Ventimila battute sotto i mari vi regala non uno, ma ben cinque racconti da leggere durante le vacanze invernali. Alessandro Pera, Paolo Di Orazio, Marco Valenti, Daniele Poto e Irena Dubrovna vi faranno compagnia tra una partita a carte e un brindisi. Cosa augurarvi, se non buona lettura?
Racconto di Natale
Alessandro Pera
È un clima da neve, ma senza neve. Non c’è quasi nessuno in giro ma la gente non si è certo spaventata per il freddo: sono tutti al centro per le ultime spese. I pochi che passano hanno una gran fretta, snobbano il Babbo Natale intirizzito che distribuisce volantini all’angolo, ignorano la triste vetrina del fotografo e volano via, verso angoli più vivi. In questo quartiere, con le strade così larghe, il vento si sente di più; mette a disagio, come il chiarore di questo sole slavato, che sembra artificiale.
«Non passa neanche un cane con questo freddo, non finiscono più, ne butto un po’ nel cassonetto, non ci credo che fanno i controlli… trentacinque euro, ma te li fanno soffrire, la stronza dice fai il regalo alla bambina poi non compra neanche il vino, dico a Natale non si può bere l’acqua, è che ti deve far pesare tutto, se non lo chiedevo neanche lo diceva che non c’era il vino, da non credere, noi non lo beviamo, la strozzerei quando dice così, chi cazzo siete voi, io sono il padre, a casa non puoi tornare, glielo avessi chiesto… la Barbie no, ma quella celeste a venti euro, forse sì, bisogna arrivare al centro commerciale, mi faccio fare il pacchettino, chissà a che ora chiudono, venti euro e parla pure, ne rimangono quindici, il vino e le sigarette, alla stronza non compro niente, dice per la bambina, adesso ci pensi, le cose che mi ha detto davanti a lei, dice non sei cambiato, fanculo, cambia te stronza».
Passano svelti gli inquilini del palazzo di fronte, corrono i fattorini con le consegne, passeggiano le persone sole che rimandano il rientro. Ma il volantino lo prendono tutti a fatica, uno sguardo appena, scuotono la testa e spesso lo gettano in terra dopo pochi passi.
«Ma chi compra elettrodomestici, per Natale, cara ti ho preso il pelapatate elettrico, non si può, lo metti nel pacchettino, sotto l’albero, l’aspirapolvere, ecco la famiglia felice, io neanche l’albero ho fatto quest’anno, la bambina se l’aspettava, ma la madre non lo ha comprato, dice i soldi, ma tu lavori, che ci fai coi soldi, sei buona solo a chiederli, e allora addio albero, e il resto».
Nell’enorme negozio di specialità alimentari non c’è la folla che ci si aspetterebbe il giorno della vigilia, ma forse i prezzi sono troppo alti, per questi tempi incerti; i più accorti hanno fatto acquisti mirati nei giorni precedenti e ora sono rimasti soltanto i ritardatari, gli ingordi e quelli che hanno aspettato un invito fino all’ultimo. L’uomo, che ha paura di sembrare grasso, ha comprato già tante prelibatezze e, con le mani cariche di pacchetti, ordina ancora, ma con un’ombra di disagio, perché pensa che ridano di lui e facciano congetture maligne; invece sono solo stanchi e con la testa altrove, la nausea di cibo che sale ancor prima della cena. Lui rimarrà da solo ma non se ne duole, già pregusta il pasto delizioso, i vini che l’accompagneranno, i dolci, il film, scelto da tempo, il giorno di vacanza, una serena pausa dedicata a se stesso. Ha avuto qualche dubbio sul rosato, frizzante, leggero, forse troppo leggero, per portate così impegnative; ma il commesso dell’enoteca, con quei baffetti anacronistici, l’aveva alla fine convinto, «lo provi, lo provi, mi saprà dire». Lo trattano con ogni riguardo nei negozi, è uno che spende, che sceglie il meglio, e non solo a Natale, lo salutano a distanza eppure lui cambia spesso, non è mai del tutto soddisfatto.
«Fa un freddo veramente pazzesco, dovevo venire prima, svegliarsi presto è sempre quello che ti frega, ma col freddo che fa, gli autobus che non passano, poi è un quartiere sfigato, sì, hanno i soldi, ma non c’è un’anima in giro, se ne fregano dell’aspirapolvere, questi hanno tutti la serva, stasera banchettano come porci, guarda quel ciccione, con tutti i pacchetti, chissà quanti sono a cena, una busta è solo di vini, magari si mangia tutto da solo…».
L’uomo arranca un poco, il peso delle bottiglie, il vino, lo spumante, la grappa, gli disegna solchi tra le dita. E poi il caviale, il salmone, l’anguilla, l’insalata di mare, gli altri antipasti, l’aragosta, l’ananas, il torrone, le diverse specialità di pane; pensa che, forse, ha un po’ esagerato ma è quasi arrivato al portone, al caldo, alla pace, alla cena. Natale è bello per questo: la domenica alcuni clienti si permettono di telefonare, per casi urgenti, per ansia, ma a Natale no, non osa nessuno. Niente turberà il silenzio; anche i regali li hanno consegnati già tutti, quattro cestini quest’anno. Osserva con sbiadita curiosità il Babbo Natale che dà i volantini; lui non ha neanche un dito per prenderli e pensa che è strano che facciano ancora queste cose, neanche i bambini si fanno impressionare, le renne e il resto erano cose che andavano bene anni fa. Eppure cattura lo sguardo il rosso antiquato della divisa, in contrasto con la luce bianchiccia e finta che si sta lentamente estinguendo. C’è nell’aria il ricordo inquietante di poesiole mandate a memoria, un profumo d’infanzia e di riti che si mischia all’acre presenza dell’aceto e del fritto. Il portone è chiuso, come è giusto, ma è difficile cercare la chiave con le mani occupate. Le bottiglie ballano nella busta urtandosi, i pacchetti ondeggiano pericolosamente, rischia di cadere a terra il sacchetto del pane, forse l’olio deborda dalle vaschette e invade territori non suoi: il peso è veramente eccessivo ma la meta è vicina. E invece no, l’ascensore è bloccato: brilla arrogante la luce inquieta che indica occupato e otto piani separano il bottino dall’arrivo. Allora poggia a terra tutte le sue buste, disponendole meticolosamente in modo che non si rovescino; cercando di mantenere un tono dignitoso, lancia verso le scale un grido che nessuno raccoglie, sbuffa, sbatte con la mano aperta sulla porta, aspetta nervoso. Cinque minuti sono infiniti lì nell’androne ma rischiare di salire sperando che l’ascensore sia bloccato ai piani bassi è insensato: vorrebbe sedersi sui gradini ma non osa, sciuperebbe il vestito e poi se passa qualcuno…
«Stare fermi così è da pazzi, non finiscono più, il freddo taglia la faccia, me ne sbarazzo e poi vado in agenzia a incassare, gliel’ho detto, solo se pagate domani, è Natale per tutti, io sto qui a lavorare con questo freddo e poi quella dice sei venuto a scroccare, come al solito, ti sei bevuto tutto, ma i duemila dell’anno scorso però se l’è scordati, e la macchina, il cellulare s’è presa, dice che i soldi li aveva messi lei, si ricorda solo quello che fa lei ma non quello che prende, amore, amore, e contava tutto, tutto si ricorda, sta sempre a contare, la bambina pure me la mette contro, ieri neanche al telefono è voluta venire, sta studiando, e mica la mangio, sono il padre, poi però… guarda il ciccione che torna indietro, vorrà comprare altra roba…».
L’uomo grasso che sembra un vero Babbo Natale e il falso Babbo Natale magro, allampanato e infreddolito, parlano brevemente. Poi rientrano nel vicino portone.
«Cinque euro, otto piani, non è male, ci metto cinque minuti, sembro un somaro, guarda quante bottiglie, ancora quattro piani, c’è pure la grappa, questo non ce la fa neanche senza pesi, saranno duecento euro di roba, chissà poi nei pacchettini, la stronza avrà fatto spaghetti al tonno come tutti gli anni, sembra che tutto le pesa, ma quella bocca quando la chiudi, rinfaccia, e sta sempre a contare, il mutuo le ha dato alla testa, due piani, poteva metterci sopra una bottiglia di vino, il ciccione, è Natale, mica sono una bestia, sto sudando con questo freddo pazzesco, ecco, ci siamo…».
L’uomo, che proprio non vorrebbe sentirsi così pesante, arriva stravolto all’ultimo piano, affannato, lo sguardo spento, sembra più stanco lui dell’improvvisato facchino. Sul pianerottolo ha come un’incertezza, un attimo mal celato di esitazione; poi apre la porta e fa entrare Babbo Natale con il bottino. Nell’ingresso riprendono fiato, in piedi uno di fronte all’altro; si scrutano in un silenzio imbarazzato che non può prolungarsi ma l’ospite non viene subito congedato.
«Soltanto un minuto, un caffè». Babbo Natale si siede impacciato, con la sua improbabile divisa, nel salotto elegante dove i cestini stracolmi hanno incontrato i nuovi acquisti. Il clima qui è caldo, quasi troppo, ma è gradevole all’inizio; le mani fuori dai ridicoli guanti riprendono possesso del tatto e perlustrano la strana sagoma del divano. Il sangue circola di nuovo, faticosamente, «ci vorrebbe un cognac, ma un caffè va bene lo stesso, dieci minuti al caldo, non di più, per riprendersi da cinque ore di marciapiede».
La casa è di quelle che mettono a disagio, che sembra che non ci viva nessuno, con quei lampadari moderni, alla moda, il vetro ovunque, e i tavoli vuoti come nelle riviste di arredamento. L’uomo è fin troppo gentile, dice parole di circostanza sul freddo, il Natale, gli ascensori e i prezzi dell’anno scorso, parlando dalla cucina e lasciando il suo ospite incustodito nel salotto, da solo. Parla senza attendere una vera risposta, non si sono neanche presentati ma non può fare a meno di cercare di rompere il freddo tra loro.
«Un caffè caldo fa solo bene, non è vero che non fa dormire, poi è vigilia. Lei ha famiglia?»
«Eh, sì, cioè, una moglie e una figlia».
«Ah… bene, congratulazioni».
La caffettiera inizia a borbottare, allora spegne il fuoco, e si affaccia in silenzio nel salotto dal lato opposto da cui è uscito, perché le tazzine migliori sono nella vetrina e vede che l’altro si è alzato, ha preso una delle bottiglie e la nasconde nel giaccone rosso. Fa finta di niente, entra rapido nel salotto, prende le tazze e va via verso la cucina, ma non gli dà le spalle, teme una rapina e che la bottiglia possa essere usata come un’arma. In preda a un gelido tremito, attraversa la casa, verso lo studio. La regola è: non far entrare in casa gli estranei. Nel cassetto della scrivania c’è una pistola.
Nel frattempo dio era tornato sulla terra e aveva aperto un negozio di ferramenta a Long Island. La faccenda non era passata del tutto inosservata all’inizio; c’era stato un po’ di rumore, la solita fuga di notizie, e sui giornali locali erano usciti articoli su una possibile rinascita religiosa, su misteri sepolti da pettegolezzi di provincia e anche proteste dell’Associazione commercianti per concorrenza sleale. Poi piano piano le voci si erano diradate e infine erano sparite del tutto: c’è sempre un grande bisogno di speranza ma non è facile tener desta l’attenzione del pubblico.
Nel frattempo… Natale è una festa triste per chi è solo e ad alcuni ricorda errori commessi in gioventù. Non c’è parola, o gesto, o persona, che tutto comprenda e infine riscatti. Ma se hai a disposizione tutto l’universo degli accessori per la casa, le maniglie, le prese della luce, le serrande, i ganci per le tende, se puoi navigare nel piccolo mondo delle viti, dei bulloni e dei chiodi, se puoi ammirare le pareti decorate come un cielo infinito di cacciavite di ogni dimensione, se puoi, in perfetta pace interiore, dedicarti a catalogare questa immane raccolta di merci, chi è più beato di te su questa terra? La vigilia di Natale è un giorno ideale per l’inventario, pochi, pochissimi clienti al mattino (decorazioni per l’albero, qualche festone) e poi silenzio e pace per tutto il giorno. Poco lontano la folla e le luci del Luna Park, che si intravedono dalla soglia, mentre il vento porta appena un’eco della musica e del rumore; è meglio restare qui, fuori dal disordine, (puoi anche immergerti nel mondo, puoi anche essere il mondo, e se sei dio non ti è difficile, ma non puoi cambiare una sola virgola dell’orario ferroviario). È meglio restar soli nell’enorme negozio a contare le viti.
Sono in terra l’uno sull’altro e la lotta è feroce; il grasso non ha sparato e nel corpo a corpo sembra patire l’agilità e la rabbia dell’altro. Sfrutta però il peso e protegge la pistola con il corpo, sta sotto ma non è ancora vinto. L’altro scalcia, mulina le braccia, ha paura però che parta il colpo e vorrebbe conquistare la pistola, punta un ginocchio sullo stomaco dell’avversario e con le lunghe braccia gli afferra i polsi, li stringe, forma con le mani una disperata tenaglia. Sente il metallo della pistola vicino, «ancora uno sforzo», scivola e i due visi si trovano improvvisamente di fronte, vicinissimi, gli occhi negli occhi, «ancora uno sforzo…» improvvisa lo sorprende una testata sul naso. Il sangue scende copioso sulla barba posticcia e li contamina entrambi; sembrano un unico animale ferito che scalcia.
L’uomo vestito da Babbo Natale sente che sta soccombendo, il dolore della ferita, l’impaccio della divisa, la sorpresa di vedere un impiastro così battersi a morte, la pistola ancora nelle mani. Con l’ultimo guizzo strattona l’avversario e lo porta ancora più vicino al suo viso insanguinato; con una furia disperata gli ficca i denti nell’orecchio, morde e non molla, quasi glielo strappa, stringe ancora più forte ed è di nuovo sopra, sente il tonfo della pistola che cade in terra, ha vinto.
Gli ha dato solo due calci in faccia, non ha voluto infierire; il ciccione, spiaccicato sul pavimento, terrorizzato, non riesce neanche a implorare clemenza. A terra l’enorme macchia rossa del vino versato, i cocci della bottiglia, una sedia rovesciata, buffi volantini con un aspirapolvere addobbato come un abete, un improbabile posacenere a forma di rondine, con le ali ormai spezzate, regalo di un cliente bizzarro.
«Non ti ammazzo perché mi fai pena, coglione…».
Il Babbo Natale cerca di ricomporre la divisa, stracciata qua e là, macchiata di vino e di sangue, e con la barba in mano, riprende fiato, lentamente.
«Dimenticati di me, dimenticati, non è successo niente e ringrazia il cielo che è Natale…».
Andandosene afferra una delle bottiglie di vino poggiate sul pavimento e scampate miracolosamente alla bufera, se la mette solennemente sotto braccio ed esce senza fretta, guardando negli occhi il nemico.
L’uomo sente sempre più il peso dei chili di troppo, dolori ovunque e la sorpresa di essere vivo. La puzza del vino inebria e disgusta ma la desolazione è solo in questo angolo della casa. Dovrà dire alla donna di venire domani, anche se è Natale, per pulire la stanza, e tutto tornerà come prima.
Alessandro Pera (Roma, 1957) lavora come operatore sociale con gli adolescenti delle periferie romane. Narratore di storie a sfondo storico e civile, ha pubblicato la raccolta di racconti Afa (Odradek Edizioni, 1999) e partecipato alle raccolte collettive In ordine pubblico (Fahrenheit 451, 2005), Fragole e sangue (Edizioni clandestine, 2007), Per sempre ragazzo (Marco Tropea Editore, 2011) e Fuoco! Voci di lotta e racconti militanti (Red Star Press, 2018), a cura di Paola Staccioli. Racconto di Natale fa parte della raccolta In tempo di guerra pubblicata da Lorusso Editore nel 2014.
L’insaccato
Paolo Di Orazio
Salvatore fu svegliato da scossoni violenti.
I suoi sogni, durante quella prigionia infinita, erano diventati terribili. Non sembravano roba da cervello umano. Eppure, quando si risvegliava nel buio dopo quelle visioni del diavolo, era comunque certo che la sua mente ancora non fosse del tutto in frantumi. Però stava morendo di freddo e inedia. La pelle aveva perduto il senso del limite tra il proprio corpo, completamente nudo, e la carne esterna. La sua prigione umida e buia, stretta e paludosa ora veniva trascinata, presa a morsi, ribaltata. Da un mucchio di gente incazzata, là fuori. Ecco. Erano tornati per eliminarlo. Rabbia e rassegnazione, schifo, merda. Così devono sentirsi i condannati a morte quando li vengono a prelevare in cella per la sedia elettrica. Svegliarsi in quel modo, insomma, era peggio di tutto questo, e di tutti i sogni fatti con quella cosa avvolta alla faccia, le mani e i piedi legati, la posizione fetale obbligata, il buio che si scioglieva freddo addosso a lui, una ragnatela di morte.
E luce fu, quindi.
Uno squarcio si aprì proprio a un dito dalle lenti lerce della sua maschera antigas. E la prima cosa che vide fu il muso di un porco.
La luce esterna, dopo giorni e giorni di oscurità, accendeva tutto. E anche se le lenti della maschera erano infangate di lordura organica tra il marrone e il blu, Salvatore fu accecato dal saluto del mondo.
Il naso pieno di terriccio, merda e muco indugiò su quella imprevista mistura di gomma e carne che il porco aveva trovato. Poi, le mandibole furiose strapparono la parete della prigione di Salvatore, donando altra luce del giorno alla notte dei suoi più orribili incubi.
L’uomo temette che il porco volesse mangiare lui, ma l’animale fuggì via dai suoi compagni vedendogli il volto coperto dalla maschera.
Salvatore scosse la testa, le spalle, il corpo.
Vide intorno a lui i suini arretrare, spaventati dallo strano uomo di fronte a loro che cercava di liberarsi a testate nello squarcio di fortuna provocato dai morsi.
Salvatore era stremato. L’aria gelata di quella collina si appiccicò sulla pelle ricoperta di fluidi collagenosi che lo avevano avviluppato per tutto il tempo della sua prigionia. Gli strati esterni dell’epidermide stavano aprendosi in piaghe e ragadi, dovute all’umido perpetuo nella cella di carne.
Si scrollò ancora e cadde col busto a terra, nella polvere, per riprendere fiato attraverso i filtri.
Il mucchio compatto dei suini, raggruppati fino al recinto nella loro pozza di fango e merda, continuò a guardarlo con sospetto.
Cazzo, tutti lo guardavano, da quegli occhi.
Nonostante la maschera, le pupille di Salvatore erano una punta di spillo in risposta alla luce solare, e così l’uomo appena rinato poté vedere ogni singola mosca abbeverarsi nella sclera di ognuno di quegli occhi.
Provò a mettersi seduto. Le mani legate dietro la schiena.
Le gambe atrofizzate ancora non rispondevano, ma riuscì a sollevare le spalle e a mettersi dritto col busto. Così guardò anche lui a ciò che i suini ritenevano pazzesco.
La scrofa dentro cui quelli del clan lo avevano chiuso.
Era enorme.
Salvatore credeva di essere stato incastrato in una valigia e gettato in una palude, dopo che lo avevano picchiato e tramortito. Quella sulla pelle non era fango, ma carne che andava marcendo. Gli venne da vomitare, ma il cervello gli disse che sarebbe affogato nella maschera. Respirò a fondo, pensando al sole, alla luce, alla terra che lo stava accogliendo di nuovo, e trovò una relativa calma.
Vide la sutura sul ventre della carcassa, integra per metà. L’altra metà l’aveva strappata il porco che gli aveva dato il bentornato al mondo.
I suini grufolavano nervosi. La loro madre aveva partorito un essere con la faccia strana, una creatura sempre di colore rosso e rosa che somigliava a quelle che l’avevano presa, tagliata e aperta in due davanti a loro. La loro mamma. A nulla era valso gridare disperati. Avrebbero fatto scoppiare la testa sotto i denti, a quelle merde.
Salvatore sperò che quello intorno a lui fosse il bosco di Ferrara. Una volta liberatosi del tutto, se non tornavano gli scagnozzi a controllare, poteva correre sulla provinciale 41 e chiedere aiuto. Meglio pensare a come togliersi di mezzo. Quegli animali erano grossi come botti e se lo sarebbero sgranocchiato vivo. Camminavano avanti e indietro strofinandosi l’uno contro l’altro, nessuno fermo. Non era per niente rassicurante. Sembravano un banco di squali coi coglioni girati. Quindici, venti. Salvatore non sapeva nulla, di animali, lui sapeva solo di bestie su due piedi, forse con un cappello ma di sicuro una pistola nella giacca, e roba bianca da prendere a Messina, stoccare, tagliare e vendere, nient’altro.
Forse i creditori che lo avevano infilato nella carcassa pensavano che i maiali si sarebbero mangiati la scrofa col ripieno di Salvatore, dando a lui la possibilità di divertirsi sotto le ganasce dei maiali dopo aver dormito per un po’ dentro la porchetta fredda. Ma non c’era tempo, per pensare, adesso. I suini si sarebbero avventati su di lui per sbranarlo. Oppure, sarebbe tornato un sicario a dargli una fucilata in mezzo agli occhi a distanza ravvicinata qualora si fosse liberato. I maiali avrebbero ripulito tutto, mangiandoselo vivo o morto. Nessuno va a smatassare escrementi alla ricerca di uno spacciatore di merda.
In ogni caso, le bestie stavano preparandosi a qualcosa.
Riuscì a strisciare fuori della carcassa.
Alle spalle, un grosso porcile di legno. Il sole in alto, al centro del cielo segnava le una. L’inverno bruciava.
Salvatore strisciò nudo sulla polvere verso il porcile. Come un lombrico. La polvere del suolo gli asciugava la pelle, i raggi del sole erano freddi pure loro. Pensò che avrebbe potuto segare le corde legate ai polsi strofinandole su uno spigolo di legno, sciogliere poi quelle attorno alle caviglie, cercare uno straccio per vestirsi e darsela a gambe. Forse in meno di un’ora.
Si mise seduto allo spigolo della baracca e fece come pensato, tenendo d’occhio le bestie in preda al nervosismo crescente. La cosa buona dello strano moto del branco era che almeno così Salvatore poteva tenere i porci sotto controllo. Gli arti formicolavano da impazzire. Piedi, polpacci e cosce atrofizzati si rianimavano dolorosamente. Meglio quello che la morte, comunque.
Conficcandosi schegge nei palmi e nei polsi, le mani furono libere. Tolse la maschera. L’aria pura nei polmoni fu come una botta di coca. Si slegò anche le caviglie e si massaggiò. Era coperto del sangue della scrofa. Si alzò in piedi lentamente. Aveva paura di cadere e di spaventare ulteriormente i suini con movimenti bruschi. Scivolò dentro la porcilaia.
I maiali si affrettarono dentro, per guardarlo. Sempre a distanza. Merda, non lo mollavano un attimo. Salvatore cercò una tuta, un paio di calzoni appesi da qualche parte. Era nudo. Coperto di sangue e altra roba che gli coagulava addosso. I maiali lo fiutavano, calcolando forse il momento in cui assalirlo e farlo a pezzi. Salvatore, dentro la sua prigione suina, si era anche cacato addosso. Non poteva trattenersi a morte. Troppi aromi nuovi, per quei cotechini affamati. Sì, Salvatore temette che potessero essere stati appositamente messi a digiuno. Ma i suini non attaccano l’uomo, pensò accorgendosi che non c’erano abiti, lì dentro. Un forcone sì. Eppure, le bestie sembravano avercela proprio con lui.
Arrivò un’auto. E, dall’altra parte del porcile, all’esterno, qualcuno che forse dormiva al sole esclamò: «E mo chi cazzo è?».
Salvatore si infilò dentro una specie di conigliera, piena di piume, ragni, peli e merda vecchia.
L’auto arrivò sgommando sulla terra, e il guardiano cominciò a sparare, entrando nel porcile per ripararsi dietro la parete. I suini scapparono dalla parte opposta, nel loro laghetto di fango di fronte alla carcassa della madre. Salvatore seguì nascosto tutta la sparatoria con il cuore a mille. Le armi sembravano avere una dote infinita di proiettili.
Il guardiano fu il primo a scaricare la pistola. Erano in due, fuori, e fecero ingresso nel porcile a braccia tese crivellando la testa al nemico, che esplose come un melone marcio. I due ridevano mentre l’uomo cadeva piegandosi all’indietro. Salvatore li riconobbe, ma restò nascosto perché non si sa mai.
Schiena contro schiena, i due montarono in piedi sullo stomaco del morto ancora caldo e gli svuotarono i caricatori uno nel petto e l’altro nel pube, finché la gabbia toracica e gli strumenti sessuali divennero crateri fumanti coi cani delle pistole che martellavano a vuoto. Soddisfatti, gli scesero di dosso e uno dei due andò a raccattare una manciata di merda: la impastò nei buchi dove erano stati frollati cuore e genitali.
I due risero, poi si baciarono in bocca. Si abbracciarono, dopo aver gettato le pistole a terra, in una nuvoletta di polvere innocente.
Il cuore di Salvatore, durante la sparatoria, stava per scoppiare. A quella repentina scena d’amore, invece, gli si fermò del tutto. Salvatore decise di starsene zitto e nascosto a guardare da dietro la rete metallica dei conigli.
I nuovi arrivati si spogliarono. Nudi. Con quel cazzo di freddo. Uno, il più bello e scolpito dei due, chiamato non a caso il greco si mise carponi a gambe larghe sopra il cadavere, di modo che i pendagli sfiorassero la testa deflagrata del povero guardiano. L’amante, invece, si inginocchiò già eccitato per possedere contronatura quello pronto e caldo.
Muovendosi come un serpente, Salvatore quasi colò fuori della conigliera. Con la stessa lentezza di un miele liquido, mentre i due fottevano strillando e guaendo simili a cani, Salvatore, sempre nudo, scivolò al suolo fino al forcone. Lo afferrò per il manico e si alzò in piedi. Scattò con l’arnese agricolo puntato in avanti come un antico atleta di salto con l’asta. Quando i due maschi a incastro si accorsero di lui, i rebbi metallici avevano già trapassato il teschio di quello che penetrava l’altro. Una delle punte gli forò l’orecchio, una la trachea e la terza l’esofago. Come prima volta, risultò un colpo audace e irripetibile. Salvatore disincagliò subito il forcone dalla testa della vittima, per non restare disarmato.
Il prono sentì comunque schizzi caldi sulla schiena, alcuni color latte, alcuni scarlatti, e restava a bocca aperta guardando Salvatore nudo pezzato di sangue e di liquami putrefattivi con i segni della maschera antigas in faccia.
L’assassino sorrise, mentre il sodomizzatore caracollava a terra annaspando, singhiozzando e morendo, spruzzando fiotti di sangue dal collo come una fontana.
«Da quanto tempo durava la storia, eh? E, soprattutto, chi cazzo sei tu?» tuonò Salvatore puntando il forcone in faccia all’interrogato. «Se ti muovi, fai la fine di Girolamo».
«Chi cazzo sono io?».
I maiali, attratti dall’odore di sangue caldo, rientrarono.
Ora, nella porcilaia, quelli in piedi e quelli a quattro zampe erano rosa. Quelli un po’ rossi erano interessanti, per il goloso fiuto dei nasuti. Qualcuno sbavava già. Grufolando verso il cadavere dell’inforcato.
«Ti brucia più sapere chi sono io, non che hai ammazzato l’amore tuo» disse l’amante. «Girolamo mi parlava sempre di te,» aggiunse. «Non sei tosto. Sei scemo. Comunque, due anni, se proprio ci tieni.»
Salvatore urlò, poi si mise a piangere, crollando in ginocchio a terra.
Il sodomita si rialzò, iracondo. Era il suo Giorgio, quello che i suini stavano annusando con quei musi pieni di merda, non di quella checca. «La coca t’ha fottuto il cervello, Salvato’» disse l’uomo raccogliendo la pistola e guardando il tizio a terra frignare disperato. Dalla tasca dei pantaloni prese proiettili freschi e rinforzò il caricatore. Lo sfintere ancora provava amore, contraendosi e pulsando.
«Giorgio tuo non sapeva che i miei ti avessero messo nel sacco, stronzo. Ma ero disposto a liberarti. Eravamo venuti per farlo. Malgrado me. Pensa che cazzata stavo facendo».
Salvatore piangeva e gli usciva muco dal naso, faccia a terra a respirare e tossire polvere. «Ti prego, non mi ammazzare. Ve li ridò tutti, i soldi».
«Falla finita, coglione. E rimettiti la maschera, che torni dentro. Domani è Natale e i bambini, qui, muoiono di fame».
Paolo Di Orazio (Roma, 1966) pubblica racconti, romanzi e fumetti horror dal 1986. Pioniere dello splatterpunk italiano, ha tradotto Jack Ketchum, Richard Laymon, Ramsey Campbell e Lovecraft.
Una storia di Natale
Marco Valenti
La stanza era piccola, illuminata da una plafoniera al neon al centro del soffitto, senza finestre.
Per un momento si sentì soltanto il ronzio del termoconvettore, mentre le tre persone presenti si studiavano con gli sguardi dopo che la prima parte della discussione era finita.
La signora era seduta al centro della stanza, le mani in grembo e le punte delle dita che si accarezzavano con movimenti nervosi; l’uomo con i capelli brizzolati, dietro la spoglia scrivania di fronte alla donna, aspettava che questa parlasse; il ragazzo in divisa in piedi dietro la donna.
Il ragazzo guardava l’uomo con aria rassegnata; l’uomo incrociò il suo sguardo, giocherellò con una penna Bic, poi fissò la donna che aveva il capo chinato e infine l’oggetto.
L’oggetto era sulla scrivania insieme a una lampada da tavolo, una pila di cartelline e un foglio prestampato: su quest’ultimo alcune parti erano state riempite a penna pochi minuti prima, con la Bic.
Una parete dell’ambiente era arredata con classificatori di metallo. In un angolo un appendiabiti con il cappotto dell’uomo e quello della donna.
«Perché?» la voce dell’uomo era stanca. «Lei è incensurata, è una signora di poco più anziana di me, veste con sobrietà, non ha né un’aria eccentrica e nemmeno compulsiva. Non vive neanche in zona. Perché?».
Il ragazzo sbuffò e alzò gli occhi al cielo. L’uomo se ne accorse e gli chiese di uscire. L’avrebbe richiamato se ce ne fosse stato bisogno.
Uscendo manifestò il suo disappunto chiudendo la porta non senza rumore.
L’uomo fissò il volto della donna finché lei alzò la testa che teneva china e cominciò a parlare. Una voce bassa per tono e per volume, parole lente, di manifesti disagio e vergogna.
«Ho preso l’autobus per venire qui. Pensavo alla convenienza. Avevo letto degli sconti sul giornale. Vivo della pensione di reversibilità di mio marito. Devo aiutare anche mio figlio però. In mobilità o in cassa integrazione non ho mai capito bene. Sono quasi due anni. Poi c’è il bambino, mio nipote. Poi c’è il Natale. Poi c’è la lettera a Babbo Natale e non rientrarci mai. Fare i conti e non poterci rientrare mai. Ha cinque anni». E smise di parlare.
L’uomo disse che il suo figlio più piccolo, il secondo, aveva la stessa età.-«Una lettera precisa. E quel robot. Quello lì». La signora indicò la scrivania dell’uomo. L’oggetto.
«Lo ho visto e lo ho preso senza pensare. Ho sbagliato. Mi vergogno».
Scese un silenzio faticoso. L’uomo scribacchiava sui fogli poggiati sul tavolo.
«La lascio andare, signora. Ci sarebbe la denuncia per furto, lo sa?».
«Lo capisco. Grazie».
La aiutò a indossare il cappotto, le aprì la porta. La signora fece per girare a destra e rientrare nel supermercato. Il direttore, l’uomo, le disse che aveva fatto suonare abbastanza sirene per quel giorno e la accompagnò all’uscita dei dipendenti, a sinistra, in fondo al corridoio. Le porse la borsa che le aveva portato e la salutò.
Restò a guardarla mentre si allontanava a passi lenti. Pensò che si sarebbe girata. Non accadde. L’uomo rientrò nel supermercato che dirigeva ormai da cinque anni. L’età di suo figlio piccolo, l’età del nipote della signora che andava via a riprendere il suo autobus.
La signora seduta nell’autobus si asciugò le lacrime con un fazzoletto da uomo. Bianco. Ci si soffiò il naso. Aprì la borsa per metterlo via.
C’era il robot.
C’era un biglietto scritto con una Bic nera.
«A cinque anni si deve poter credere a Babbo Natale. Auguri».
Ricominciò a piangere.
Pensò che era sempre stata sentimentale.
Marco Valenti, Architetto e Blogger,vive e lavora a Roma
Una cena coi fiocchi
Daniele Poto
Da sempre avrebbe voluto che i foglietti del calendario filassero via strappati ed anonimi dal 23 dicembre al 6 gennaio. Saltando quattordici giorni di ipocrisie, di sciocchi convenevoli e di rituali scontati. Ma non quell’anno. Sarebbe stato un Natale memorabile. Approntato per bene. Avrebbe rotto la routine del Natale in solitaria. Nella vita tutto diventa routine. Salvo quando decidi di dargli un taglio. Risolvere i conti con sospeso. Gli ospiti di Nadia si presentarono insieme per la cena di Vigilia. Inconsuetamente puntuali per una città come Roma, alle 20.30. Nadia aveva perso il padre l’anno prima. Aveva fatto un volo dal quinto piano. E proprio quando non se l’aspettava nessuno. Aveva lasciato un biglietto alla Pavese: “Non fate pettegolezzi. Nadia tu sai perché”. Le aveva dato una grossa responsabilità quel messaggio ma non se ne era sottratta.
I suoi ospiti erano i colleghi di lavoro del padre. Camillo era il boss. Autorevole sessantaduenne di bell’aspetto, mai a disagio con nulla. Un uomo di mondo. Il secondo convenuto era Marco, 24 anni, il cocco del capo, ruffiano quanto basta, un millennial in carriera. Più dimesso Sergio, 57 anni, un signor sì senza illusioni, una moglie che ne combinava più di Carlo in Francia.
Tavola apparecchiata con eleganza. I tre avevano avuto più di un imbarazzo nell’accettare l’invito. Ma l’ipocrisia aveva avuto il sopravvento. Nadia non era uscita dal lutto e il padre aveva contato qualcosa in azienda. Del resto ai pranzi di lavoro erano abituati e una vigilia così sarebbe stata piacevolmente insolita. Le moglie avevano capito, anzi quella di Carlo non aveva potuto ben nascondere un ghigno di soddisfazione. Nadia non aveva risparmiato sul cibo. Ed era perfettamente in orario anche il catering. Alle 20.45 l’agenzia “Pensiamo a tutto noi” aveva spedito il proprio incaricato. Lo sconcerto doveva essere il tema dominante della serata e quel pony si presentò in tenuta da diavolo. Tutto nero e con in mano un forcone rosso destando un “Oh” di Sergio, un “Però” di Marco e un “Vivi complimenti” di Camillo. Nadia no, non era sorpresa, anche quello era messo in conto. Quello che era più incredibile del diavolo era l’abilità nel destreggiarsi con le vivande e nel posarle sul tavolo con una certa ammirevole grazia.
Debuttarono con un’insalata russa ma, proprio mentre la conversazione entrava nel vivo (e si parlava di lavoro, come ti sbagli), Camillo rischio di cadere dalla propria sedia napoleonica perché incredibilmente un pezzo di gamba cedette. E il boss dimostrò ancora una volta la propria indiscussa capacità di cavarsela in ogni situazione. «Nadia, ma questo è un attentato!», commentò con il sorriso sulle labbra ma un pizzico di sconcerto. Era proprio stata una buona idea accettare quell’invito? Ripresero ritmo e Nadia si conquistò la scena, disegnando piccoli cerchi concentrici di affabulazione. Fino, inevitabilmente, al momento del dolce, ad arrivare a parlare di suo padre. Parlava chiaramente a braccio ma sembrava che recitasse un copione. E difatti un po’ di teatro c’era senz’altro quando si avvicinò a un baule di memorabilia e con un gesto un po’ fatale ne estrasse il biglietto di congedo del padre, molto vissuto perché tutto spiegazzato. E chissà quante volte era stato ripreso in mano.
Si sedette, con un attimo di premeditazione si rialzò. Andò a frugare nell’intercapedine della porta dove era stato collocato un registratore. Premette il bottone del play. Gliel’aveva nascosto per bene, suo padre. Si può dire che la sua caccia al tesoro era stata un anno di ricerche: da Natale a Natale. Dal Natale del suicidio al Natale della fine del lutto in compagnia.
“Figlia mia. La vita è impossibile quando qualcuno te la rende impossibile. Ho resistito fino a questo punto per assicurarti un futuro. Ho scommesso troppo sul lavoro e poco sulla vita. E ora il primo mi ha reso insopportabile la seconda. C’è una mano invisibile che mi spinge, sappilo. Pensare che Marco possa diventare amministratore delegato in un’azienda a cui ho dedicato 35 anni di sacrifici è la scelta folle e insensata di Camillo e che Sergio, il mio migliore amico in fabbrica, trovi questo giusto e lodevole e non si ribelli, mi spinge a farla finita. Istigazione al suicidio, chiamala così. Suicidio d’autore firmato uno e trino. Io direi omicidio aziendale. Traine le conseguenze”. Nadia premette lo stop e osservò intensamente la faccia di Camillo. Ecco, quello era il suo regalo di Natale.
Daniele Poto, giornalista sportivo e scrittore, ha collaborato con Tuttosport e con diverse testate nazionali e con l’associazione Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Ha pubblicato, tra l’altro, Le mafie nel pallone. Storia dell’illegalità diffusa nel gioco più truccato del mondo (EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2010) e Azzardopoli 2.0. Quando il gioco si fa duro… le mafie iniziano a giocare (EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2010 2012).
Fine dalla corsa
Irena Dubrovna
Parcheggio il taxi in via Maiella e mi avvio verso piazza Sempione. Davanti alla chiesa, una scintilla mi annebbia la vista. Dura solo qualche secondo, nel momento in cui la vedo apparire, torna il buio. Gli anni non l’hanno cambiata, appesantita, forse, i capelli più corti, gli occhi annacquati da una vena di tristezza. Nella sostanza, però, è sempre la stessa.
Vittoria si tira su il bavero del cappotto e, claudicando, scende con attenzione un gradino alla volta. Il tacco della scarpa sinistra è più alto del destro ma, nonostante questo aggiustamento, le è impossibile non zoppicare. È una cosa che le ha sempre dato noia, per questo esce poco, per la vergogna. Si limita alla spesa al mercato, la messa, una partita a burraco con le amiche del circolo, qualche serata di beneficenza, magari un cinema o un teatro una volta ogni tanto. Per il resto, è consuetudine di balcone e cortile nei pomeriggi e sere d’estate. Sono mesi che la seguo. So bene che nel condominio dove abita e dove ho affittato un monolocale si usa così. Con la bella stagione, si accostano le sedie al muro, si prende il fresco. Quelli dei piani alti le lasciano lì, in cortile, chiuse e affastellate sotto i gradini della scala di appartenenza. L’inverno è diverso, non c’è mai nessuno dopo le diciotto. Antonio, il portiere, chiude portone e portoncino e si rifugia in casa.
Vittoria alza gli occhi e mi guarda. Per un momento penso di essere stato scoperto, invece no, guarda lontano. Passo una mano sulla barba con soddisfazione pensando che questa volta l’ho sistemata proprio bene, anche la scelta del colore che non stona con le sopracciglia. Il naso regge a dovere e quando lo tocco, per un momento, lo sento parte di me, come fosse mio. Vittoria prende per via Monte Tesoro. La seguo a distanza. So bene dove stava andando, non ho fretta. Come lama tagliente è scesa la sera e io non posso fare a meno di sorridere ripensando a quando ho fatto il filo al rasoio, in mezzo a tutte quelle foto appese, ai disegni. Un giorno mi avevano chiamato dall’Istituto pregandomi di andare a ritirare i miei effetti personali, tutto, le pagelle, i quaderni, le foto di classe. Era rimasto tutto lì nel fondo di un armadio in un’ala della scuola ormai chiusa da anni.
Vittoria è entrata come tutte le sere nel bar all’angolo, quello che resta sempre aperto, anche a Pasqua e a Ferragosto. La signora Oddi, la cassiera le allunga un sacchetto di plastica e il resto. È ingrassata, gli anni pesano sulle sue spalle, ha le scarpe sformate, le caviglie gonfie, mi sa che non se la passano tanto bene là dentro. Vittoria stringe la cintura del cappotto intorno alla vita e guadagna corso Sempione, poi gira a sinistra, in via Monte Altissimo. La salita le accorcia il fiato, la gamba sembra di gesso, tanto è rigida. La seguo a distanza, senza fatica. Mi sento bene. Soffio fuori il fiato e si fa condensa a contatto con l’aria fredda, e mentre lo faccio ripenso a tutte le volte che ho immaginato questo momento, davanti allo specchio nel bagno comune, con i gomiti a strusciare la formica del banco o mentre nella camerata scarabocchiavo i vetri appannati e guardavo fuori, nella notte.
Ecco il portone. La chiamo.
«Signora Sargentini, sono Carlo Diotallevi, si ricorda di me?».
Questo non l’avevo previsto, non riesco a fermare la lingua. Pensavo sarebbe stato tutto più facile, più veloce. Pregustavo il silenzio. Vittoria si volta e, mentre lo fa, porta le mani alla gola. È pallida, ma la pelle granulosa ricorda quella delle ali di pollo. Muove la bocca come per dire qualcosa che non riesco a sentire. Quando la gamba cede, si vede costretta ad attaccarsi alla chiglia del portone per non cadere. Il tacco della scarpa sinistra, quella più bassa, si è staccato. Eccolo lì, a pochi centimetri dalla scarpa, vicino al tombino. Leggo smarrimento negli occhi di Vittoria. E paura, tanta paura, al punto che non riesce neanche a urlare. Resta così, la bocca aperta, la lingua bianca, gli occhi bavosi che cercano i miei. Ho un attimo di esitazione, ma riprendo subito sicurezza e sferro il primo colpo.
La strada è deserta, illuminata solo dai lampioni e dall’intermittenza delle luci natalizie. Sferro il secondo colpo, ben assestato, alla vista di un babbo Natale che scala la facciata del palazzo davanti a me. Vittoria non emette lamenti, tanto che per un momento penso che se la sia portata via un attacco di cuore, arrivato proprio al momento giusto per rovinarmi la festa. E invece no, ha ancora quello sguardo freddo, quasi di rimprovero, nonostante le lacrime e il mascara colato sulle guance arrossate. Solo dopo inizia a fiottare, come a dire qualcosa, ma io taglio corto, e il terzo colpo è per la giugulare. Ho solo il tempo di passarmi la lingua sulle labbra, i baffi finti hanno cominciato a prudere, è ora di andare.
«Buon Natale, mamma», dico.
Resta lì, al riparo dei secchioni, riversa in un rigagnolo di acqua sporca. Mi allontano, senza neanche troppa premura.
L’antifurto del taxi rimanda un rumore sordo, in lontananza si sente ridere, magari intorno al tavolo verde di una partita a carte o a cena, tra una portata e l’altra. Io invece salgo in macchina e accendo la radio che oggi ho il turno di notte.
Irena Dubrovna (Trieste, 1962), archivista bibliotecaria, scrive per passione nei ritagli di tempo
Pera, Di Orazio, Valenti, Daniele Poto, Dubrovna
Illustrazione: il Krampus, da publicdomainreview.org