La mia isola del cuore si chiama Ventotene. Non è solo mia, condivido questo amore per l’isola con molte altre persone, non sono gelosa.
Chiunque abbia indugiato sul confine tra i suoi scogli e il mare blu, chiunque abbia fatto vagare lo sguardo all’orizzonte da Parata Grande quando il sole tramonta alle spalle di Ponza, chiunque abbia lasciato le proprie impronte sulla sabbia scura, rimanendo più del necessario a Cala Nave solo per vedere Santo Stefano virare sui toni dell’albicocca quando il sole è basso all’orizzonte. Chiunque abbia vagato tra i libri e le mongolfiere dell’Ultima spiaggia da Fabio Masi, chiunque abbia mangiato almeno una volta al Giardino, chiunque abbia fatto un giro dell’isola sul gozzo col naso all’insù quando Punta dell’Arco ti sbatte in faccia la sua potenza, chiunque abbia avuto almeno una storia d’amore legata all’isola, chiunque abbia versato lacrime e sorrisi aspettando amici arrivare e andarsene. Chiunque abbia lasciato l’Isola preferendo la poppa della Tetide per appoggiare lo sguardo sul suo profilo da balena mentre il traghetto ti riporta alla terra ferma, sa.
Sa che su quest’isola le anime si animano, le idee si fanno ideali, i desideri volano alti come i palloni colorati a Santa Candida. Sarà l’aria del confino, sarà Santo Stefano e la sua prigione, sarà che Altiero Spinelli ci ha scritto il Manifesto EU. Sarà. So solo che ogni volta che torno sull’isola qualcosa di nuovo nascerà e troverà il coraggio per farsi azione: un’idea, un desiderio, un’amicizia di quelle durano la vita intera, un amore, un progetto.
Allora ero li a Giugno del 2018. In tasca avevo due libri, “Hostia” di Federico Bonadonna e “Ho 16 anni e sono fascista” di Christian Raimo. Poche settimane prima di partire per Ventotene li avevo conosciuti, Federico e Christian, lo stesso giorno in occasione della presentazione del libro/indagine sui ragazzi dell’estrema destra di Christian. In quel momento non potevo sapere che entrambi, loro come persone e i loro libri, sarebbero entrati nella mia vita impastando quell’affetto, cultura e consapevolezza politica che di rado si trova nella vita.
Insomma ero lì a Ventotene, con Lizzy e le nostre figlie. Io e Lizzy parliamo sempre tanto e in quei giorni i nostri pensieri erano preoccupati, non facevamo altro che tornare sui soliti discorsi: scendendo i gradini della politica italiana, passando inevitabilmente per il degrado della nostra Città, girando l’angolo per l’immobilismo culturale di Roma, fermandoci sulla plastica che inquina i mari, salendo le scale verso un futuro incerto. Quali sono le cose importanti? A cosa teniamo? Cosa fare?
Non ricordo bene se stavamo percorrendo le rampe che salgono a Piazza Chiesa o camminavamo verso Piazza Castello. No, ecco, eravamo al Porto Romano sul molo, e guardavamo Santo Stefano. Da qualche parte, vicino, deve averci soffiato nell’orecchio Pertini, il suo cuore antifascista pulsava accanto a noi. Non so, fatto sta che in quel momento ho desiderato con tutta me stessa. Ho desiderato ritrovarmi fuori dalla mia ristretta cerchia di conoscenze, promuovere scambio su temi culturali e di politica, ho desiderato creare rapporti tra persone. Partendo dal basso, dal nostro quartiere a Roma: Montesacro. E mentre desideravo parlavo, e Lizzy con me, stavamo sulla stessa lunghezza d’onda.
L’ho vista arrivare l’onda, non era altissima ma era potente, arrivava lenta e piena d’acqua, sale e pesci e conchiglie e molte stelle marine, come quelle che Mariaclara fece vedere a mia figlia sott’acqua vicino agli Sconcigli, erano rosse, diversamente rosse, ma tutte belle.
A Mariaclara devo molto, dal primo momento in cui ci siamo conosciute al Porto Romano. Erano i primi anni ’80. Le nostre vite si sono intrecciate a più riprese. Devo a lei una delle emozioni più belle della mia vita, quando si è sposata con Cristina, proprio sull’Isola, a dimostrare a me e a tutti che è vero, i sogni grandi trasportati dalla nave del coraggio, arrivano lontano e si realizzano. Ma più di ogni altra cosa, devo a lei il mio ritorno a Ventotene, dopo un lunghissimo periodo di esilio da me stessa e di conseguenza dall’Isola.
Con Lizzy abbiamo iniziato a fantasticare: “A settembre chiamiamo quello e quell’altro e facciamo rete. Lavoriamo sul nostro territorio, partiamo dalle cose semplici, partiamo dalle persone”.
La settimana a Ventotene è volata, alba dopo alba, finestra dopo finestra sul Porto Romano. Mia figlia si è fatta un nuovo gruppo di amici, io ho incontrato i miei e ne ho conosciuti di nuovi. Un gabbiano tra le nuvole e la luna piena si è incollato i miei sogni e se li è portati in alto.
Intanto a Roma, in quei giorni, viene eletto Giovanni Caudo nel Terzo Municipio, il nostro. E Caudo chiama come assessore alla cultura Christian Raimo. Abbiamo sorriso io e Lizzy.
Ad agosto non ero a Roma, ma mi giunge la notizia: il primo del mese ai giardini sopra la metro Jonio, Christian Raimo invita Luca Serianni a parlare della “Lingua italiana come cittadinanza” e inaugura così quella che poi diverrà una lunga, lunghissima serie di lezioni aperte nell’anno a seguire. Poi arriva settembre.
E il settembre romano è piacevolmente caldo, si sta bene, si esce la sera che fa ancora un po’ estate. Lizzy mi chiama entusiasta e mi dice che al Tufello, tra i lotti, Raimo ha invitato Mastandrea per una lezione aperta e gratuita sul mestiere dell’attore. Ma guarda un po’, che bella idea. Vado. Centinaia di persone, facce note, vecchi amici, gente sconosciuta, giovani e vecchietti.
Qualcuno porta da bere, io porto un pacco di patatine fritte. Mi sono guardata intorno tutto il tempo, ascoltavo Mastandrea, ma non riuscivo a staccare gli occhi da tutta quella gente sorridente, rilassata, interessata.
È così semplice. È così vicino. È così piacevole. Eccolo, il mio desiderio di Ventotene, sembra proprio lui. Lizzy, si sta realizzando sotto i nostri occhi. Quanto forte abbiamo desiderato? È questo che volevamo?
Solo due giorni dopo, il 5 Settembre 2018 parte la Chiamata alle arti. Christian Raimo la lancia sui social. Chiunque sia interessato a collaborare, a discutere, a imparare, a costruire insieme è invitato nella sala consiliare del Municipio a Piazza Sempione. Ci sono anche io, rimango immortalata nella foto che rimane a testimoniare quelle 5 ore e passa di assemblea pubblica.
Si formano i primi gruppi e tavoli di lavoro: segreteria, social, partecipazione, redazione, arti, scienza, storia. Solo i primi degli oltre trenta gruppi esistenti ad oggi. Da quel momento centinaia di cittadini si mettono all’opera, pensando e producendo, seminando iniziative sul territorio. Le collaborazioni, le lezioni aperte e gli incontri spuntano fuori qua e là, una dietro l’altra e insieme agli eventi nascono rapporti e amicizie, una rete sociale che guarda oltre spostando la linea dell’orizzonte ogni volta un pezzetto più avanti. Questo movimento di cittadinanza attiva, questo laboratorio politico è potente, fuori dagli schemi, poco controllabile, fluido, grande. Grande come una Città.
Serve tempo per fare riunioni, per confrontarsi, per organizzare, per presiedere agli eventi. E ho scelto, la mia azione e il mio cuore li metto qui, in questo contenitore dai contorni poco definiti, fatto di persone, fatto di belle teste pensanti, in questa rete sociale, fatta di legami affettivi che non impigliano. Ho scelto d’istinto, come si fa quando ci si innamora, metto me, la mia capacità umana e professionale a disposizione di Grande come una Città.
Mio fratello me lo ripete sempre “tu non sei romana sei montesacrina”. Io rido, ha ragione. Sulla carta e sui due passaporti a testimoniarlo, ho doppia cittadinanza ma ho messo le radici in questo quartiere, dove sono nata e cresciuta. A volte penso che serva a bilanciare le innumerevoli migrazioni che i miei familiari e antenati hanno compiuto. La parte norvegese, fuggita in America a cercar fortuna e poi trovata, dal mio bisnonno pionere nel Klondike. La parte scozzese, sempre emigrata in America ma stabilita nel Montana tra mandrie e cowboy. La parte francese, composta da due adolescenti che da Marsiglia si sono imbarcati clandestinamente approdando poi a Livorno. Mia madre, americana che lascia l’America ventenne per sposare mio padre e stabilirsi a Roma. Mio fratello che se ne va da Roma per lavoro e si stabilisce a Seattle.
Io no. Mi sono attaccata alle strade come alle persone, ai luoghi come agli abbracci degli amici di sempre. E non ce la faccio a spostarmi. Posso andare, ma devo tornare. E questa fetta di Roma è casa per me.
Nella mia personale storia con Grande come una Città, a un certo punto, entra Trieste. Ci entra immediatamente dopo la Chiamata alle Arti, appena una mesata, a metà Ottobre. Perché si realizza in quei giorni un secondo desiderio, coltivato per decenni. Assistere alla Barcolana, da turista con il cuore velista.
Di Trieste posso dire semplicemente che è meravigliosa. Città di porto, come potrebbe non esserlo? Il profumo mi ricorda vagamente quello di Livorno, dove trascorrevo l’estate da piccola, tra Pancaldi e Calafuria.
Alla fine, penso, mi ritrovo sempre dove comincia il mare.
E poi Trieste è grande come il Terzo Municipio, o dovrei dire il contrario: il terzo Municipio è grande come Trieste.
Insomma era da molto tempo che lo desideravo, per via del mio amore per la vela, ci volevo tanto andare alla Barcolana, almeno una volta nella vita. Ci stava anche Daniele Gabrielli, quello di Azzurra 1983 per intenderci, che è stato mio maestro di vela nell’85 a Ventotene. Lui era lì per la regata e saliva anche la mia amica e compagna di viaggio Barbara, mi coinvolgono e decido di andare. La Barcolana un evento pazzesco. Spirit of Portopiccolo vince, ma il Viriella sul quale Daniele partecipa alla regata, arriva primo nella sua categoria e al quarto posto nella classifica generale.
I giorni e le notti si susseguono appiccicati, tre giorni di pura felicità. Torno a Roma con gli occhi pieni di bellezza e aria di mare. E con la determinazione di lasciarmi coinvolgere da Grande come una Città.
A Roma entro in due gruppi: il Gruppo Scienze e il Gruppo Storia. Partecipo alle riunioni e cerco di orientarmi, di conoscere le persone.
Col Gruppo Storia iniziamo il ciclo di lezioni aperte “Amare la Storia”. Lezioni aperte a tutti, gratuite, che comprendono uno spazio per domande dal pubblico e la possibilità di intervenire.
Prima lezione col cuore in mano, perché intercettiamo mio fratello di passaggio a Roma. Si rende disponibile per la lezione in occasione della giornata della memoria “Il sonno della ragione: razzismo, antisemitismo e shoah”. Bellissima, la sala consiliare piena zeppa di gente. È solo la prima, seguiranno molte altre lezioni con Gotor, Tano D’Amico, Ecca, Morando, Mantioni, Bonadonna, Portelli solo per citarne alcuni. Tutte le lezioni vengono registrate e rimangono disponibili sul sito o Youtube.
Nel frattempo io, Lizzy Longo e Daniela Serafini, partecipanti del Gruppo Scienza, decidiamo di staccarci e mettere su un nuovo gruppo. Lo annunciamo a inizio Febbraio, durante una plenaria al Brancaleone. Gruppo Antropologia e Psicologia Sociale (GAPS-GCC), questo il nome scelto. Partiamo in tre, ma nell’arco di tre mesi arriviamo a 40 iscritti. Comuni cittadini di tutte le età, compresi professionisti del settore. Posso dirlo, tante belle persone. Alcuni antropologi, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri.
Appena due settimane prima di annunciare la nascita di GAPS, mi ero trovata ad accogliere con entusiasmo una seconda occasione per salire a Trieste, che dietro a quell’atteggiamento un po’ freddo e distaccato da Città di confine dove la contaminazione austro-ungarica e slovena si fa sentire e vedere, si nasconde un’anima calda e vitale, è una Città che si fa amare facilmente. L’occasione me la offre la lezione magistrale del Master della NeuroComScience sull’Analisi Scientifica del Comportamento non Verbale, diretto dalla bravissima Jasna Legiša. Che poi è la mia materia, la comunicazione non verbale, quello di cui mi sono occupata tutta la vita, prima come danzatrice poi come psicologa.
La mia fortuna è stata avere una mattina libera dal seminario e un amico che mi ha segnalato il documentario di Erika Rossi: “La città che cura”.
Il titolo mi ha attratto magneticamente, ho deciso di andare e camminando per le vie di Trieste come fossi a casa mia, sono arrivata dritta dritta al cinema Ambasciatori, era il 19 gennaio.
Il documentario mi ha commosso profondamente. Mi sono fatta guidare dalla regista attraverso una realtà di cui sapevo poco o niente. Erika ha un occhio molto attento nello scegliere particolari che consentono allo spettatore di cogliere la natura e la qualità dei rapporti tra le persone, una qualità nella quale tutti possiamo rispecchiarci, perché emozionalmente complessa. Eppure non credo sia stato semplice raccontare l’esperienza delle Microaree.
Il Modello delle Microaree è promosso dall’Azienda Sanitaria di Trieste. Affonda le sue radici nel progetto denominato Habitat, salute e sviluppo di comunità (1998). Ma lo sviluppa e punta alla connessione e alla collaborazione di Comune, Ater, Azienda sanitaria e cittadini. Per Microarea si intende una piccola porzione di Città che comprende da 340 a 2200 abitanti al massimo. Ed è su queste piccole aree di periferia che si concentra l’intervento dell’equipe. Si rivolge alla cittadinanza più bisognosa. Alla popolazione più povera, più malata, più sola e quindi più a rischio di marginalità. Si rivolge a quelli che, anche se sei tendenzialmente un altruista, fai fatica a guardare negli occhi se li incontri per strada e tiri avanti augurandoti che qualcuno ci sia a prendersi cura di lui, ma non lo sai davvero.
Non basta una sola persona a prendersi cura di un altro essere umano. Servono più persone, serve una comunità. Gli operatori delle Microaree non se ne stanno chiusi in un Centro Diurno: entrano nelle case, creano tessuto sociale, fanno rete. Anche attraverso il Portierato Sociale: un luogo dove istituzioni e semplice cittadino si ritrovano, sinergicamente, a moltiplicare risorse. Sono processi lenti questi, di inclusione e sviluppo delle risorse umane.
Il tour di presentazione del documentario di Erika è proseguito durante tutto l’anno spostandosi di citta in Città, abbinato al libro dal quale è tratto: La città che cura, di Giovanna Gallio e Maria Grazia Cogliati Dezza, per la Collana 180.
È cosi che conosco anche Maria Grazia, durante una presentazione del suo libro e del documentario al cinema Farnese a Roma. Una donna di una vivacità intellettuale e una dolcezza rara. Christian Raimo partecipa al dibattito che segue il film e poi parliamo insieme, con Erika, Maria Grazia e Sarah Pennacchi che ha prodotto il documentario per la Tico Film. Noi di Gaps li invitiamo a tornare a Roma ma nella cornice del Terzo Municipio, per Grande come una Città. Non solo, proponiamo l’idea di costituire un piccolo gruppo di Gaps che possa andare in trasferta a Trieste per osservare il modello, verificarne l’esportabilità, pensarne l’applicabilità sul nostro territorio. Me ne torno a casa felice, non senza aver bevuto un bicchiere di vino rosso con Christian, Monica Crisci che coordina con me il gruppo Gaps, Sarah Pennacchi e altri conosciuti la sera stessa. Me ne vado con il libro de “La Città che cura” in mano, lo apro per leggere la dedica che Maria Grazia mi ha scritto: “A Laura, con la quale ho sviluppato già un buon capitale sociale”.
Da quel giorno ad oggi, si sono susseguiti nel Terzo Municipio decine e decine di eventi e lezioni aperte organizzate da Grande come una Città. Impossibile farne l’elenco, rintracciabile comunque sul sito www.grandecomeunacitta.org .
Sono anche tornata più volte a Ventotene e ad agosto, dopo 16 anni di assenza, sono tornata in barca a vela. Ho capito che devo stare attenta a formulare desideri, perché poi si avverano, e devo esserne all’altezza.
Stasera vado a cena da Silvia con Giorgia, Adriana, Isabella e Debora. Parleremo delle avventure estive tra un bicchiere di vino e un totano ripieno di sè. Poi inevitabilmente parleremo di Grande come una Città, la neonata ha compiuto un anno.
Pensavo, avviandomi alla macchina, probabilmente ci toccherà metter su un gruppetto che organizza la festa, la data scelta è il 6 Ottobre.
Accendo il motore, parte Please Please Please degli Smiths, una versione in cui Morrisey ha cambiato “Let me get what I want” con “Let me have who I want” e penso – Grande come una città è la miglior cosa mi sia capitata quest’anno – esattamente come tutte quelle cose che desideri, fantastichi, immagini e poi contro ogni aspettativa, ti si concretizzano davanti. E niente, per un po’ rimani incantato, poi muovi un passo e vai. Good time for a Change…