In sintesi, la fantascienza è una costellazione di dispositivi al tempo stesso immaginari, possibili e testuali. L’alieno è quello che potremmo incontrare un giorno, se riuscissimo a evadere dalla prigione della gravità, ma è anche l’immagine anamorfica dei vari popoli con cui noi Europei siamo entrati in contatto – non sempre amichevolmente anzi quasi mai – nel corso dei secoli, e per questo la fantascienza nasce in Inghilterra, nel paese che possedette il più grande impero coloniale di tutti i tempi.
Il viaggio nel tempo è qualcosa che forse si potrebbe realizzare, se fossimo capaci di uscire vivi da un buco verme – un buco nero 2.0 –, ma anche alla base di una varietà mutante di romanzo storico. I robot li stiamo costruendo, anche se ancora non ci hanno mandato a quel paese; però, in origine erano il Golem, e guarda caso l’inventore dei robot era di Praga, ed ebreo lo scrittore che li ha definitivamente legati alla fantascinza, Isaac Asimov; e se ciò non bastasse, i robot incarnano l’antica dialettica tra creatore e creatura, a partire dalla Bibbia e da Adamo (ed Eva). Ancora una volta, una storia ebraica.
Ed è sempre così pure per gli altri dispositivi classici della fantascienza: l’astronave, l’androide – un robot che non sembra tale, ben più ingannevole e minaccioso dell’uomo meccanico –, gli universi paralleli, le intelligenze artificiali e via così, tutto l’arsenale della fantascienza è al tempo stesso qualcosa che – non si sa mai – un giorno o l’altro potremmo anche ritrovarci in casa o al lavoro, e immagine più o meno deformata di qualcosa che è già qui. Si chiama rappresentazione anamorfica e, a mio modesto avviso, è una delle caratteristiche fondamentali della fantascienza che vale la pena di leggere.
E ognuno di questi dispositivi ha a che fare con la narrazione stessa. Pensate ai viaggi nel tempo: hanno molto a che fare con la memoria, e/o con la capacità del narratore di far tornare in vita un tempo nel quale non abbiamo vissuto. Hanno molto a che fare con il mestiere del romanziere storico. Vuoi farmi tornare nell’antica Roma? Ok, ma devi convincermi, a parole, che siamo tornati lì. Questo vale per Marguerite Yourcenar come per Robert A. Heinlein (il fantascientista è il secondo, a scanso d’equivoci).
Aggiungiamo al mix la storia futura. La fantascienza, a differenza del fantasy, ha un rapporto necessario con la storia – il fantasy qualche volta ce l’ha: Mordor, se non si fosse capito, è la Germania). La fantascienza non ha scelta, deve confrontarsi con la storia, con il presente e, soprattutto, con i prossimi quindici minuti, come diceva giustamente J.G. Ballard, che di questo genere aveva capito tutto o quasi. Non è importante, badate, che la storia futura immaginata dagli scrittori di fantascienza si avveri: non siamo indovini (non sempre). Invece è importante che si scriva pensando storicamente. Un autore di fantasy può portarti a Hogwarts senza tante preoccupazioni; un autore di fantascienza deve tenere sempre in mente che se sta raccontando un futuro dovrebbe avere un’idea anche vaga di come ci si è arrivati.
Una piccola raccomandazione. Prima di dire che la fantascienza non vi piace, leggetela. Leggete L’isola del dottor Moreau di Wells; leggete Cronache marziane di Ray Bradbury; leggete i racconti lunghi di quella straordinaria scrittrice che fu Alice Sheldon, che per gran parte della sua vita si nascose dietro il nome di James Tiptree Jr. Leggete soprattutto Tempo fuor di sesto, Noi marziani, Un oscuro scrutare e VALIS di Philip K. Dick, uno dei più visionari scrittori di fantascienza, e al tempo stesso, nume tutelare della California e dell’America profonda, profondissima; un uomo la cui vita stessa è un romanzo. E poi passate dalle parti dell’altro visionario, quello che viveva in un’anonima casetta nella periferia più ordinaria di Londra, ma ha compreso il XX secolo e anticipato il XXI come pochi altri, James Graham Ballard, leggete Il mondo sommerso, Crash, Il condominio, La gentilezza delle donne; soprattutto leggete i suoi racconti, raccolti tutti da Fanucci quando era Fanucci. E per chiudere in gloria, visto che sono tempi di pandemia, leggete quel grandioso affresco che sono Gli anni del riso e del sale, di Kim Stanley Robinson, che immagina, in modo assai convincente, la storia dell’umanità se la Morte nera avesse sterminato del tutto gli europei nel XIV secolo. Leggete questi libri e poi potrete dire che la fantascienza non vi piace, ma probabilmente avrete cambiato idea.
Queste sono considerazioni assai generali, tanto per capire di cosa stiamo parlando quando parliamo di fantascienza. Ma in Italia?
Come tante cose della modernità, anche questa l’abbiamo importata. Nacque in Inghilterra a partire da Swift: se al posto delle navi nei Viaggi di Gulliver ci mettete le astronavi – e qualcuno lo ha anche fatto –, ecco qui la fantascienza varietà space opera. Emerge pienamente con il Frankenstein di Mary Wollstonecraft Shelley, tragedia della creatura e del creatore (e Mary creò la fantascienza, con un aiutino di John Milton); raggiunge la massa critica nella seconda metà dell’Ottocento, con Verne e Wells. Da noi un epigono, quasi isolato: Ippolito Nievo (non solo ottuagenari, ma anche una storia futura); poi ci si mette anche Salgari (onnipresente, lui), e dopo arriveranno i futuristi, Marinetti in testa. Poco prima della seconda guerra mondiale e dei suoi sconquassi, è uno scrittore italiano, Corrado Alvaro, a scrivere una delle distopie fondamentali del Novecento, L’uomo è forte, che assai probabilmente ha ispirato anche Orwell.
Ma era fantascienza senza il suo nome proprio; quello arriva solo durante il boom economico, quando Mondadori lancia Urania, la collana ideata da Giorgio Monicelli, fratello del regista, che inventa anche la parola equivalente all’inglese science-fiction, non un calco, una vera interpretazione. Da quel momento in poi il genere, in Italia, corre su due binari paralleli.
Da un lato abbiamo la fantascienza scritta da autori che si riconoscono senza problemi nel genere, spesso appassionati che hanno letto tutto Asimov ma niente di Proust, collezionisti, traduttori, editori, curatori di collane o riviste. Parlo di personaggi come Lino Aldani, Vittorio Curtoni, Roberta Rambelli, Gianni Montanari, Roberto Vacca, giù giù fino a Valerio Evangelisti, Clelia Farris e Alessandro Vietti (non si offendano quelli che non ho citato, un articolo non può consistere di una lista di nominativi; poi, se proprio vi volete offendere, fate pure, it’s a free country).
Cosa leggere di questi scrittori? Di Aldani decisamente Eclissi 2000, un romanzo breve che è un continuo svelamento, e al tempo stesso un’ansiosa interrogazione sul terrorismo degli anni Settanta. Di Montanari sicuramente La sepoltura, che mi fa pensare a quel che avrebbe scritto Camus se si fosse dedicato al genere. Di Evangelisti Cherudek e Black Flag; di Curtoni e Rambelli i racconti. Di Vacca La morte di megalopoli, che non so se è ancora fantascienza… per venire ai più giovani, non vi perdete Il potere di Alessandro Vietti. Di Farris il suo racconto nella raccolta Antropocene.
Poi ci sono tutti quegli scrittori che hanno fatto delle scorrerie più o meno riuscite nella fantascienza, anche se la loro fama non è legata a esse: alcuni, come Primo Levi, che non avevano problemi a usare la parola-F, altri, come Italo Calvino, che non vollero essere associati con il genere, neanche eccezionalmente (da fantascientista non posso non voler bene a Levi per la sua adesione al genere, che peraltro conosceva discretamente bene: prova ne sono le due raccolte di racconti Storie naturali e Vizio di forma). A questi nomi illustri ne vanno aggiunti altri, come Mario Soldati (Lo smeraldo), Ennio Flaiano (Un marziano a Roma), Luce D’Eramo (Partiranno), Dino Buzzati (Il grande ritratto), Carlo Cassola (la “trilogia atomica”, composta da Il superstite, Ferragosto di morte e Il mondo senza nessuno), Tommaso Landolfi (consigliamo Cancroregina, anche se Landolfi aveva verso la fantascienza ancor più riserve di Calvino); last but not least, Guido Morselli, con Contro-passato prossimo e Roma senza papa. E questa osmosi tra fantascienza e letteratura ‘generalista’ (cioè non caratterizzata come genere specifico) non si è interrotta. Prova ne sono i romanzi di Tullio Avoledo (dove qualche elemento fantascientifico ce lo trovi quasi sempre, e spesso entrano nel genere senza se e senza ma, come ne L’anno dei dodici inverni, Furland, La ragazza di Vajont) e l’Epopea fantastorica italiana di Enrico Brizzi (forse l’unica ucronia sul nazifascismo che regge il confronto con L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick), le narrazioni oniriche di Laura Pugno (soprattutto, ma non solo, Sirene).
Certo la vita degli scrittori italiani di fantascienza non è una gioia. Mai. Nell’editoria c’è la radicata convinzione che la fantascienza non vende; nelle università chi vuole far carriera deve dedicarsi a Dante, Petrarca Boccaccio, al limita al nostro asfittico Ottocento – la fantascienza non la si tocchi neanche con un bastone; la critica delle grandi testate è la critica delle grandi testate, cioè Marchettopoli. Pochi si interessano alla fantascienza italiana con un bagaglio critico e culturale, o semplicemente con la genuina voglia di capirci veramente qualcosa, al di là di pregiudizi e stereotipi; pochi, con pochi spazi a disposizione. Eppure, per fortuna, qualcuno ancora insiste, come Daniele Comberiati e Simone Brioni, due giovani docenti universitari emigrati uno in Francia, l’altro negli Stati Uniti, che alla fantascienza italiana hanno dedicato ben due saggi, Italian Science Fiction e Ideologia e rappresentazione. Senza dimenticare il notevole lavoro di Giulia Iannuzzi sul rapporto tra fantascienza ed editoria, Fantascienza italiana. E i fantascientisti ringraziano.
Umberto Rossi
Umberto Rossi (Latina, 1960), critico letterario da battaglia, studioso di fantascienza, letteratura di guerra e fumetti è un poligrafo, e non, mi raccomando, uno scrittore. Insegna lingua e letteratura inglese. Crede fermamente in Thomas Pynchon, Philip K. Dick e J.G. Ballard.