Questo articolo è apparso su Internazionale, che ringraziamo.
I bambini si rincorrono nel corridoio del primo piano del palazzo di vetro di via del Caravaggio, a Roma. È il compleanno di Lucas, compie otto anni. C’è un tavolino imbandito con pizzette e panini, Coca-Cola e una torta di pan di Spagna, panna e cioccolato. Dal soffitto dell’edificio, che era nato per ospitare degli uffici, pendono dei palloncini colorati e una scritta rossa sgargiante: “Lucas”. Anche se è Ferragosto il bambino ha potuto festeggiare il compleanno con gli altri ragazzi del palazzo, nessuno si è mosso da casa, nonostante il caldo e le vacanze scolastiche, perché si moltiplicano le voci di uno sgombero imminente nei due edifici gemelli del quartiere romano di Tor Marancia, in cui abitano circa 380 persone, tra cui settanta minori: una delle occupazioni abitative più grandi d’Italia.
Appena le chiedo dello sgombero, Elizabeth, una donna peruviana di cinquant’anni, scoppia a piangere: «Mio figlio piccolo mi chiede di continuo che succederà durante lo sgombero e io non so rispondere, i bambini sentono i discorsi degli adulti e si spaventano. Di notte non dorme, appena sente un rumore va a nascondersi sotto al tavolo». Mentre Elizabeth mi parla, seduta su una sedia, le luci colorate della festa le disegnano dei puntini sul viso.
Francesco, il figlio più piccolo della donna, corre insieme agli altri lungo il corridoio. «Faccio la baby sitter e mio marito l’aiuto pasticcere, siamo in Italia da 18 anni, da sei anni viviamo nell’occupazione di via del Caravaggio», racconta. «Guadagno 1.100 euro al mese, mio marito lavora in nero e guadagna pochissimo. Prima eravamo in affitto, ma spendevamo mille euro solo per la casa, senza le spese condominiali. Non ce la facevamo, per questo siamo venuti qui», racconta. «Se avessi dove andare, me ne sarei già andata, non vorrei mai che i miei figli assistessero a uno sgombero». Comincia a piangere e gli occhi piccoli e neri si chiudono in una smorfia di dolore, mentre confessa di non aver detto ai suoi datori di lavoro di vivere in una casa occupata. Il bambino che giocava si ferma insospettito dalle lacrime della madre e torna indietro per capire che sta succedendo. Allora la madre si ricompone e finge un sorriso.
«I miei due figli grandi, Geraldina e Antony, sono iscritti all’università: mia figlia studia scienze infermieristiche, mio figlio economia. Anche per questo i soldi non ci bastano mai, ma vogliamo che studino». Quando racconta dei figli iscritti all’università, Elizabeth si rasserena. «Geraldina mi ha fatto promettere che quando avranno finito di studiare smetteremo di vivere in un palazzo occupato e torneremo in affitto, perché nessuno di noi vuole vivere con la paura di essere sbattuto fuori di casa dalla polizia».
Una moratoria sugli sgomberi
Nell’androne dell’edificio c’è un via vai di persone, ci sono quelli delle altre occupazioni che passano a turno per dare una mano, ci sono i condomini del palazzo sotto sgombero che si trovano nel cortile per discutere. C’è la foto del bambino sgomberato da Primavalle con i libri in mano e la frase di Simone, il ragazzo di Torre Maura che ha contestato i neofascisti dicendo: “Nun me sta bene che no”. Ci sono dei poster che ritraggono lo scudo con la Medusa di Caravaggio, diventato il simbolo dell’occupazione e altri striscioni con gli slogan, ma anche le liste dei turni per le pulizie. Nell’occupazione è tutto autogestito: i bagni e i servizi come le lavatrici sono in comune, così è necessario stabilire dei turni per tutto.
«È come vivere in campeggio», spiega sorridendo Anna Sabatini, una pensionata romana di 76 anni, considerata una delle portavoce dell’occupazione. Sabatini dice di aver imparato soprattutto a vivere con persone di origini diverse. «Ci sono persone originarie del Nordafrica, latinoamericani, europei, italiani, ognuno fa la sua vita e ha la sua privacy, ma poi ci sono molte occasioni di incontro e di scambio», racconta. «Molte delle persone che sono venute a vivere in questa occupazione nel 2013 lo hanno fatto in seguito a uno sfratto, alcuni vivevano per strada, altri non riuscivano a pagarsi l’affitto perché magari avevano perso il lavoro».
A Roma esistono circa cento edifici occupati e diecimila persone vivono sotto sgombero. Il 1 settembre 2018 il ministro dell’interno Matteo Salvini ha pubblicato una circolare nella quale parlava della “necessità” di “attendere agli sgomberi con la dovuta tempestività, rinviando alla fase successiva ogni valutazione in merito alla tutela delle altre istanze”.
La nuova prefetta di Roma, Gerarda Pantalone, ex dirigente del dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale e regista della strategia dei “porti chiusi”, ha promesso la linea dura sulle occupazioni romane da quando è stata nominata nel suo nuovo ruolo, nel maggio 2019. Dopo che il 15 luglio è stata sgomberata la scuola occupata di via Cardinal Capranica, a Primavalle, il Caravaggio sembra essere il prossimo edificio sulla lista. Lo sgombero è previsto per la fine di agosto. «Viviamo con il terrore», confessa Sabatini. «La vita continua eppure noi viviamo nell’attesa di svegliarci e di trovare i blindati sotto casa».
I consiglieri regionali Alessandro Capriccioli di Più Europa, Paolo Ciani di Demos e Marta Bonafoni della lista civica Zingaretti hanno chiesto una moratoria, proponendo di sospendere questo tipo di operazioni mentre è in corso la crisi di governo. «Con la crisi di governo ormai aperta e dagli esiti imprevedibili, riteniamo necessario chiedere a gran voce una moratoria sugli sgomberi, previsti a partire dal mese di agosto nella città di Roma», è scritto nel comunicato. «Con un ministro dell’interno totalmente concentrato su altro, cioè su una partita ormai esplicitamente solo elettorale, sarebbe grave e da irresponsabili far procedere la macchina degli sgomberi che dipende, per la parte relativa all’ordine pubblico, da un Viminale di fatto senza guida. Alla preoccupazione per le decine di famiglie che si ritroverebbero senza una vera soluzione abitativa in pieno agosto, si aggiunge a questo punto l’allarme per la gestione delle operazioni di sgombero», hanno scritto i consiglieri. La regione Lazio guidata dal segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti e il comune guidato dai cinquestelle per ora non hanno proposto alternative agli abitanti di via del Caravaggio, ma è stato convocato un tavolo tecnico il 26 agosto, prima che arrivino i blindati.
«C’è stata una riunione abbastanza importante un paio di settimane fa con l’assessora ai servizi sociali del comune Laura Baldassarre», racconta Anna Sabatini. Il comune ha ventilato la possibilità di erogare un buono casa da cinquecento euro mensili per quattro anni alle famiglie in condizioni di fragilità. Questo buono, insieme al sostegno nella ricerca della casa, dovrebbe servire a sostenere le famiglie che non riescono a permettersi un affitto, ma da questa misura sono esclusi i single e le famiglie senza figli. I movimenti per la casa e gli occupanti di via del Caravaggio sono scettici, vorrebbero che si investisse di più in soluzioni di lungo corso come le case popolari.
«Gli amministratori hanno questo concetto che la fragilità è solo di quelli che hanno problemi molto gravi, ma anche io che sono in salute e sono single se fossi sbattuta per strada svilupperei delle fragilità», conclude Sabatini che percepisce una pensione minima di 540 euro al mese. La pensionata teme di finire nei centri di accoglienza a bassa soglia messi a disposizione dalla sala operativa sociale del comune di Roma, come le duecento persone sgomberate dall’occupazione di Primavalle lo scorso luglio. «Ho incontrato alcuni di quelli che sono finiti nei centri, erano disperati. Sono passati da una situazione di normalità a una specie di carcere. Devono rientrare entro le sei del pomeriggio, non possono cucinare, nemmeno scaldare un po’ di latte per i bambini. Questo tipo di approccio noi lo rifiutiamo: è assurdo mettere in un centro di accoglienza chi è senza casa», dice la pensionata.
Secondo il ricercatore e architetto Enrico Puccini, autore del libro Verso una politica della casa. Dall’emergenza abitativa romana ad un nuovo modello nazionale, il fabbisogno di case popolari a Roma sarebbe di 1.500 unità all’anno, mentre attualmente se ne assegnano solo cinquecento. Il risultato è che nelle occupazioni a Roma abitano tra le tremila e le cinquemila famiglie, 12mila persone sono in lista per la casa popolare, 1.200 persone abitano nei residence in attesa dell’assegnazione di una casa popolare. «I dati sugli sfratti a Roma segnano un rallentamento per un semplice motivo: chi doveva essere sfrattato da un alloggio privato lo è già stato. La crisi che avanza dal 2008 ha fatto le sue vittime nei ceti bassi e ora inizia ad aggredire il ceto medio. Anche le famiglie che vivono in occupazione sono, più o meno, le stesse dal 2013, dallo Tsunami tour dei Movimenti per la casa che ha raddoppiato il numero delle occupazioni a Roma. Da allora non ve ne sono state altre. Quindi da anni discutiamo di circa duemila nuclei in una città che ospita 39 milioni di presenze turistiche all’anno», commenta Puccini.
Una lezione su Malcolm X
Rispetto ad altre occupazioni il Caravaggio è quella che si è aperta di più all’esterno con dei risultati inaspettati per gli stessi abitanti. «I genitori dei bambini che frequentano la scuola media Settimia Spizzichino hanno fatto una petizione per chiedere di fermare lo sgombero, i genitori dei bambini che frequentano la polisportiva Castello hanno fatto un’altra petizione, sono venuti i parroci dentro l’occupazione a portare solidarietà, non era mai successo», racconta Cristiano Armati del Coordinamento cittadino di lotta per la casa.
«Ogni sera viene qualcuno da qualche parte della città a chiedere se serve qualcosa e in che possiamo essere aiutati», continua. Nonostante questa solidarietà da parte dei cittadini, «non ci sono per ora soluzioni di lungo periodo», spiega Armati. Il 16 agosto il professore di letteratura americana Alessandro Portelli è andato nell’occupazione insieme all’assessore alla cultura del terzo municipio Christian Raimo per tenere una lezione su Malcolm X. Portelli ha parlato per due ore davanti a una platea di duecento persone, tra cui molti abitanti dell’occupazione, ma anche romani venuti da altri quartieri per partecipare alla lezione.
Alessandro Portelli
Prima di raccontare la storia del leader afroamericano, Portelli, che è anche un esperto di storia orale, ha fatto un giro per l’occupazione e ha intervistato molti degli abitanti dell’edificio. «Le parole della lotta per la casa a Roma sono sempre le stesse», ha detto Portelli durante la lezione. «Il mio impegno politico è cominciato con l’occupazione del Celio del 1969 e poi con tutta la vicenda dei borghetti, delle baracche, che a Roma erano una cosa terrificante. Oggi un signore marocchino del Caravaggio mi ha detto, io guadagno 700 euro al mese, se pago l’affitto non ce la faccio a mangiare. Bene, esattamente queste identiche parole, se pago l’affitto non ce la faccio a mangiare, me le ricordo dette da un operaio edile del borghetto Prenestino nel 1969. Questa sensazione che stiamo sbattendo la testa contro lo stesso muro da cinquant’anni non genera frustrazione, genera una gran rabbia», ha concluso Portelli.
Le foto che corredano l’articolo sono di Davide Marzattinocci