Elisabetta Maiorano tutte le volte entra nel carcere, dove insegna matematica nella scuola – l’unico spazio senza sbarre alle finestre – e ogni volta che entra a Nisida si sente in colpa; per usare le parole della Parrella, Nisida è anche il luogo in cui, quando la Maiorano entra deve ogni volta ricollocare, riposizionarsi, guardarsi le spalle e dentro, e poi passare di livella sul giudizio.
Presto Almarina, lì dentro, diventa la sua alunna. La prima volta che parlano è per fare delle operazioni. Pochi giorni dopo Almarina è di nuovo sul banco di scuola. Ma dorme. Dorme, di mattina, perché la notte resta sveglia; prega a cantilena, racconta una compagna di cella. La Maiorano la osserva e non vuole svegliarla.
Si intravede subito in questo gesto, dietro questa cura, una relazione con Almarina che l’insegnante non ha con altri. Una relazione che pare sbocciare dichiaratamente il giorno in cui Almarina sorride a Elisabetta Maiorano e spalanca bene gli occhi. Spalanca bene gli occhi, Almarina, e così la Parrella ci avvicina e ci consente di entrare in una delle relazioni più umane e più vere che una storia ambientata in un carcere possa donarci. E difatti la Maiorano si lega ad Almarina, si lega a lei un giorno, mentre guardano il mare, quando l’insegnante decide di confidarsi e di raccontarle che suo marito, quando era in vita, era un ottimo nuotatore.
Pregno di emozioni e di sentimenti vivi e naturali da accogliere, il racconto della Parrella è un condensato di paure, dubbi, slanci, debolezze, ricerche, richiesta di aiuto e di risposte che caricano, e con forza, le pagine di vita, come di una bellissima e necessaria umanità.
E la Parrella si sente che è lì. Si sente che Nisida non è un luogo a lei sconosciuto, né lontano. Tutt’altro. Dev’essere per questo che a volte pare prendere il lettore per mano e portarlo con la Maiorano, passo dopo passo, lungo la salita per entrare a Nisida, e poi sembra accompagnarlo per vedere con lei la sbarra alzarsi prima, per superarla insieme dopo. Si riconosce quella tristezza quasi radicata, quando ripercorre con i ricordi la sua storia d’amore, una tristezza figlia di perdite e di mancanze indesiderate. E pure, ancora la Parrella fa poggiare con delicatezza al lettore lo sguardo su Almarina, quando la Maiorano la inizia a conoscere; e si è lì pronti a riconoscere questo legame tra le due, quando al direttore l’insegnante spiegherà che lei, nei confronti di Almarina, si sente responsabile più che di altri detenuti, perché lei si tiene tutti i libri che le porta. Anche Gramsci Almarina si è tenuta. E pure il lettore percepisce chiara la sua paura, l’umana inadeguatezza della Maiorano, quando le viene detto che Almarina trascorrerà il Natale con lei, settantadue ore insieme. A lei pare improprio – eppure, ricorderà il lettore, la lettrice, era stata proprio l’insegnante a chiedere il permesso di fare il Natale in carcere. È l’averla a casa che le fa paura. La paura è umana, pare allora sussurrarci la Parrella.
Ma poi sorprende, la vita, e allora si è contenti con loro e sono belle, insieme, Almarina e la Maiorano, quando le ritroviamo tra loro e festeggiano ed esagerano e mangiano e bevono e spendono insieme – e tutto così agli occhi del lettore o della lettrice pare d’improvviso meravigliosamente normale. E un poco, anche, questa complicità e familiarità sembra restituire all’insegnante quello che la vita le ha tolto, ciò che non ha più, che avrebbe desiderato condividere con il suo amore.
Pare di essere con loro persino a Natale, quando esso diventa il racconto delle due che si mettono lo smalto alle unghie, o quando si tengono per mano, mentre la Maiorano si fa fare i buchi alle orecchie in farmacia.
Almarina è giovane, ma pare spesso adulta. La Maiorano è adulta, ma pare giovane talvolta. E c’è qualcosa di magico allora in questo scambio di ruoli, qualcosa che rende speciale questo rapporto, questo incastro, che gli dona smalto, ricchezza. Autenticità. Qualcosa che la Parrella sa raccontare accompagnandoci con una scrittura potente, chirurgica nel tratteggiare immagini e nel ricondurci a sentimenti, realista ed essenziale nei dialoghi, minuziosa e precisa in ogni pagina, e sa farlo in un contesto che narra con lucidità, senza infingimenti e senza minimizzare: è nella dura realtà del carcere che prende vita questa storia e che alla vita vera, infine, pare dedicato, quando l’autrice racconta che le cose che fanno male non si capiscono subito; quando ci permette di vivere una relazione di conoscenza tra due donne, di cui una potrebbe essere la madre dell’altra; e in questo condizionale, poi, si può allora raccontare un desiderio, il simbolo di un’altra vita che si aggiunge a questa storia che di vite si anima e ci riempie.