Luoghi sociali, spazi aperti che ne contengono di chiusi, terra di opportunità, distese da attraversare alla guida di bolidi ruggenti, ragnatele di intrighi, prigioni oppressive e infestate di mostri: nei videogame le città sono questo e molto altro, come e più che nel mondo reale, e sono quasi sempre terreno di un conflitto. Questo accade sia nel caso in cui una città venga simulata e gestita dal giocatore sia quando il giocatore si ritrovi invece immerso al suo interno, navigando nelle sue tre dimensioni. Il videogame può prescindere dal conflitto ma raramente sceglie di farlo.
Tra le eccezioni, forse la più famosa è The Sims [Will Wright, 2000-], dove la città però è poco più che contenitore di appartamenti e locali di incontro sociale, tessuto connettivo tra loft, club e ristoranti, anziché uno spazio con una (o più) identità. Dello stesso autore, SimCity [1989-] è il più celebre dei gestionali urbani e arriva, già dal quarto capitolo del 2003, a mostrare anche il ciclo vitale dei quartieri, che in una sorta di onda sinusoidale passano dal degrado alla gentrificazione e viceversa, secondo logiche – implicite nel gioco – spesso speculative.
Chiunque abbia giocato a SimCity sa benissimo che è impossibile progettare una metropoli da zero, perché la città cresce passo dopo passo e deve funzionare in modo soddisfacente – soprattutto economicamente – già nelle prime fasi, per poter sperare un giorno di diventare una megalopoli. Allo stesso modo però quando arriva il momento in cui si può e si deve espandere, ecco che il nucleo storico diventa una sorta di handicap, una zona forse non obsoleta ma di certo neppure funzionale, dove è necessario investire in demolizioni e ricostruzioni per integrarla con i nuovi quartieri. E così via in un ciclo idealmente infinito e che investe zone sempre più larghe, in un rinnovamento ‘virtuoso’ che non si pone il problema di come ai quartieri corrispondano comunità di abitanti. Il solo limite è la capacità del giocatore di mantenere l’amministrazione in attivo, continuando a erogare servizi e a offrire sicurezza ai cittadini. Il tutto mentre il gioco, come un Dio che ride dei piani degli uomini, scombina i progetti con inconvenienti o catastrofi di varia natura.
Quella di SimCity è una città dalle ambizioni utopiche, ma che non può prescindere dalla logica del capitale e non riceve aiuti statali di alcun tipo. Abbandonata a se stessa in una sorta di darwinismo urbano, considera i cittadini solo come un parametro da tenere d’occhio insieme ad altri, ridotti in fondo a consumatori più o meno soddisfatti del servizio amministrativo offerto dal giocatore. Ne viene una semplificata utopia capitalista, dove non è richiesto di essere un sindaco, bensì il miglior CEO possibile.
Con il miglioramento di processori e schede grafiche, i videogame si sono fatti via via più ‘immersivi’ e hanno iniziato ad affrontare non più solo arene di battaglia e corridoi da tiro a segno, ma spazi più aperti e popolati. Eclatante in questo senso Serious Sam [Croteam 2001-], che nel quarto capitolo userà i luoghi più turistici del centro storico di Roma, come realistico scenario per iperboliche battaglie contro schiere quasi infinite di alieni.
La vera simulazione di una città è però altra cosa, è la più difficile delle sfide immersive per gli sviluppatori di giochi, un obiettivo riservato ai lussuosi titoli tripla A, che hanno budget da blockbuster hollywoodiano. È dal 2000 circa che hanno visto la luce i primi giochi decisi a ricreare uno spazio urbano e metterlo a disposizione del giocatore come una sorta di luna park. Spider-Man [Neversoft, 2000] fu tra questi e fu un enorme successo per PlayStation, anche perché dava grande spazio al piacere di penzolare dai grattacieli di New York.
Nessuna serie di videogame è più legata alla città di Grand Theft Auto – GTA [Rockstar 1997-] che nel 2001, con il suo terzo capitolo, offriva per la prima volta un ambiente 3D in cui il giocatore potesse muoversi con relativa libertà, seguendo la trama del gioco ma pure, più semplicemente, dedicandosi senza troppi pensieri alla guida su strada. Oppure sfidare le forze dell’ordine, per vedere quanto a lungo si era in grado di resistere o di sfuggire, come in quei programmi TV americani con la caccia all’uomo di un qualche criminale. Con il passare degli anni GTA si è fatto sempre più evoluto e ogni capitolo ha aggiunto una serie di attività sportive in cui dilettarsi, oltre che spazi cittadini sempre più ampi e definiti, fittizi ma costruiti con riferimenti reali, per lo più californiani. GTA ha fatto molto discutere per la violenza che i giocatori sono liberi di scatenare, anche su inermi civili, e la versione online del gioco arrivata negli ultimi anni stimola i giocatori a confrontarsi in varie attività che possono essere anche criminose. In nessun caso però ci si trova dalla parte della giustizia: i protagonisti sono criminali giovanili, o veterani, che diffidano della legge con buona ragione. Questa infatti è spesso corrotta almeno quanto loro e, per esempio, l’FBI in GTA V non esita a coinvolgere i protagonisti nei propri intrighi, con ricatti e promesse che non sono meno violente di quelle della criminalità organizzata.
Anche quando non sono esplicitamente criminali come in GTA, in Mafia o in Yakuza, i protagonisti hanno spesso un rapporto difficile con le forze dell’ordine, e pure Spider-Man in certi capitoli può trovarsi sotto il tiro dei cecchini e costretto a combattere la SWAT. Lo stesso accade più volte anche a Batman nella Trilogia di Arkham [Rocksteady 2009-2015] e al superuomo elettrico di Infamous [Sucker Punch Productions 2009-2014], sempre in fuga dalla polizia. In sostanza, in qualunque titolo non ci si ritrovi nei panni di un detective si è molto probabilmente in quelli di un ricercato, se non per tutto il gioco almeno per una sua frazione. Questo perché il conflitto è l’anima dei videogame d’azione, ma pure perché in fondo la comunità di videogiocatori nasce come una sorta di nicchia avversa all’intellighenzia e alle istituzioni – ancora nel 2020 persone che rivestono cariche pubbliche lanciano occasionalmente accuse ai videogame. Inoltre, il mondo del videogame è in un sottoinsieme di quello dell’informatica e anche se pochissimi giocatori sono veri hacker, molti hanno comunque una fascinazione verso queste figure ribelli.
Lo dimostra il successo di una serie dedicata proprio agli hacker, Watch Dogs [Ubisoft 2014-], in cui il protagonista combatte tanto la criminalità quanto le forze dell’ordine, in una propria crociata personale sullo sfondo di una smart city. Dotato di straordinarie abilità di programmazione e di ingegnosi gadget, l’(anti)eroe manipola la tecnologia della città, alzando blocchi del traffico, alterando il flusso dei semafori, disattivando videocamere di sorveglianza e persino sollevando o abbassando ponti levatoi. Peccato che in ultima analisi Watch Dogs richieda al giocatore soprattutto una cosa: saper sparare bene – meglio se in mezzo agli occhi dei nemici per il cosiddetto one-shot. Una buona mira in Watch Dogs risolve i molti problemi per cui non basta il talento dell’hacker.
I due capitoli della serie, ambientati in versioni fittizie, ma non troppo, di Chicago e San Francisco, si segnalano anche come straordinarie simulazioni della vita in città. Prive dei tratti satirici e caricaturali che attraversano la saga di GTA, vantano una impressionante attenzione non solo all’atmosfera ma pure ai comportamenti dei cittadini, di cui è possibile intercettare l’attività telefonica anche quando non è utile ai fini della trama, scoprendone così abitudini e intrallazzi. In assenza di sequenze d’azione pressanti, che spesso iniziano solo quando attivate dal giocatore, si può passeggiare in queste città e godersi con piena meraviglia la simulazione. Ma sotto l’apparente tranquillità sociale si cela, in Watch Dogs, un sistema di controllo pressoché totalitario e principale nemico del protagonista. In particolare, nel secondo capitolo, questo sistema, che riceve informazioni da tutti i device attivi nell’area urbana, ha portato all’ingiusta condanna di un hacker, che dovrà lottare con le unghie, con i denti e con ogni cellulare, tablet e laptop a disposizione, per dimostrare che il sistema è tutt’altro che perfetto.
Quelle di Watch Dogs sono ricostruzioni di metropoli reali contemporanee, ma il videogame è anche territorio d’elezione per l’impossibile, sia esso il fantastico o la ricreazione di una città di secoli addietro. In quest’ultimo filone eccelle sicuramente la saga di Assassin’s Creed [Ubisoft 2007-], non a caso degli stessi sviluppatori di Watch Dogs e altrettanto attenta a ricreare dettagli urbani. La serie ha ridato virtualmente vita alla Firenze rinascimentale, alla Boston della Guerra d’Indipendenza, alle cittadine del Mar dei Caraibi ai tempi dei pirati, alla Londra vittoriana e alla Parigi della Rivoluzione francese, per poi passare all’Egitto e alla Grecia dell’antichità. Un tour de force storico, architettonico e urbanistico che di capitolo in capitolo si è fatto più curato, non solo grazie al potenziamento dei mezzi tecnici a disposizione, ma soprattutto perché la cura di queste ricostruzioni è diventata un marchio di fabbrica della serie, un vero e proprio selling point per giocatori appassionati di storia.
In Assassin’s Creed, dove pure non mancano zone selvagge, grotte, rovine e tutto l’armamentario delle location d’avventura, le città hanno un ruolo cruciale perché è lì che alberga il potere, e la serie è sempre dalla parte di chi si ribella e lo combatte. La città è teatro di complessi intrighi, tra assassini e alleanze, con rivelazioni e tradimenti che evitano all’intreccio di farsi troppo manicheo. La serie peraltro vanta, nel secondo capitolo, il ‘boss’ finale più oltraggioso e deliziosamente anticlericale di sempre, nientemeno Papa Alessandro VI che si batte corpo a corpo con l’assassino Ezio Auditore sotto gli affreschi della Cappella Sistina.
Anche la Rockstar di GTA si è data alle ricostruzioni storiche e in L.A. Noire [2011] ricrea la Los Angeles del secondo dopoguerra. Tra gli Studios, i boulevard e le colline di Hollywood c’è spazio anche per il set semiabbandonato della Babilonia di Intolerance, una licenza poetica, visto che in realtà il set era stato smantellato già nel 1919. Nei panni di un agente di polizia che diventa presto detective – per poi precipitare nel baratro come in ogni noir che si rispetti – si assiste a una storia di corruzione e depravazione, dove è ben chiaro che il giusto non coincide con la legge.
Sempre Rockstar si è cimentata anche con le città del vecchio West nella saga di Red Dead [2004-], dove l’urbe è un’oasi di relativa civiltà rispetto al mondo selvaggio della frontiera, ma dove non mancano certo occasioni di avventura. È infatti caratteristica di tutti i giochi dallo scenario aperto, il filone open world, fare delle città una sorta di base dove raccogliere missioni e incarichi, a volte con risultati soverchianti, perché sembra che chiunque sia programmato per parlare con il giocatore abbia qualcosa da chiedergli. È così per esempio nelle città fantastiche della serie The Elder Scrolls [Bethesda Softworks 1994-], e lo stesso vale per i giochi di ruolo figli di Dungeons & Dragons, come Neverwinter Nights [BioWare 2002] o Divinity: Original Sin [Larian Studios 2014-2017], oltre che per vari capitoli di Final Fantasy [Square Enix 1987-]. In questi casi la città è spesso un faro di luce nel buio, che magari ha anche le sue ombre, ma che è importante salvaguardare dalle apocalittiche minacce esterne. Così è anche in un titolo di fantascienza come la trilogia di Mass Effect [BioWare 2007-2012], dove la città è il luogo della diplomazia, in cui si consumano intrighi di palazzo e si ricevono incarichi della massima importanza. Qui viene dato poco spazio alle persone comuni, che è invece più facile incontrare in qualche sperduta colonia spaziale, spesso governata da una corporazione senza scrupoli o da qualche gruppo criminale.
Per la trilogia di The Witcher [CD Projekt RED 2007-2015], in linea con il taglio dark fantasy dei romanzi originali, vale la pena di citare il Conan di John Milius, che di fronte alla città esclamava: «Civiltà: antica e depravata!». In The Witcher dietro le mura fortificate si nascondono spesso mostri peggiori di quelli che razziano i villaggi di campagna: governanti ossessionati dal potere e pronti a sacrificare i sudditi per mantenerlo, disposti a scatenare maledizioni sull’intera città e decisi a ingaggiare il protagonista per liberarsene, spesso con l’idea di tradirlo una volta risolto il problema. Città come nidi di serpi, dove la rispettabilità nasconde nefandezze e le rimostranze dei giusti sono soffocate nel sangue. Non è da meno lo steampunk di Dishonored [Arkane Studios 2012-2016] in cui, mentre la peste dilaga, i nobili godono di tutti i loro privilegi, tra bordelli e ricche feste con tanto di citazione di La maschera della morte rossa di Poe.
I titoli post-apocalittici guardano al western, alla logica della frontiera e del potere del più forte. Nella saga di Fallout [Black Isle/Bethesda 1997-], alla cupezza di un mondo reduce dall’olocausto nucleare, si affiancano architetture retrofuturiste, che ricordano come si fosse quasi realizzato un sogno a metà tra gli Happy Days e una servizievole e robotica. Sono invece più realistiche le post-apocalissi di Metro [4A Games 2010-] e The Last of Us [Naughty Dog 2013-]: nel primo la vita cittadina di quel che resta della Russia si è spostata sottoterra, nei tunnel della metropolitana; nel secondo bande di superstiti lottano per le poche risorse, tra gli scheletri di città semi abbandonate come Boston e Seattle.
Sono futuristici, ma non apocalittici, anche Deus Ex [Ion Storm 2000-] e The Longest Journey [Ragnar Tørnquist 2001-2006], titoli di generi diversi ma che condividono una visione del futuro in mano a enormi corporation, che esercitano un controllo massiccio su quello che succede nelle città. In Deus Ex, un gioco di furtività, vanno aggirati sensori, telecamere e guardie di sorveglianza per infiltrarsi nelle sedi aziendali e nei laboratori di ricerca, o persino nelle stazioni di polizia. La città fa per lo più da sfondo ma, di capitolo in capitolo, è maggiormente esplorabile il compito di mostrare le tensioni sociali che sono sul punto di esplodere. Il contesto del racconto è nelle rivolte di strada e nelle manifestazioni, spesso brutalmente soppresse. Toccherà al giocatore decidere se aiutare a suo modo i militanti o se prendere altre strade, in un dilemma filosofico sulle possibilità del futuro, come la cibernetica e il transumanesimo.
Nell’avventura grafica The Longest Journey il giocatore è nei panni di una ragazza con ordinarie amicizie, lavoro e relazioni, che si ritrova travolta da fenomeni magici. La parte fantasy è però secondaria rispetto a quella futuristica e metropolitana, dove anche la magia rischia di essere sfruttata dalla prepotente corporazione di turno, che ha effettivamente preso il posto della politica e amministra la città come se fosse cosa propria. Non arriva comunque ai livelli di assoluta malvagità della Umbrella Corporation di Resident Evil [Capcom 1996-], che ha scatenato l’epurazione dell’umanità attraverso un’apocalisse zombie. Il giocatore, di capitolo in capitolo, si trova spesso nei panni di personaggi che cercano di sopravvivere in città che sono trappole mortali, dove ancora più pericolosi dei mostri sono gli uomini della Umbrella Corporation.
Hanno invece scopi genuinamente utopistici i creatori delle città della serie BioShock [Ken Levine 2007-2013]: la sottomarina Rapture e l’aerea Columbia. Al prodigio ingegneristico corrispondono però ideali discutibili, come l’oggettivismo di Ayn Rand e l’eccezionalismo americano che animano lo spirito di Columbia. Passeranno purtroppo solo pochi minuti di gioco prima che il protagonista si ritrovi a difendersi con ogni arma a disposizione. Siamo nel filone ‘sparatutto’ e, per quanto si possano strutturare racconti complessi e immaginare società diverse, provocatorie e affascinanti, il conflitto armato è inevitabilmente il cuore dell’esperienza videoludica, tanto da mettere in ombra tutto il resto.
Appartengono al filone sparatutto anche titoli dalla ricostruzione urbana impressionante, come Crysis 2 e Crysis 3 [Crytek 2011 e 2013] e Tom Clancy’s The Division [Massive Entertainment 2016-], ambientati a New York in un futuro non troppo lontano. Se in Crysis i nemici sono alieni e la precisa ricostruzione della Grande Mela ripaga soprattutto per la giustapposizione con strutture extraterrestri, in The Division invece il tono è più realistico. In città è scoppiato un virus che ha scatenato il caos e i giocatori (è un titolo multiplayer), con la scusa di riportare l’ordine, dovranno combattere tanto contro i mercenari che contro i saccheggiatori, in una contestata equiparazione che non stupirà chi conosca le propensioni repubblicane di Tom Clancy. Ancora peggio accade in Max Payne 3 [Rockstar 2012], dove il protagonista è al servizio di una ricca famiglia e, mentre cerca di scoprire chi sia il suo vero nemico, finisce per uccidere letteralmente centinaia di criminali delle favelas brasiliane. Un massacro perpetrato da un bianco, al servizio di ricchi bianchi, su poveracci per lo più neri: quale che sia la vittoria finale di Max contro il villain di turno, di certo non giustifica questa carneficina.
Non priva di violenza ma con una ben più gioiosa esplorazione della città al proprio cuore, era stata molto avanti sui tempi la saga di Shenmue [Yu Suzuki 1999-], in cui un ragazzo vuole diventare maestro di arti marziali per vendicare la morte del padre. Il primo capitolo aveva luogo a Yokosuka, una cittadina giapponese, mentre già nel sequel del 2001 ci si sposta nella ben più frenetica Hong Kong. In entrambi i casi – e pure nel molto più recente terzo capitolo – i giocatori sono invitati a interagire il più possibile con l’ambiente urbano e con i personaggi che lo popolano, tanto che capita persino di dover lavorare per racimolare i soldi per un viaggio. Di episodio in episodio si sono fatte sempre più varie e numerose le attività in cui ci si può cimentare, dal giocare a freccette ad affrontare arcade cabinati, oppure andare a pesca e via dicendo. La città è dunque un luogo non privo di conflitti, ma è pure un posto accogliente e divertente.
Molto affascinato dalle città è poi David Cage, l’autore francese di giochi di culto come Heavy Rain [2010], Beyond: Two Souls [2013] e Detroit: Become Human [2018], che appunto a una città è intitolato. Heavy Rain era un noir cyberpunk dove tre personaggi erano legati all’indagine sul ‘killer degli origami’, con la possibilità di arrivare a diversi finali, molti dei quali davvero tragici. Anche nei giochi di Cage capita di dover combattere, ma essere sconfitti non segna necessariamente la fine della partita e anzi può aprire altre strade, perché la filosofia è di lasciare che il giocatore arrivi comunque a completare un’esperienza di gioco. Se in Heavy Rain siamo per lo più dalla parte delle forze dell’ordine, in Beyond la protagonista è una ragazza in fuga, braccata dalla legge e da un’organizzazione che ha fatto esperimenti su di lei. Qui si esplora la città da punti di vista quasi inediti nel mondo ludico; per esempio, in una sequenza in cui la protagonista vive da homeless per diversi mesi e chiede l’elemosina suonando per strada. In questa fase la città è per il giocatore un luogo crudelmente indifferente, dove la protagonista non è più al centro di grandi eventi bensì irrilevante e come invisibile ai cittadini ‘rispettabili’. Esperire questo tipo di emarginazione è straziante e sposta il confine di quel che siamo soliti considerare come gioco.
Detroit immagina un futuro dove gli androidi sono venduti quasi come elettrodomestici, per servire le persone, ma in alcuni di loro si inizia a risvegliare una coscienza. Uno dei tre protagonisti diventerà il capo di una rivolta, mentre un androide che dà la caccia ai suoi simili vivrà una crisi riguardo il proprio ruolo. La città di Detroit qui ha ritrovato il successo industriale grazie alla produzione di questi robot, quindi gli umani non vogliono assolutamente perdere il controllo del business che hanno creato. Una storia dunque di schiavitù e lotta per la libertà, il tutto all’interno di una città futuristica ma riconoscibile, del quale si attraversano i vari strati sociali e le diverse architetture. A seconda delle scelte del giocatore Detroit può arrivare a mettere in scena un’insurrezione, oppure offrire ai giocatori la possibilità di raggiungere una soluzione più pacifica. In ogni caso, che sia guerriglia urbana o trattativa diplomatica, il confronto con l’ordine costituito è inevitabile.
Ancora più libertà concedono i titoli non narrativi come Minecraft [Mojang 2009], gioco popolarissimo dove la costruzione di intere città è una delle attività più ammirate dagli utenti. C’è chi crea l’urbe dei propri sogni e chi cerca di ricostruire un luogo reale o del passato, oppure mutuato da qualche opera di finzione, come le città del Trono di Spade. La metropoli in Minecraft è occasione per sfoggiare le proprie abilità di autore e si offre sia come una vista aerea mozzafiato sia come un dedalo in cui perdersi. È però una città senza abitanti – a meno che non si tratti di qualche ricostruzione ufficiale da parte di un’associazione o di un comune, per avere una presenza in Minecraft.
Erano numerose simili aree di rappresentanza anche in Second Life [Philip Rosedale 2003] quando era all’apice del suo successo, tanto che nel 2007 era scoppiata persino una rivolta virtuale, perché Second Life non è un gioco ma una sorta di social network e, come tale, può essere soggetto alla propaganda politica. Accadde che la sede virtuale del Fronte Nazionale francese fu vista da molti utenti come un affronto ai propri valori progressisti, così alcune organizzazioni di sinistra colsero l’occasione per uno scontro frontale, senza i rischi e danni delle contese di piazza. Se nel primo giorno della protesta la manifestazione fu pacifica, nel secondo era già diventata una guerriglia urbana virtuale, con tanto di armi eccessive e colorate esplosioni. Il tutto peraltro vagamente al rallentatore, visto che l’attività era più massiccia e frenetica di quel che i server erano pensati per affrontare. In questo caso non è intervenuta una rabbiosa carica di polizia a fermare la rivolta e alla fine il Fronte Nazionale ha dovuto arrendersi e fare le valigie, abbandonando l’area che aveva occupato.
Questo happy end sarebbe un finale perfetto, ma dobbiamo ancora parlare di un ultimo gioco: il semi-indipendente This War of Mine [11 bit studios 2014]. Quasi un antidoto agli eccessi degli sparatutto in aria di fascismo e all’abuso di armi da fuoco nei titoli d’azione, inclusi quelli che vorrebbero essere critici verso il sistema. In This War of Mine si gestisce un piccolo gruppo di sopravvissuti in una simil-Sarajevo nel bel mezzo di un lungo assedio, si vive quindi la guerra dalla parte delle vittime, senza alcuna concessione escapista. Se i personaggi controllati dal giocatore commettono atti di violenza, reagiscono cadendo in depressione e dicendo di aver fatto cose orrende; inoltre il finale di partita riepiloga le loro gesta senza sconti sulle eventuali nefandezze compiute. Unica eccezione è se si cerca di salvare qualcuno, magari da un crimine di guerra. In quel caso il sollievo di aver impedito una violenza giustifica l’uso della forza, altrimenti meglio scappare o cercare di collaborare. In altri casi, ridotto allo stremo dalla fame e dal freddo, il giocatore potrà cercare di saccheggiare un’area poco difesa, per scoprire che magari è abitata da persone che dicono esattamente le stesse frasi dei personaggi controllati dal giocatore stesso: per esempio sognano solo di poter trovare un po’ di pace in un libro, prima di doverlo bruciare come fonte di calore nel gelido inverno.
This War of Mine ha avuto varie espansioni, e la prima lo ha reso ancora più straziante per la presenza di bambini tra i personaggi, costretti a giocare tra i ruderi, bisognosi di cure, magari anche mediche, aspetto che spinge il giocatore a scelte ancora più difficili. Le ultime espansioni invece hanno un taglio più narrativo: si gestiscono personaggi che sono parte di storie dedicate alle conseguenze psicologiche dei traumi di guerra, o al coraggio di radioamatori che sfidano le milizie con informazioni utili alla sopravvivenza dei profughi. Storie dolorose che, nel giocare alla guerra, chiariscono come la guerra sia tutto meno che un gioco. A questa lezione sulla violenza è arrivato recentemente anche il secondo capitolo di The Last of Us, dove il giocatore è però costretto alla violenza per imparare quanto sia distruttiva. Per non incorrere nella dissonanza ludico-narrativa, anche i combattimenti cruciali sono quasi più esasperanti che adrenalinici, in linea con la cupa crudezza del racconto. This War of Mine però è ancora meno ambiguo e, ancora oggi, resta il titolo più maturo nel raccontare cosa succede davvero a una città quando si inizia a sparare.