di Nicola Ruganti
La Scuola di Politica Popolare “Il Terzo Incomodo”di Grande come una città, anche in questo periodo di emergenza, vuole continuare a fotografare e indagare il nostro presente. L’obiettivo è fornire strumenti per comprenderlo, pensare modi per cambiarlo.
Inauguriamo in questi giorni un nuovo modulo didattico Come (ri)costruire il discorso pubblico con un primo incontro: Il discorso sulla città ai tempi del Coronavirus.
Se ne discuterà con Giovanni Caudo, Carlo Cellamare, Francesca Nava, Nicola Ruganti, e Gaia Squarci alle ore 18,30 di domenica 7 febbraio, in diretta sulla pagina Facebook di Grande come una città e Lab-TV.
Perché concentrare il ragionamento sul discorso pubblico?
Perché il discorso pubblico è una delle principali spie della temperatura del sistema sociale, messo a dura prova dal Coronavirus. Tutti possono condividere questa affermazione. Più difficile è riconoscere e spiegare cosa è stato messo a dura prova: le nostre sicurezze? la democrazia? l’etica della responsabilità? la salute?
L’opinione pubblica su questo è spaccata e il dibattito politico e intellettuale troppo spesso incline a volere sconti su tutto. Gli sconti consistono nell’indulgere nelle analisi dei sintomi senza indagare le cause.
L’obiettivo di questa proposta è analizzare i fatti concentrandoci sui motivi che originano gli eventi.
La scelta è quella di proporre lezioni con figure che nel loro lavoro, interrogando la storia o leggendo la cronaca quotidiana, scelgono di ricercare un discorso pubblico che nasca da una indagine profonda sulle ragioni delle cose.
Come materiale di approfondimento e discussione, pubblichiamo una riflessione di Nicola Ruganti
Il discorso pubblico ai tempi del Coronavirus. Sei tesi per una nuova responsabilità degli intellettuali
Il 20 dicembre del 2020 a Taiwan nella città di Taoyuan una fabbrica della casa farmaceutica SCI Pharmatech, che produceva idrossiclorochina, è stata oggetto di un incendio importante.
La notizia è iniziata a circolare soprattutto in questa forma: “Ma guarda la combinazione: proprio quando partono i vaccini prende fuoco il maggior impianto di produzione di idrossiclorochina” (fonti: Diego Fusaro, liberopensare.com, mag24.es e altri). Sono numerosi i gruppi che diffondono con ogni mezzo la notizia del complotto delle grandi multinazionali farmaceutiche. La sintesi del discorso è: i vaccini sono nocivi, un farmaco esistente, ma con poco credito e ridottissima evidenza scientifica, è invece la panacea.
I riflettori dei media sull’idrossiclorochina sono stati accesi a maggio del 2020 quando Donald Trump, allora Presidente degli Stati Uniti, aveva dichiarato di usare in modo preventivo questo farmaco e come motivazione della scelta aveva detto: “Ricevo un sacco di telefonate in cui me ne parlano bene, ecco la mia prova”.
L’idrossiclorochina è sconsigliata dai protocolli di cura del Coronavirus, e la somministrazione è sotto precisa responsabilità del medico che la prescrive; inoltre ha possibili effetti collaterali come aritmie cardiache e interazioni negative con altri farmaci.
Un’analisi così scoraggiante dell’efficacia del farmaco non chiude la questione, ma anzi, per i complottisti, diventa materiale per dimostrare l’esatto contrario: assumere idrossiclorochina merita.
È così che il discorso pubblico, in questo caso sulla cura del Coronavirus, si riempie di notizie false e gravemente fuorvianti.
Quali sono le notizie che fanno un cattivo servizio al senso di realtà? Sono quelle che si riferiscono a un fatto reale, ma lo narrano in modo parziale e sono quelle che sono costruite per occultare l’approfondimento che, invece, servirebbe per farsi un’idea a partire dai fatti.
La notizia completa avrebbe infatti dovuto comprendere anche quello che ha detto il vicepresidente della casa farmaceutica Michele Seah che ha dichiarato che quella fabbrica non produceva più idrossiclorochina da agosto 2020 (incendio dicembre 2020) e che il farmaco, soltanto uno dei trenta prodotti prodotti dalla casa farmaceutica SCI Pharmatech, sarebbe stato prodotto in quantitativi minori a causa della minore domanda.
Cosa attecchisce di più nell’opinione pubblica? Il lavoro della scienza, che in mezzo a mille intoppi, protocolli, ricerca di finanziamenti, cerca una cura efficace ma narrativamente è poco avvincente perché fatto di schiena curva sulle provette, oppure l’avventurismo vacuo del complotto?
Il dietrologo rifugge la complessità, ha pochi elementi narrativi da ricordare, non vuole impegnarsi per capire un fatto e, infine, sceglie immancabilmente la storia che lo consola di più: grandi entità esterne che decidono per lui, che poi sbagliano e infine possono essere accusate.
Il dietrologo non sente davvero la paura, se la nega, altrimenti potrebbe provare a sentire la responsabilità di capire e approfondire, mentre gli sfoghi contro il sistema non sono altro che esorcizzazioni scaramantiche fatte al riparo da rischi veri.
L’incendio della fabbrica a Taiwan è esemplare per riflettere sull’impegno – che dovrebbe essere della politica, degli intellettuali, e di coloro che sono interessati a un discorso pubblico ancorato alla realtà – che serve per opporsi duramente a questa tendenza.
È necessario contestare la pulsione, ben radicata in una larga parte dell’opinione pubblica, che spinge le persone a pensare che se si incendia una fabbrica a Taiwan allora è sicuro che l’idrossiclorochina funziona, la mafia farmaceutica è responsabile dell’incendio, i vaccini sono un male.
Una parte significativa dei media – mainstream e non, di destra, ma anche di sinistra – tende a orientare il discorso pubblico italiano verso una minimizzazione: l’insurrezione dei trumpiani a Capitol Hill, la politica negazionista, maschilista e razzista di Donald Trump sono tutti elementi da osservare, commentare, ma che non incidono davvero e in profondità nell’opinione pubblica del paese.
Non è così. In queste settimane sono arrivate lettere anonime a laboratori scientifici del nostro paese che intimano a chi lavora senza sosta da mesi nella lotta contro il Coronavirus di farla finita, di smetterla. In quelle lettere l’incendio della fabbrica a Taiwan è la prova provata di tutti i desideri complottisti: l’idrossiclorochina funziona e i vaccini sono lo strumento della dittatura sanitaria.
Ci sono giornalisti, scienziati e divulgatori impegnati a smontare queste notizie e a dare un contributo significativo affinché l’orientamento dell’opinione pubblica sia basato sui fatti, ma non può bastare.
È necessario che il discorso pubblico sia continuamente presidiato da un forte e concreto lavoro intellettuale, soprattutto nella situazione attuale in cui la vita delle persone ha subito forti cambiamenti, che ricostruisca non solo le notizie, ma anche un modo di pensare non impaurito dalla complessità.
Il dovere dell’intellettuale è quello di capire ciò che è complesso – senza fare della notizia del giorno un feticcio – e rendendolo comprensibile, mai approssimativo.
L’avvento della pandemia ha mutato il discorso pubblico su salute, cura, istruzione, giustizia, arte, economia, pianificazione del territorio.
Il rischio è che, per non risultare antipatici, gli intellettuali scelgano, più o meno consapevolmente, la strada di riflessioni consolatorie che non si prendono la responsabilità della realtà dei fatti.
Questo è possibile perché c’è un circolo vizioso che viene attivato dall’approssimazione e dall’omissione: c’è una sfavorevole posizione negoziale degli stati nazionali nei confronti delle multinazionali dell’industria farmaceutica? Indubbiamente sì. Questo diventa l’occasione per screditare la vaccinazione? Sì e non dovrebbe succedere. Il numero dei morti per Coronavirus è impressionante e doloroso da vedere? Sì. C’è stato un governo al mondo che era davvero preparato? No, nessuno.
I vaccini stanno arrivando, ma lo Stato italiano ha messo in agenda anche gli anticorpi monoclonali che sono una cura e non un vaccino? Sì. Perché gli anticorpi? Perché sono la terapia che dava più speranza di riuscita, per i mezzi, i tempi, ed il razionale clinico che c’è dietro: sono molecole che il nostro corpo riconosce come accettabili in quanto prodotti da un organismo umano al fine di neutralizzare il virus.
Il recente ingresso nel discorso pubblico sul Coronavirus delle varianti del virus può essere trattato come un rimosso, possiamo spazzare questa notizia sotto il tappeto come quando si vuole nascondere la polvere? No. Se le varianti arrivano e ci saranno delle varianti che “scappano” bisogna investire nell’aggiornamento dell’armamentario che abbiamo di vaccini e anticorpi.
Perché, visto che le notizie ci sono, sono pubbliche, non si spiegano le cose chiaramente?
Qual è il retropensiero di una parte dell’intellettualità italiana: meglio dire i fatti con il contagocce? Oppure proprio non vengono correlate le notizie a disposizione e quindi neppure ne viene fatta una sintesi?
Da diverse parti del mondo sono arrivati segnali di senso opposto a questa deriva non solo italiana sono stati infatti numerosi i movimenti – di persone e di pensiero – che, in questi ultimi anni, hanno riorientato, o addirittura rivoluzionato, il discorso pubblico in una direzione fatta di libertà e eguaglianza per tutte le persone.
Greta Thunberg con il suo “Skolstrejk” e il Friday for Future per la giustizia climatica e ambientale; le proteste cilene di fine 2019 in opposizione al governo liberista del presidente Sebastián Piñera; le mobilitazioni femministe spagnole in particolare del 2018-2019 e il successo e la crescente rilevanza di Non una di meno in Italia; le proteste a Cairo contro il colpo di stato dei militari che nel 2013 uccisero oltre 600 persone che sostenevano il Presidente Morsi e inaugurarono in Egitto il regime di Al Sisi attuale responsabile della morte di Giulio Regeni e della detenzione di Patrick Zaki; le manifestazioni contro la limitazione, da parte del governo cinese, dell’autonomia e della democrazia di Hong Kong, il leader delle proteste Joshua Wong è oggi in carcere arrestato per sovversione; la popolazione del Sudan in piazza nel 2019 prima per la rimozione di Bashir, al potere da trent’anni, poi per rifiutare un governo militare ed avere un governo civile; in Italia il movimento della Sardine che nel dilagare della destra a guida Salvini è stato decisivo nelle elezioni regionali in Emilia Romagna; In Iraq nell’autunno del 2019 le proteste contro il carovita e la disoccupazione; negli Stati Uniti, e poi in tutto il mondo da maggio 2020 in poi, le proteste per la morte di George Floyd ucciso da un poliziotto bianco, il movimento che si afferma è il Black Lives Matter (fondato nel 2013) che si oppone alla “violenza e al razzismo sistematico contro i neri”.
Queste proteste, insieme a molte altre in Algeria, Zimbabwe, India, Libano, Australia, Iran, India, non hanno solo dato vita a movimenti di piazza e di popolo, ma hanno anche imposto un cambio di agenda alla politica, agli oligarchi, alle massonerie di potere. Hanno rivoluzionato il discorso pubblico, hanno avuto la forza di far emergere un lessico diverso, parole chiare. Hanno forzato per lo stravolgimento della percezione acquisita, da parte della maggioranza della popolazione, dello stato mummificato delle cose. Hanno lottato contro il vento a favore di pochi privilegiati che beneficiano di un diffuso clima da “ognun per sé…e sempre meno democrazia per tutti”.
Oggi con la pandemia l’asticella della responsabilità degli intellettuali sul discorso pubblico è più alta ancora. Sì perché con il virus è più difficile combinare il coraggio della protesta, la freschezza di una storia diversa da raccontare ed infine le parole che invece di consolare dicono la verità.
I complottisti, il dietrologi, i negazionisti non sono fenomeni da baraccone da intervistare davanti al pubblico del circo dei media. Succede perché fa comodo, alle visualizzazioni e ai dati sull’ascolto, polarizzare le differenze, rendere credibile ciò che non lo è; fa comodo dire che il dibattito che si mette in scena ha una sua dignità.
La storia è fatta con i libri, i documenti originali, gli archivi desecretati, le testimonianze. Nonostante questo abbiamo assistito e assistiamo alla negazione dell’Olocausto. Valentina Pisanty in L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo (Bompiani 1998) all’interno dell’appendice Il negazionismo in azione (appendice edizione ampliata 2014) scrive: “I negazionisti si infilano in queste diatribe per farsi largo nel sistema dei media. Le condanne e i veti incrociati preparano il terreno per la raffica di sortite con cui Faurisson (Robert Faurisson negazionista che ha teorizzato, tra altre tesi, che l’esistenza delle camere a gas nei campi di sterminio tedeschi sarebbe stata tecnicamente impossibile ndr) conquista il ruolo di provocatore assoluto, in grado di accentrare l’indignazione, i timori e i risentimenti sollevati dalle polemiche dei giorni precedenti. Indicizzate sotto la categoria oramai familiare di “controversie sull’Olocausto”, le tesi negazioniste trovano spazio nei palinsesti giornalistici, sempre in nome del discutibile principio per cui la cura delle patologie passa attraverso la loro esibizione. Ma, lungi dal debellarlo, la messa in mostra del fenomeno (e delle inevitabili proteste che solleva) lo potenzia, inglobandolo in un sistema retorico più ampio che gli conferisce una paradossale legittimità proprio nell’atto di esorcizzarlo. Il negazionismo si alimenta dell’indignazione che provoca, specie quando questa si carica dei toni ufficiali della censura. Persino le denunce più vibranti, come quella dei trentaquattro storici francesi pubblicata su Le Monde del 21 febbraio 1979, ottengono l’effetto indesiderato di spostare il fuoco della polemica sul problema della libertà di parola. «Non c’è, non ci può essere alcuna discussione sull’esistenza delle camere a gas»: la formulazione infelice confonde un più che legittimo rifiuto storiografico ad ammettere i negazionisti nella cerchia dei possibili interlocutori (inutile discutere con i ciarlatani) con un opinabile divieto morale (nessuno si azzardi a dubitare dello sterminio) che innesca ulteriori controversie e ulteriori cicli di rivendicazioni. Si levano nuove voci, stuzzicate dalla scabrosità del dilemma: è giusto mettere il bavaglio ai farabutti? È più intollerabile che qualcuno neghi le camere a gas o che qualcun altro gli impedisca di farlo?”
Mentre è in corso questa faticosa lotta per la verità si assottiglia il numero dei superstiti, dei sopravvissuti, dei veri testimoni inconvincibili di non aver vissuto quel che hanno vissuto. Non possiamo essere ingenui, siamo nella cronaca di un devastante pandemia, siamo a dover dimostrare tutto da cima a fondo e sappiamo che anche non c’è pace per i morti e che la memoria va protetta e le testimonianze raccontate. Questo vale per l’Olocausto, ma anche, ricorda sempre Valentina Pisanty, per altre storie di massacri: “Il genocidio armeno (1915-16), i massacri di Nanchino (1937) e l’eccidio di Katyn ́ (1941) sono stati insabbiati lì per lì e poi negati in modo sistematico e protratto. Il caso più discusso, perlomeno in Occidente, è il negazionismo del genocidio armeno a cui è tenacemente ancorata l’identità nazionale turca.”
La responsabilità di questi tempi è quella di raccontare la verità e non ammansirla, anche perché sarebbe solo una pia illusione. Il discorso pubblico ha la necessità di essere orientato in questa direzione e l’impegno è gravoso: il numero delle persone disposte a dire la verità diminuisce ed invece si ingrossano le file di chi cede alla lusinga del semplificazionismo, delle strizzatine d’occhio a storie parziali, della scienza solo quando fa comodo. Il dolore viene raccontato a botte di drammatizzazione querula e sopra le righe e l’eccentrica danza sull’abisso dei negazionisti viene vista da troppi con colpevole condiscendenza e imperdonabile simpatia.
Sventurato il negazionismo, che ha bisogno di eroi
Se un ragazzo dicesse che sta protestando perché c’è il Coronavirus nel mondo, perché la pandemia ha cambiato la sua vita, perché avrebbe voluto vivere a volto scoperto e non mascherato, perché c’è una dittatura sanitaria in atto e – per questo – si suicidasse dandosi fuoco… Che opinione ci faremmo?
La scelta è tra definirlo un novello Jan Palach oppure una vittima della rabbia e del senso dilagante di impotenza. Il discorso pubblico ha necessità di essere animato da intellettuali che prendono la parola e si fanno carico di condannare l’idealizzazione del martirio e del terrorismo.
È il tempo di andare a colloquio con la verità e raccontare le cose come sono; di provare a indicare una via per il cambiamento; di pronunciare discorsi che prendano per mano le persone indicando la libertà di vivere il presente per com’è; di condannare gli adulatori del suicidio; di isolare certi pensatori narcisisti che esorcizzano la propria paura di morire con la mistificazione della morte degli altri.
Jan Palach fu un ventunenne studente di filosofia che il 16 gennaio del 1969 si dette fuoco nella piazza centrale di Praga. Volle così denunciare la repressione della “Primavera di Praga” avvenuta nell’agosto del 1968. A chiudere quella stagione di riforme di democratizzazione avviata dal Primo ministro Dubček, poi arrestato e portato a Mosca, furono l’Unione Sovietica e le truppe del Patto di Varsavia. In seguito a questo gesto di rilevanza mondiale altri sette studenti, in quella che fu la Cecoslovacchia, emularono il gesto di Palach.
Nicola Chiaromonte venne intervistato su “La Stampa” il 7 febbraio del 1970 a proposito di questi “Suicidi col fuoco”, cioè degli epigoni che, in altre nazioni, dettero seguito a quel gesto. Il giornalista gli sottopose alcuni articoli usciti in Francia che descrivevano i tragici episodi: “Una tal sete di assoluto, una tale sensibilità al male collettivo del secolo”; “Volontà di scuotere la tranquillità degli spiriti, questo bisogno assoluto di una causa che vi trascini aldilà di voi stessi”.
Chiaromonte rispose: “Sì, l’ho letto, e la prima cosa che direi è che il giornalista il quale si è lasciato andare a un così fervoroso lamento va annoverato fra i responsabili dei suicidi di quei giovani. […] Uno di quegli adulti incapaci di far altro che dar ragione ai giovani, qualunque cosa facciano. Incapace di parlar loro da uomo a uomo, di ragionare, di non aggiungere confusione a confusione”.
Oggi non è all’ordine del giorno il suicidio di protesta contro il Coronavirus, non ancora, ma emerge una reazione di una parte della popolazione, intellettuali compresi, che tende a sfuggire la responsabilità di vedere lo scenario nella sua interezza.
La questione è scegliere di non alimentare una “vulgata fai da te” sul Coronavirus – ognuno con la sua storia di comodo – come spesso accade quando la sovrabbondanza di notizie impone un duro lavoro sulle fonti e la composizione di una ricostruzione complessa e ostica della realtà.
Chiaromonte ha collaborato nel 1926 al settimanale protestante “Conscientia” di Giuseppe Gangale, e con “Il Mondo” di Amendola, nel 1932 ha scritto sulla rivista “Quaderni di Giustizia e Libertà” diretta da Carlo Rosselli. Prima di fuggire a New York ha combattuto in Spagna nelle file dei repubblicani. Negli Stati Uniti ha collaborato con Dwight Macdonald, Hannah Arendt, Gaetano Salvemini. Una volta rientrato in Italia ha fondato nel 1956 con Ignazio Silone la rivista “Tempo presente”. Non era un reazionario, ha scelto il progresso l’antifascismo come lotta contro la soppressione della libertà. Ha visto nel Sessantotto una “rivolta conformista” nella quale “i giovani ribelli sono vittime inermi dell’organizzazione economica”. Le rivolte di piazza e le reazioni alla pandemia non hanno il carattere sessantottino di una ribellione che prende l’avvio in un sostanziale clima di crescita economica, ma portano con sé la storia di un aumento della vulnerabilità sociale per una fascia enorme di popolazione.
Il dibattito pubblico, oggi, sembra tendere alla polarizzazione: eversione o governo inefficace?
Perché dovremmo imboccare una di queste due strade? Ci sono alternative? C’è una società civile che articola un fronte di difesa e promozione dei valori della democrazia? È il momento per le donne e gli uomini di cultura – se non sono rimasti imbambolati a guardare l’apocalisse allo specchio – di alimentare una nuova leva di intellettuali e una nuova classe dirigente. Ed è il momento di farlo con il principio della lealtà alla Costituzione.
Per l’uguaglianza dei diritti e dei doveri. E quindi contro la miseria
La miseria è il drammatico seguito che vuole lasciarci la pandemia ed è frutto, innanzi tutto, della disuguaglianza. Per l’uguaglianza dei diritti e dei doveri la Costituzione italiana, all’articolo 3, recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È doveroso, allora, osservare lo stato attuale delle cose e gli interventi che l’Europa ha messo in campo per contrastare la crisi economica globale. Bisogna ragionare sul mondo che sta venendo e su sostegni finanziari che possono cambiare il volto del Paese. Siamo in grado di spendere questi aiuti? E come? Il Forum Disuguaglianze Diversità e la Rete dei Numeri Pari lavorano insieme da mesi per realizzare un’indagine sulle pratiche di mutualismo sociale. Hanno diffuso un comunicato, contestualmente alle proteste di piazza, in cui scrivono: “Manca una riforma della sanità territoriale che metta in condizioni i nostri medici di base di lavorare meglio; mancano le assunzioni per decine di migliaia di medici e infermieri necessarie per far funzionare al meglio il nostro Sistema Sanitario Nazionale, depotenziato da 36,7 miliardi di tagli fatti in un decennio, con la responsabilità di tutte le forze politiche che si sono alternate al Governo; mancano decine di migliaia di automezzi per il trasporto pubblico mentre invece si è continuato a parlare di grandi e inutili opere che non servono a garantire il lavoro, la salute dei cittadini e sostenibilità ecologica; manca una riforma del welfare che garantisca servizi accessibili e di qualità; manca una misura di sostegno al reddito che rispetti quanto indicato all’interno dei Social Pillar europei; mancano scuole adeguate e interventi nel sistema scolastico che mettano in condizione famiglie e corpo docenti di garantire a tutti e tutte il diritto allo studio; mancano politiche industriali in grado di ripensare l’obsolescenza delle nostre attività produttive e che garantiscano lavoro di qualità e il diritto alla salute per le comunità”.
Chiedono al governo di non derogare su niente nel contenimento del virus, e al contempo di agire rispondendo su queste questioni che sono le cause di un Paese in ginocchio.
Lo strumento che abbiamo a disposizione per evitare il dissesto è il Fondo per la ripresa di 750 miliardi stanziato dall’Unione Europea per i 27 paesi membri. La “quota” italiana è di circa 209 miliardi ripartiti in 81,4 miliardi in sussidi e 127,4 miliardi in prestiti.
Il Next Generation Eu, chiamato dai media Recovery fund, è un nuovo Piano Marshall, che a suo tempo servì a far rialzare l’Europa del dopoguerra affinché potesse garantire la domanda commerciale al sistema economico statunitense: oggi non si tratta di ricostruire qualcosa di materiale che è stato bombardato e distrutto, si tratta di investimenti su un cambio radicale dei comportamenti nel commercio e sul piano economico generale.
Nel 2008 lo shock economico è stato asimmetrico in quanto Stati Uniti ed Europa sono stati duramente colpiti, ma si sono determinate compensazioni al sistema dei mercati dettate dalla crescita di altre aree del pianeta (India, Cina etc…). Oggi quale scenario è plausibile con uno shock simmetrico – cioè planetario, equivalente a una guerra mondiale – che non ha compensazioni possibili?
È necessario che si ponga la questione di come si accede al credito e con quali costi; è di enorme importanza che il dibattito pubblico sia orientato, anche dagli intellettuali, a far capire come sarà davvero il futuro fra cinque anni e come farsi trovare pronti al mercato del lavoro che verrà.
Ci sono lavori che oggi non esistono e che esisteranno in futuro. La politica deve indirizzare il nuovo scenario. Che cosa verrà finanziato? Che cosa si deciderà di incentivare?
Il Consiglio Europeo del 21 luglio 2020 con il Fondo europeo per la ripresa ha contribuito alla battuta d’arresto del consenso della destra italiana che si è trovata temporaneamente spiazzata da una delibera che offre una risposta economica efficace e comprensibile ai cittadini.
I 750 miliardi da distribuire nei paesi membri non sono disponibili da subito, il Next Generation Eu sarà operativo dal 2021 al 2024: ogni stato deve convertire il piano in legge.
L’autunno 2020 con la drammatica recrudescenza della pandemia e i soldi non ancora disponibili è una stagione purtroppo propizia per rivolte eversive. Che tipo di libertà è quella evocata da più parti? È la lotta per la libertà di ammalarsi e di contagiare? Quanto vogliamo essere tiepidi davanti a questi rischi? Davanti a questa utopia rovesciata?
Né rabbiosi, né camaleonti
A marzo il personale sanitario nel suo complesso era celebrato e il Paese si stringeva intorno a loro, oggi i medici e gli infermieri vengono minacciati ed esposti alla gogna perché ritenuti coinvolti in un complotto per la diffusione del Coronavirus.
Cosa c’entrano le insufficienze di un Sistema Sanitario con la negazione del virus? È un dovere intervenire nel dibattito e analizzare distintamente le questioni: il Sistema Sanitario Nazionale deve essere oggetto di investimenti e non di tagli; contestualmente la negazione del virus deve essere trattata per l’infamità che è, senza aver paura di usare dati scientifici e di sbugiardare tecnici in cerca di protagonismo.
Non dobbiamo abbandonare l’antico insegnamento della maestra: “Non sommare le pere con le mele!”. Le scelte di politica sanitaria degli ultimi decenni vanno criticate e va invertita la rotta rafforzando la natura pubblica del sistema: e queste sono le pere.
Il virus è un dato oggettivo dimostrabile, così come la pandemia, ed è un obbligo morale dare spazio alla confutazione attraverso dati e fatti: e queste sono le mele.
Quando arriva il morso della crisi e sale la disperazione è difficile chiedere di ragionare, ma proprio per questo chi ha responsabilità nelle realtà organizzate deve sapere cosa sta avallando se apre a posizioni tiepide di fronte ad alcune manifestazioni che hanno un tenore smaccatamente sovversivo.
Sono molti anni che è in atto un lavoro di delegittimazione della democrazia parlamentare. Il principale partito dell’attuale Parlamento ne teorizza la fine: non tanto con il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, quanto con argomentazioni orientate alla squalificazione della rappresentanza costituzionalmente intesa.
C’è forse qualche dubbio sul fatto che la centralità del Parlamento è una garanzia della nostra libertà? I documenti delle Commissioni parlamentari sono materiale di prim’ordine; le audizioni, il lavoro di istruttoria delle leggi alla Camera e al Senato sono un pezzo della storia d’Italia e la fotografia delle trasformazioni in atto. Merita dunque opporsi ad una retorica che vuole marginalizzare il Parlamento.
Per questo l’intellettuale non è destinato alla rabbia e neppure a camaleontici e untuosi trasformismi, ma alla scelta di un discorso che stia nel dibattito pubblico grazie alla nitidezza e alla capacità di orientare sul lungo periodo.
La storia dell’Omino di burro e del dolore di Pinocchio prosegue anche senza Trump
Essere analitici, avere un metodo che misuri l’efficacia delle azioni che mettiamo in atto è una priorità assoluta: la strategia di chi vuole negare la realtà dei fatti è prendere un pezzo staccato dalla visione d’insieme e intorno a quel tassello costruire una falsa verità.
“Sta gelando e nevica a New York: abbiamo bisogno del riscaldamento globale!”. Scaldarsi al fuoco dei tweet di Donald Trump non è stato così difficile per una gran parte di persone che hanno trovato rifugio nelle sue bugie.
Con il virus Trump ha proseguito sulla stessa via, perché è il megafono di un approccio alle cose del mondo, non ne è l’autore: “Inoltre vedo che il disinfettante uccide il virus in un minuto. Un minuto. C’è un modo per fare qualcosa del genere all’interno dei pazienti, con un’iniezione o una specie di pulizia?”.
È evidente che il modo di costruire il discorso negazionista e il consenso intorno ad esso è il medesimo per il cambiamento climatico e per il Coronavirus.
Greta Thunberg ha iniziato a cambiare le carte in tavola: “Se i politici non ascoltano gli scienziati, perché mai dovrei studiare?”. Il suo discorso dice, credibilmente, che per lei lo studio è un valore e il rinunciarci non è scontato, dice che la comunità scientifica internazionale va ascoltata e infine dice la cosa più importante: chi decide è la politica. La delega ai politici non è una formalità, i rappresentanti del popolo in parlamento si impegnano in base a dei programmi elettorali. Il cittadino ha il diritto di avere aspettative per le promesse ricevute e il diritto di verificarne l’attuazione.
In Italia dopo Greta Thunberg sono venute le Sardine – una reazione alle piazze della destra – che hanno applicato in forme diverse lo stesso principio, hanno inciso e hanno fatto girare aria fresca nel dibattito e nello spazio pubblico (allargando il perimetro della partecipazione oltre il confine delle realtà organizzate a sinistra, che non hanno mai smesso di esserci). Dopo le Sardine è arrivato il virus e il quadro, che già era in movimento, si è proprio staccato dal chiodo.
Quello che Trump ha rappresentato non potrà, né dovrà, essere dimenticato o sottovalutato: per contrastare gli effetti nefasti delle sue decisioni, e anche per comprendere meglio quella parte di popolazione che ragiona, ancora e comunque, nello stesso modo.
Ad Aprile del 2020 Trump ha annunciato il taglio (temporaneo) dei fondi per l’Organizzazione Mondiale della Sanità: si tratta di 500 milioni di dollari, un decimo del bilancio generale.
L’OMS è il punto di riferimento mondiale per la stesura dei protocolli a cui la politica fa riferimento perché raccoglie in modo trasversale da tutto il mondo i documenti scientifici riconosciuti dalla comunità internazionale e li trasforma in report e indicazioni per la salute delle persone.
L’obiettivo di Trump era chiaro: meno verità, meno visione complessa, meno ricerca, semplificazione di bassa lega e fastidio per lo studio.
Il tepore della bugia, nel breve termine è rassicurante: Pinocchio appena arriva nel Paese dei Balocchi si trova benissimo, ma dura poco e nel frattempo il mondo si infetta, il numero dei morti sale, il clima del pianeta cambia e il futuro si impoverisce ogni giorno che passa.
Pinocchio è una fiaba in cui il Conduttore del carro porta i bambini in un posto dove “non vi sono scuole”, “non vi sono maestri”, “non vi sono libri”, un paese dove si fa quello che si vuole e non si deve ascoltare la voce della coscienza.
Chi si arricchisce con i ragazzi che diventano ciuchini è «un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di “Paese de’ balocchi”».
Così si presentano i cattivi maestri: quando ci viene offerta una finta libertà non ci troviamo davanti uomini o idee con le sembianze esplicite del mostro, sarebbe troppo facile distinguere il bene e il male. L’Omino di burro non affronta le cause dell’inquietudine dei ragazzi, lenisce i sintomi finché gli fa comodo e poi li abbandona.
Lucignolo e Pinocchio sono inquieti, trovano solo cattivi maestri e incapacità di occuparsi di loro da parte delle famiglie e delle istituzioni. Per questo la loro avventura è disseminata di episodi dolorosi.
La Fata dai capelli turchini e il Grillo Parlante non sono eroi, eppure cambiano il corso della storia e salvano Pinocchio. Questo vogliamo e questo ci serve: stare dalla parte dei fatti e della responsabilità.
L’Omino di burro, o il Trump di turno, sono la personificazione del nostro desiderio di distogliere l’attenzione dalle cause dolorose che ci fanno funzionare malamente.
Il compito degli intellettuali è quello di osteggiare la comodità dannosa per cui è preferibile scegliere la rabbia oppure il vittimismo invece che alzare la testa scegliendo una terza strada.
Per una politica che protegge la scienza. E non il contrario
Mentre il sistema sanitario italiano negli anni si è indebolito sono cresciute nel mondo le fondazioni legate alla salute e alla cura dell’uomo. Si tratta di istituti privati gestiti dai ricchi del pianeta che si lavano la coscienza per le poche, pochissime, tasse pagate con progetti di filantropia mondiale.
La valutazione estremamente negativa sulle falle del sistema fiscale internazionale non è argomento per renderci ciechi davanti all’oggettivo ruolo di supplenza che queste realtà svolgono.
Dal 1970 al 2004 i produttori di vaccini sono crollati da 26 a 7 e in America sono scesi da 5 a 2.
Antrace, H1N1 (Influenza suina), Ebola, Aviaria, tutti gli altri virus, e anche il Bioterrorismo, hanno rimesso al centro l’industria dei vaccini.
Rino Rappuoli è riconosciuto come il pioniere della Reverse vaccinology – vaccinologia rovesciata – cioè una tecnologia avanzata che è diventata lo standard di riferimento dello sviluppo dei vaccini. “I vaccini fanno in modo che il sistema immunitario impari a riconoscere e a contrastare l’agente patogeno prima che possa causare la malattia”.
Negli ultimi due decenni la Fondazione di Bill Gates ha investito miliardi di dollari per la produzione e la distribuzione certificata di vaccini e Rino Rappuoli è uno degli scienziati di riferimento mondiali per la verifica della credibilità dei percorsi di cura su cui investire.
Donald Trump è stato curato grazie agli anticorpi monoclonali, come gran parte dei negazionisti nel mondo che se lo sono potuti permettere. L’Italia grazie alla sapienza e alla tenacia decennale di alcuni scienziati è all’avanguardia in questa cura.
Se oggi chiamassimo eroi i costruttori di cure, sappiamo che domani potrebbero diventare carne da macello nella squilibrata corrida del dibattito pubblico italiano.
Se dicessero pubblicamente “In primavera potremmo avere una cura” spiegandolo come una concreta possibilità e successivamente nelle sperimentazioni ci fossero reazioni tossicologicamente rilevanti, improvvisamente la scienza diventerebbe la venditrice di lozioni di una carovana nel Far West.
Per questo la politica deve proteggere la scienza e non usarla come scudo. La scienza è infatti la religione del dubbio, della domanda che si aggiunge ad ogni passo di ogni sperimentazione.
E neppure si può accettare l’idea che si va dalla Scienza come si va dalla mamma: in cerca di rassicurazione.
L’etica della responsabilità davanti ai malati, ai morti e ai sani da proteggere deve prevalere sulla paura di essere contestati. Per invertire la rotta serve una rivoluzione ed è necessario costruire consenso per questa prospettiva, consapevoli che nell’immediato non è una via vincente.
Mentre il Paese vive la crisi più grande dell’epoca contemporanea si può accettare da parte degli intellettuali considerazioni malintesamente ecumeniche? Non sono tempi per essere di bocca buona, sono tempi in cui è necessario affinare il gusto e proporre solo le teorie migliori, le più lucide, le più responsabili, le più aderenti alla realtà, ancorché scomodissime.
Cultura e politica. Il tempo di sgobbare
Il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America è Joe Biden, ma per quattro anni un’argomentazione portata a sfavore dei processi democratici è stata: “le elezioni hanno prodotto Trump”. Dunque questo è sufficiente per salpare l’ancora e snobbare la democrazia? Oppure si vuole identificare la natura del pericolo e durare la fatica di capire cosa unifica Trump e i negazionisti?
Queste questioni vanno affrontate perché viviamo in un mondo inquieto mosso perlopiù da un sistema di mercato che dilaga, che è poco incline alle regole, e che spinge alla mercificazione di tutto: i nostri dati, la nostra sicurezza sia reale che digitale, le informazioni sensibili, la sorveglianza dei nostri beni e dei nostri affetti in rete, la salute. Quando l’organizzazione economica decide tutto, i diritti inalienabili non sono garantiti.
Il sistema capitalistico determina il problema – mercato selvaggio, fine del lavoro, globalizzazione senza garanzie – e al tempo stesso prova tardivamente a porvi rimedio.
Per chiarezza: sappiamo da decenni che la multinazionale Procter and Gamble produce le Pringles (patatine che a fine pacchetto impongono di lavarsi i denti) e anche il dentifricio Oral-b (che viene pubblicizzato per svolgere quel compito).
In Italia le persone sono ancora cittadine di una democrazia e merita mettere alla prova la cultura affinché questa interroghi la politica e viceversa.
È il nodo antico del rapporto tra cultura e politica, l’emergenza presenta l’occasione di articolare una nuova e diversa dimensione pubblica degli intellettuali, fuori dai dogmi e animata da una ricerca con l’obbligo dell’argomentazione.
Questo però significa prendere parte, militare senza minimalismo, senza eccessi di scetticismo, per la democrazia.
Gli intellettuali non possono permettersi di fermarsi ai discorsi sui sintomi, devono elaborare proposte ben piantate sui dati della crisi, lavorare a fondo sulle cause – anche antiche – dei problemi. Devono scegliere i politici con cui parlare e non guardarli da dietro il vetro mentre sbagliano, magari compiacendosene.
Purtroppo c’è una grande abbondanza di voci intellettuali fioche o alla moda, quello che scarseggia è un lavoro culturale che metta le mani in pasta. Servono parole che sono frutto dello sgobbare a contatto con la realtà: parole che portano progresso e ammutoliscono i reazionari.
È una questione di metodo, e di pigre prassi da licenziare, se si vuole stare dentro il solco della memoria e della storia delle minoranze del nostro Paese. Se si vuole contrastare la paura e proporre pensieri all’altezza di questo tempo e della responsabilità che intendiamo prenderci.