Non è tutto horror quello che cola

Sottotitolo: “Sono arrabbiato con la recente edizione di un libro epocale. Quindi cominciamo con un Prologo semantico”.

Horror – Genere narrativo in cui nella trama della storia letteraria, filmica, pittorica, fumettistica agisce un’entità sovrannaturale o scientificamente non plausibile.
Demoniaca – L’esorcista (1974), Jack lo Squartatore – From Hell (2001), Vvitch (2015); mutante – Brood, la covata malefica (1979), Tetsuo (1989), Society (1989), Split (2016); spiritica – The Others (2001), The Orphanage (2007); morta-vivente – Zombi (1978); vampirica, non-morta – i vari Dracula ma anche The Ring (2002), perché Samara è meta-morta; licantropica – Un lupo mannaro americano a Londra (1981), In compagnia dei lupi (1984); esoterica – The Skeleton Key (2005), Angel Heart (1987), Il serpente e l’arcobaleno (1988), Rosemary’s Baby (1968); parapsicologica – Scanners (1981), The Mothman’s Prophecy (2002), ma anche Babadook (2014), Mulholland Drive (2001), The Shining (1980), L’inquilino del terzo piano (1976); metafisica – Il seme della follia (1994), Hellraiser (1987).

Gli alieni non sono horror, anche se crudeli, splatter-gore, umanivori e bavosi.

Inutile e blasfemo afferire Il silenzio degli innocenti (thriller, 1991) alla licantropia per giustificare cannibalismo e serialità omicida del dottor Lecter. Se invece è Madre Natura a rappresentare il villain della storia – E venne il giorno (2008), The Terror (2018), Virus (1999), Tentacoli (1977), The Lonesome of Jordy Verrill-Creepshow (1982), abbiamo già messo piede nella fantascienza o nel fantasy. Lunga vita, però, agli ibridi felici, come Rec (2007), per citarne uno, che mescola il tema del contagio alla presenza metafisica diabolica. Lunga vita a tutti i Frankenstein della storia del cinema, incluso il giappo Alla conquista della Terra (1965) di Ishiro Honda, quando l’horror della morte vivente si fonde al galvanismo.

Orrore – Emozione (soggettiva) causata da situazione narrativa ansiogena o raccapricciante. Definizione valida per Seven (1995), thriller; per Alien (1979), fantascienza; The Ring, horror; Hostel (2005), torture porn; o sulfurea – La casa dalle finestre che ridono (1986). Non mandate a quel paese chi, nell’anonimato della sala cinema, inizia a ridere, fa parte di un rilascio liberatorio di tensione. Altra cosa da evitare è ascoltare i commenti degli sconosciuti. Ne elenco alcuni che ho raccolto nel tempo. «Mah, Boh. Troppa fantasia!» (The Cell, 2000). «Non è possibile che una casa sparisca nel nulla!» (The Blair Witch Project» (1999). «Ma che è?!» (La Cosa, 1982). «C’è la testa della moglie!» (non appena il corriere consegna a Brad Pitt la scatola, Seven).

Terrore – Una storia del terrore può essere onnicomprensiva, purché punti tutto su angoscia, macabro, suspense, apparizioni, omicidi, mutazioni, streghe, santeria, case stregate, mostri dello spazio, ragni giganti, voodoo, spettri, licantropi, quindi sia nel realismo che nell’inverosimile. Il sostantivo terrore su fumetti e manifesti cinematografici è attualmente in esilio nel vintage anni ’70. Peccato, era così affascinante.

Splatter – Estetica estremizzata della violenza su corpo umano o non, vivo o morto. L’effetto splatter in sé – schizzo di sangue, brandelli di carne e cervello, arti mutilati, esborso di viscere, teste frantumate – non fa di un film o un libro o un fumetto un Horror. Una chiazza di vomito può suonare splat, ma non c’entra nulla col genere splatter se poi non abbiamo un evento sanguinoso. L’effetto splatter può stare anche in un episodio di Dynasty o de Il commissario Montalbano, per assurdo, qualora la telecamera mostri cosa succede a un cranio mentre viene pestato dagli zoccoli di uno stallone o a una faccia che viene presa in pieno da una fucilata, ma è anche questione di stile e regia: il film The Highwaymen (2019) non è splatter, poiché nella scena finale non vediamo schizzi e frattaglie volanti. I dettagli di una morte cruenta già consumata, e quindi senza dinamismo, non sono splatter. Splatter è azione mostrata in tutta la sua dinamica di dolore e sangue. Il remake de La Casa (2013), bistrattato come pochi, è un grondante esempio. Il giorno degli zombi (1985). Kill Bill (2003). Zombi.

Coi decenni, i linguaggi cercano strade nuove e più spettacolari, quando gli autori possono permetterselo, quindi è fisiologico che nella fantascienza di Alien troviamo parecchio orrore e l’estetica della creatura sia infernale rispetto a quella paradivina dei visitatori di Spielberg. Senza dimenticare lo Starman (1984) di Carpenter, tramite cui il maestro John sembra pentirsi dopo La Cosa, purgatoriale, nefasta, per una successiva e copernicana, lovecraftiana ipotesi dell’anticristo da un’altra dimensione con Il signore del male (1987).
Vero, il thriller si tinge di horror, assorbendo il nero e la materia oscura del male, ma Jon Doe di Seven e Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti (1991) sono personaggi possibili, realistici. La cupezza esecutiva del ritratto fotografico è una scelta compositiva – di altissima qualità – che non fa di queste storie un Horror. Stesso vale per il meraviglioso L’uomo senza sonno (2004) di Brad Anderson, un incubo psicologico fra Kafka e David Lynch, in cui la fotografia quasi verde petrolio fa dell’atmosfera della storia – più ombre che luci – il mostro autentico, ovvero, il tormento psichico di Trevor Reznik.
Il fantahorror tout-court è La Mosca (1986) di Cronenberg. La decadenza corporea, spettacolarizzata oltre ogni limite, come From Beyond (1986), in cui Stuart Gordon trasforma la ricerca (fanta)scientifica nel prodigio del monstrum. Ancora più evoluto della categoria è Punto di non ritorno (1997), film che obbliga la fisica quantistica a passare per la cruna dell’Inferno dantesco, aumentato da Clive Barker nello spazio. Nel cinema, come in letteratura, si sta parlando del Body Horror, ovvero la teatralizzazione estrema delle mutazioni o macellazioni corporee dell’uomo in qualcosa. Videodrome in testa.

«La natura è la chiesa di Satana». Con questa frase-chiave da The Antichrist (2009), Lars Von Trier ci offre un puro film dell’orrore, pronipote narrativo de L’Esorcista (1973) di William Friedkin, in cui però non è dato sapere se il prodigio sovrannaturale che si scatena tra Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg sia mentale o oggettivo – mentre su L’Esorcista lo è –. Ne accettiamo l’ignoto nel suo complesso – mentre su Babadook è puramente soggettivo, l’entità si manifesta solo alla protagonista e non in presenza dei personaggi secondari –, fino all’epilogo orrorifico.
Altri due titoli dell’orrore, tra l’altro privi di speranza hollywoodiana, Nameless (2002) e Second Name (2003). Realismo e incubo in un intreccio glaciale e fortemente paranoico. Contraltare è la fenomenale horror-noir-comedy El Dia de la Bestia (1995) di Alex de la Iglesia, capolavoro grottesco esoterico polanskiano intriso di humour. Sarebbe un peccato non segnalare il rutilante La Comunidad (2000), stesso regista, che grazie alla magistrale Carmen Maura crea una miscela esplosiva fra il macabro polanskiano d’appartamento, la parodia, la coralità almodovariana e lo slasher-pastello quasi pop. Sempre in ambito de la Iglesia, un horror moderno, aggressivo, come evoluzione punk wave de La Famiglia Addams, Las brujas de Zugarramurdi del 2013 – tradotto dal distributore italiano Le streghe son tornate, ovviamente – che vive un po’ come Dal tramonto all’alba (1996), ma con una regia folle e una Carolina Bang che renderà Santanico Pandemonium roba da paese per vecchi.

La premessa più lunga della storia della saggistica Horror ha praticamente detto tutto attraverso la lente del proiettore cinematografico, perché è il medium che il grande pubblico predilige. Parlare di letteratura sarebbe altrettanto indicativo (necessario) ma, in Italia, i lettori di Horror sono talmente pochi, rispetto agli scrittori Horror – che attualmente si aggirano sui sessanta milioni – che renderemmo loro, grazie agli inferi, noiosa una simile distinzione anche in campo librario. In ogni caso, non farà male a nessuno ricordare i titoli fondamentali.

All’osso
Dopo trent’anni di vita editoriale dedicata all’Horror, tra pubblicazioni a fumetti e narrativa Horror, e precedenti quindici di febbre Horror nerd a partire dal 1970 – anche se il primo comic book, maneggiato nel 1968, all’età di due anni, fu un Batman ancora vivo ma in condizioni pietose – mi si chiede puntualmente: «Ma perché l’Horror?».
Potrei farvi vedere le ciabatte di Halloween di mia madre, o farvi ascoltare il 45 giri del terrore fonografico pubblicato verso la metà degli anni sessanta, La bara di cristallo, scritto e sceneggiato da Luigi Cozzi, che mi fece piangere di paura durante la mia prima infanzia, o raccontarvi di come mio padre, da ragazzo, cadde in una trebbiatrice. Le risposte possono essere infinite, ma non voglio parlare di me.
In questi cinquant’anni ho letto e visto di tutto, riguardo l’Horror, e non solo io. Tutti i più grandi autori del mondo hanno attraversato, anche solo una volta, la dimensione del terrore e dell’insolito. Avete mai tentato uno scopri le differenze fra Dracula di Bram Stoker (1897) e I Promessi sposi di Alessandro Manzoni (1827)? Roman Polanski, Jodorowski, Dante Alighieri, Dino Buzzati, persino Michael Jackson col suo mega-hit Thriller (1982). Il musical The Rocky Horror Picture Show (1985) è un cult immortale. Pensiamo alla pittura surrealista, ma anche alle Pitture nere (1819/1823) del Goya, a quelle infernali di Bosch e Bruegel il vecchio. Tornando a teatro, quello d’élite, pensiamo al Macbeth, o alle sconvolgenti rappresentazioni della compagnia Raffaello Sanzio. Gli storici sceneggiati della Rai, come Il segno del comando (1971), Ritratto di donna velata (1975) con Ugo Pagliai e, restando in tema bianco e nero catodico, Gianni e Pinotto contro l’uomo invisibile (1951), l’immenso Frankenstein Junior (1974), Totò all’inferno (1955) e Fracchia contro Dracula (1985). Senza dimenticare l’arcaico Frankenstein dello statunitense J. Searle Dawley del 1910, che anticipa di dieci anni Il mostro di Frankenstein di Eugenio Testa del 1920, cui segue quello iconico di James Whale del 1931.
Da esplorare anche la musica, naturalmente. Per chi non lo avesse ancora preso in considerazione, il prog rock vecchio e (sempre) nuovo coi suoi contenuti psychodelici (The Lamb Lies Down On Broadway (1974), Genesis; Figure di cartone (1972), Le Orme; L’incanto dello zero (2018), Il segno del comando.
Pertanto, quella domanda lì, attualmente, merita una duplice valutazione. Se fatta in buona fede, o se posta in modalità snob. Se è una domanda snob, allora merita una risposta complessa, perché l’Horror si prefigge di combattere il banale e il conformismo, risvegliare i paladini del buonismo dalla lobotomia televisiva e ricordare che la paura è un sentimento umano e ontologico. L’impresa più difficile è cambiare la testa delle persone con una formazione intellettiva aliena dalle fiabe e dalla letteratura romantica, scapigliata e decadente, nonché confuse da un concetto tutto travisato dell’Horror e i suoi derivati.
Ma la risposta più onesta e diretta c’è, e suona così: «Perché è la mia letteratura». Sì, avete letto bene. Potete sfregarvi un po’ gli occhi, se serve, o pulire le lenti degli occhiali tirando giù una silenziosa bestemmia. Avete letto bene e ribadisco: Letteratura.
Quando sento qualcuno dire: «Eh, ma l’horror non mi piace, non lo leggo. A me piacciono le storie tipo L’Esorcista, o Stranger Things (2016) dove c’è della psicologia», allora io lì vedo la gente morta. Intellettivamente morta. Carcasse blateranti che parlano un italiano scorretto come un qualsiasi turista in bermuda, cappello di paglia e birkenstock nella immeritevole missione di scalare i bastioni del congiuntivo. Che riderebbe di qualunque vecchia fiaba – («Roba da ragazzini»), per non parlare dei fumetti («Roba da ragazzini con problemi»). Se poi spostiamo il raggio di azione dell’immaginario del sovrannaturale alle massime vette della letteratura dei titani, non ho paura e trituro sotto i miei cingolati pesanti la massa orfana di fratelli Grimm chiamando a raccolta l’Orlando Furioso, canto ventesimoquarto, sesta ottava:

Per una gamba il grave tronco prese,
e quello usò per mazza adosso al resto […]

Ludovico Ariosto, Ferrara 1516.

Ludovico.
Ariosto.
1516.
Ferrara, non Seattle, e nemmeno l’Olanda paranoica del satanista Burzum. Così come da sempre ho fatto il tifo per l’Inferno di Dante. Non me ne vogliano i detrattori dell’Horror e i puristi dei blog di narrativa che reputano Fabio Volo uno scrittore affermato (ma sì, lo è) se nel ripercorrere il Canto XXVIII, ottava e nona terzina, raffigurazione del profeta Maometto, per istinto mi sovviene una sovrapposizione para-leonardesca, quasi entropica fra il 1314 toscano e il 1984 del Body Horror. Passando per le macellerie mobili di mezzanotte di metà XIX secolo.

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’ io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

… e

L’essere che gli aveva afferrato il labbro gli staccò il muscolo dall’osso, come se stesse sfilando una calzamaglia.

 La sfida dell’inferno, Clive Barker,
The Books of Blood Vol.2

Queste immagini fatte di carne e sangue, di morte vivente, stendono un ponte ideale tra due mondi europei narrati per allegoria estrema sulla fisicità dei personaggi. Allora domandiamoci: perché Dante ha voluto parlare dello scisma religioso facendoci vedere il profeta Maometto che cammina a passi smisurati aperto dal mento all’ano (dove si trulla) come un quarto di bue e i visceri che strisciano a terra? Risposta: perché l’invettiva filosofica di Alighieri non poteva non assumere questa necessità compositiva e descrittiva. Era la forza rivoluzionaria della sua contestazione sociopolitica. Mezzo millennio dopo, Clive Barker da Liverpool riscrive le regole dell’horror letterario mentre al cinema si è già affermata la New Wave Of Body Horror (definizione mia) con le mutazioni corporee del dopo-guerra fredda e lo spettro Chernobyl (come se Hiroshima e Nagasaki fossero state solo un film): su tutti, il cinema di David Lynch con Eraserhead (1977), Elephant Man (1980) e David Cronenberg con Rabid. Sete di sangue (1977), Brood, Videodrome (1983), La Zona morta (1983), La Mosca; e sui giradischi del pianeta, la New Wave Of British Heavy Metal – definizione dai libri di storia della musica – dal 1980 in poi con tutto un carico di mostri, zombi, inferni, demoni, apocalissi, creature di questo e altri mondi per ogni strofa e chorus.
Non mi riferirò a La Sacra Bibbia. Quella la diamo per scontata, come viaggio a sé stante nell’Horror.
Ma prima di suggerire i racconti di Lovecraft, Poe, Ambrose Bierce, Guy de Maupassant, e tutti i periodici in bianco e nero NECESSARI per la comprensione dell’Horror a fumetti (di cui ho parlato qui, nel blog lo spazio bianco) facciamo un salto tra le fiabe e vediamo chi è cresciuto senza.

La vicenda editoriale de La storia del bambino che si succhia i pollici ha dell’incredibile, se pensiamo che a metà anni ’50 il noto psichiatra tedesco Fredric Wertham, emigrato in America nel 1922, iniziò la sua luminosa carriera partecipando al processo del serial pedokiller Albert Fish, e pubblicando in seguito il saggio Seduction of the innocents (1954). Tale libro denuncerà la perniciosità dei fumetti dell’orrore ai danni dei giovani lettori inseminando in provetta il Comics Code Authority, sistema autocensorio per garantire gli editori da sequestri e denunce per oscenità (bastava un logo che dicesse Terror in copertina). A me viene in mente che Wertham cercasse solo di incanalare la sua irresistibile pulsione omofoba, visto che riuscì ad accusare Batman e Robin di omosessualità e Wonder Woman di lesbismo e promozione del bondage.

Cento anni prima, cento anni, un eminente collega di Wetham, Heinrich Hoffmann da Francoforte, dà alle stampe nel 1854 lo Struwwelpeter, raccolta di filastrocche destinate al figlio. Psichiatra precursore delle moderne neuroscienze, che un po’ ricorda il personaggio di Laszlo Kreizler della serie Netflix L’alienista, Hoffmann crea un decalogo in versetti a-morali crudeli e violentissimi per insegnare ai bambini, grazie a un epilogo puntualmente catastrofico, ciò che non devono fare per la loro salute e la rettitudine. Fredric avrà mai letto i seguenti versetti a dir poco sado-demoniaci (per i tempi)? Il dottor Hoffmann ha ispirato molti luminari. Tranne uno, evidentemente:

S’apre la porta ed il sartore
Entra a gran salti pien di furore.
Col forbicione, zig zag, recide
Al bimbo i pollici; il bimbo stride,
Invan, ché il sarto se n’è già andato
Col forbicione insanguinato!

 da La storia del bambino che si succhia i pollici (Der Struwwelpeter, 1854).

Chissà perché quando pensiamo al massimo degli orrori vengono in mente i bambini e il mondo dell’infanzia. Hansel & Gretel, pubblicato per la prima volta nel 1812, racchiude già l’archetipo dello sconosciuto come sliding door di perdizione e morte ai danni dei plagiabili ma seduttivi innocenti. Tema che affonda negli abissi dell’anno 1000, perfezionato dal Cappuccetto Rosso di Charles Perrault del 1697, col finale nefasto che piace a noi untori del male, pari al nuovo horror del cinema spagnolo. E se David Bowie ha fatto del suo trapasso e del suo disco Blackstar (2016) un’opera d’arte metafisico-autobiografica, altrettanto i detrattori dell’Horror vogliono vietare le fiabe – l’ultima denuncia contro le pubblicazioni a fumetti – e al mio libro di racconti Primi delitti – è italiana e risale al 1990. Interrogazione parlamentare al premier Andreotti, pensa un poco, in una sorta di carpiato intellettuale all’indietro, ignorando, o ben sapendo, che il racconto dell’orrore è nato come strumento pedagogico per l’infanzia. Gli studi dello psichiatra Hoffmann, come la poesia e la prosa del coevo Poe, d’altronde, precedono sia Freud che Wertham, e io credo che abbiamo solo un caso al mondo, nella storia dell’editoria, in cui un amante dell’horror abbia commesso ciò che ha letto e scritto nei fumetti o nei libri (il fumettista Blake Leibel). E no, l’eccezione non conferma la regola, perché la pulsione omicida non è una contaminazione come il morbillo e i virus non si attaccano alla carta stampata. Le uniche letture che fanno venire voglia di uccidere sono solo gli house-organ di partito camuffati da quotidiano.
E quindi, perché l’Horror?

Se per letteratura intendiamo comunione intellettiva, trasferire il mondo cognitivo dell’autore a quello del lettore, a più lettori, uno contro infinito, e che le percezioni si perpetuino addirittura nel tempo fornendo per ogni epoca una lettura contemporanea del reale, allora l’Horror è letteratura. Perché parla dell’uomo. L’Horror è una specie di Umanesimo – mi perdonino gli insegnanti e i letterati – tramite cui vogliamo scavare negli anfratti dello spirito, della natura arcaica e arcana dell’uomo, fino a investire la teologia e l’antropologia. Basta leggere tutti i racconti di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft.
E quindi: «Perché l’Horror?»
Aggiungo: «Perché il tuo cervello e il tuo spirito aridi ne hanno bisogno».
Uno dei più bei romanzi della letteratura Horror di tutti i tempi non è It, mi dispiace, visto che King lo amo come persona e come scrittore. Ma Rosemary’s Baby di Ira Levin (1967). Per chi non ha visto il capolavoro di Roman Polanski, il film sgorga comunque dalle pagine, è una vera odissea a scorrimento orizzontale, una mutazione dei protagonisti attraverso il dolore e il senso di colpa e inadeguatezza, la meschinità. La letteratura di questo romanzo consiste nel sentire, palpare il non detto, percepire gli ambienti chiusi e aperti, le atmosfere e i battiti cardiaci dentro e fuori i personaggi, anche quando Ira Levin non scende nei dettagli. Ogni personaggio è talmente profondo e completo da farti avvertire la sua carica storica tramite ogni minimo gesto e parola. L’Horror può essere letteratura, e qui sfioriamo l’apoteosi teatrale scenica. Difatti, per chi ha visto l’opera di Polanski prima di leggere il libro, vivrà un meraviglioso riassunto scritto visto con lo stereoscopio View-Master.
Peccato, però, che io mi debba arrabbiare davanti a un capolavoro. Nella pur elegante edizione Bur, in bandella, il romanzo viene presentato come commedia che vuole far sorridere. Commedia? Non capisco l’esigenza di smorzare i toni di un libro nato per raccontare la stregoneria, Satana, l’Anticristo. E l’abiezione umana. In realtà la capisco, sia chiaro, ma non l’accetto. È una forma di Comics Code Authority per non spaventare il pubblico e i librai.
Altro capolavoro della narrativa è ancora un romanzo da cui Polanski ha tratto il suo capolavoro del 1976, L’inquilino del terzo piano. Ma neanche questo è una commedia. No no. È un Horror, signori, un non-classico della letteratura. Per favore non mordermi sul collo è una commedia. Pallottole su Broadway è una commedia. Il principe cerca moglie. Frankenstein junior.
Scritto da Roland Topor nel 1964, ecco un incubo di classe molto elevata scritto con l’intenzione (ovvero, il risultato) di accendere gli occhi della mente su un mondo plastico e vivo, un fuoco istantaneo di immagini, personaggi e atmosfere perfette. L’inquilino del terzo piano è un Horror metafisico dalla perfetta circolarità a incastro. Il libro inizia come finisce, spostando il protagonista da spettatore esterno a vittima di un dramma (infinito?), come un insetto caduto nella tela del ragno. Riguardo il film, i critici si dividono sulla caratura kafkiana della storia. Be’, il romanzo è un meccanismo, anzi, una scatola cinese kafkiana e la sua modesta foliazione (158 pagine, edizione Tascabili Bompiani, 1992) lo rende una scuola di scrittura Horror in miniatura. Notare bene che, sia questo titolo sia il precedente, non vengono definiti Horror nelle note di copertina. Secondo questa edizione, il romanzo di Topor è «un filmato letterario strizzato di humour». Humour? Strizzato?
Forse occorre un prologo semantico per distinguere l’ironia dallo humour, dalla commedia, dal grottesco.
Classificato Horror nelle note di copertina dell’edizione Oscar Mondadori del 2002, è invece L’Esorcista di William Peter Blatty, dato alle stampe nel 1971. Il romanzo, profondo e intenso, aspro e affatto incline a offrire un barlume di dubbio al lettore (il Male è Il male), è un altro caposaldo assoluto che non può mancare nella cultura di un autore e di un amatore. È vero, William Friedkin predica da quasi mezzo secolo che lui non voleva farne un film horror. È vero, la metafora, neanche troppo criptata anche nel romanzo, è sul conflitto interiore, il senso di colpa, ma il demone c’è eccome a penetrare, possedere, soverchiare, trasformare e uccidere la carne umana.
Il 1985 è l’anno in cui il Body Horror è ormai diventato culto cinematografico. Stephen King, Lovecraft dei nostri tempi, ha visto i suoi primi dieci romanzi (a nome King) diventare dieci pellicole mondiali dai più grandi registi e già può scegliere nel britannico Clive Barker il suo successore venuto dall’Europa. Addirittura la compianta Linda Eastman McCartney, ex moglie di Sir Paul, lo fotografa per il retrocopertina del romanzo Weaveworld del 1987. E così vedremo il suo placido, elegante volto trentacinquenne nelle bandelle bio dell’edizione italiana (Sonzogno) dei primi due Books of Blood, intitolati Infernalia ed Ectoplasm quando lo leggeremo per la prima volta nel 1988. Anno in cui abbiamo il romanzo più imponente (e sottovalutato) del rinascimento Horror mondiale, dopo i fasti dei settanta. Gioco Dannato (1985) arriva in Italia come un nuovo mondo ed è solo un romanzo di esordio. Le due raccolte di racconti con cui Barker si è fatto conoscere gli hanno già conferito una statura titanica per l’inventiva leonardesca, una sfrontatezza erotica e una ironia pirandelliana, macabra e orridamente slasher. Barker è John Waters, visionario come Lovecraft, con una crudezza spietata, glaciale, da anatomopatologo; le bandelle recitano infatti che assistere alle autopsie è tra le sue passioni, dopo i cartoni animati. Gioco Dannato è una grande prova di maestria narrativa, una sorta di I duellanti (1977) di Ridley Scott in versione epopea sovrannaturale. Un viaggio che inizia alla fine della Seconda guerra mondiale e si spinge ai nostri giorni compiendo una sontuosa odissea dalla struttura intricata attorno a figure archetipiche rimasterizzate, personaggi irrisolti e cupi più dei villain di David Lynch e una vena di nichilismo al cianuro post-zombi. Su tutti, il magnifico Breer, il mangialamette, lo pseudo-automa zombi, un po’ mostro di Frankenstein, un po’ Suppliziante di Hellaraiser.
Come Sam Raimi e Peter Jackson iniziarono dallo splatter-gore per finire in altri ambiti mainstream, anche Barker ha inaugurato un nuovo tempio per l’Horror e in seguito offrirà le vele dell’immaginario verso più ampie mete del fantastico. Ma quel che ha scritto è scritto, e non è possibile rinunciare alla sua figura di pietra miliare in un fortunato bivio per la letteratura del sovrannaturale e del nero.

L’attuale horror letterario è in una nuova fase mutante. Dopo una lunga Walkind Dead-diet, lo splatterpunk ha ripreso forza. È troppo presto per dire chi e con cosa segnerà questa epoca di nuovo oscurantismo sociopolitico. L’horror sta agitando storie di violenza estrema, superando ogni registro conosciuto e tollerato.
Il mondo soffre troppo, da anni, e l’escalation della violenza globale è pari al riscaldamento terrestre.
Ma non ci siamo ancora stancati di qualcuno che ci racconti una storia che sia meno spaventosa della realtà.
E chi vuole ancora fuggire l’Horror perché ne abbiamo abbastanza dalla cronaca, continua a sbagliare.
A scapito di tutti.
Amen.


paolodiorazio100

Paolo Di Orazio

(Roma, 1966) pubblica racconti, romanzi e fumetti horror dal 1986. Pioniere dello splatterpunk italiano, ha tradotto Jack Ketchum, Richard Laymon, Ramsey Campbell e Lovecraft.


 
Grande come una città
Grande come una cittàhttps://grandecomeunacitta.org
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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