Si può essere contro la guerra facendo la guerra? Ovvero riproducendola nei suoi dettagli: il fragore delle detonazioni, l’orrore del pericolo, il caos delle sensazioni, l’ingiustizia e la repressione dell’autorità, la spossatezza del corpo, il culto della morte e dei suoi rituali?
Orizzonti di gloria, come tutti i film, ha come armi principali per parlare di ciò che intende raccontarci, non quelle di un saggio o di un romanzo (benché alla sceneggiatura ci siano ben due scrittori di livello come Jim Thompson e Calder Willingham), ma la nitidezza delle percezioni fisiche che i nostri neuroni a specchio riproducono nella nostra mente per empatia, rispetto a quelle riprodotte sullo schermo. La paura, la frustrazione, l’odio, l’impotenza, la rabbia, l’aggressività, l’ipocrisia, l’avidità, distillate e disegnate e infilzate con la precisione di un entomologo e, infine, poco prima dei titoli di coda, l’abbandono, senza preavviso, ad un sogno di commozione e tenerezza, l’idea che anche una semplice canzone possa creare la scintilla del desiderio di qualcosa di completamente diverso da ciò che esiste davanti ai nostri occhi e farlo divampare nel nostro corpo con la stessa capacità di sopraffazione dell’odio, della paura, della violenza.
Stanley Kubrick, a meno di trent’anni, più di 50 anni fa, aveva predisposto in un film una spietata strategia d’attacco al formicaio del nostro sistema nervoso che ha funzionato anche domenica mattina, al Lux per la prima puntata di Potemkin – bellissimi film, dibattiti assurdi. È bastato un caffè, un cornetto e un dvd – che, per mimare i tradizionali cineforum in pellicola, si è interrotto per una ventina di minuti come se si fosse rotta la pellicola – più un pubblico di un centinaio di persone che non si conoscono, non tutte almeno, nella stessa sala buia.
Si può essere antimilitaristi senza essere pacifisti, come ci ha spiegato Luigi Manconi, ipovedente che però ci vede benissimo, si può essere radicali con la macchina da presa ancor più che con la politica, si può distruggere la guerra con la stessa spietata e furiosa strategia della guerra. È assurdo, è incomprensibile, è bellissimo e, ancora oggi, si chiama cinema.
Mario Sesti, critico cinematografico