette scarse non firmate. In esse si tratta non dei prodotti Olivetti, non della fabbrica, ma si parla dei mezzi finalizzati alla vendita del prodotto, si racconta in breve del sistema americano e si parla di arte. La pubblicità non deve persuadere ma migliorare l’uomo, questo sostiene l’anonimo estensore della prefazione che altri non è che Elio Vittorini. Pur non negando il bisogno di autoaffermazione intrinseco alla pubblicità, Vittorini sottolinea come sino ad allora il problema fosse stato risolto unicamente per via di valori quantitativi. «Trattandosi di gridare la gara è stata a chi gridava più forte» però, col tempo, questa pubblicità autoritaria incontra i pericoli che l’assoluto quantitativo finisce sempre per incontrare. Incontra l’indifferenza umana. «Bisogna rendere qualitativo il fatto quantitativo». Per Vittorini, e quindi anche per Olivetti e il suo gruppo, quello degli anni ’30 ma anche di Sottsass, Zorzi, Ballmer, Fortini, Pieracini e tanti altri che verranno in seguito, l’idea è che la comunicazione debba avere «un’altra ragione di esistere dinanzi all’uomo. E questa ragione non può essere che la ragione per cui esistono le opere d’arte: la ragione di nessuna ragione, di nessun scopo […] creare immagini che riuscissero a durare nell’uomo e a vivere in lui. È lo stesso scopo altamente ambizioso di un poeta, di un pittore».
Alessandro Santero (Asti, 1964), libraio antiquario dal 1986, vive e lavora ad Asti.
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.