Quest’articolo è uscito su Not, rivista online di Nero Edizioni, che ne detiene i diritti e che ringraziamo.
Niente godimento senza polvere di stelle: un’intervista a Simon Reynolds
Simon Reynolds è, lo sappiamo, il più importante e autorevole critico musicale in circolazione. O quantomeno, diciamo che è così che ci viene presentato, e non senza ragioni: ha scritto almeno un saggio imprescindibile per chiunque voglia comprendere la temperie culturale degli anni 2000 (Retromania), è autore di celebrati classici sulla cultura rave (Energy Flash) e sul post-punk (Rip It Up and Start Again, da noi diventato semplicemente… Post-Punk, appunto) e la sua ultima impresa consiste in 700 pagine sull’epopea glam di David Bowie, T Rex, Roxy Music ecc., tradotte quest’anno da Minimum Fax con il titolo di Polvere di stelle.
Reynolds ha già contribuito a Not con un mixtape che, a quanto pare, ha prodotto non poche alzate di sopracciglia («che è tutto questo rap americano mainstream? E poi perché manco un pezzo dei Gang of Four?»); ma visto che nei prossimi giorni sarà di nuovo in Italia per un breve tour di presentazioni, ho pensato di proporre qui la lunga conversazione che intrattenemmo questa estate al tavolino di un bar del centro di Roma, in cui abbiamo ripercorso non solo trent’anni di carriera nel giornalismo musicale, ma anche i temi e le preoccupazioni che da sempre sono al centro della sua attività critica – sia nei libri, sia per testate come Monitor, Melody Maker e The Wire. Buona lettura.
Quando ormai cinque anni fa mi dicesti che stavi lavorando a un libro sul glam, sulle prime restai sorpreso. Perché insomma, stiamo parlando di un periodo della storia del rock – i primi anni Settanta – piuttosto classic rispetto ai tuoi interessi soliti…
Guarda, sono rimasti sorpresi in tanti. Ma ti capisco: perché di solito mi occupo di cose più «contemporanee», no?
Esatto. Però subito dopo mi ricordo che pensai: «e invece no, il glam è proprio un argomento da Simon». Perché incrocia diversi temi che storicamente hai sempre trattato: il rapporto tra musica pop e artificio, l’identità di genere, la decostruzione del concetto di «autenticità»…
È vero, il glam inaugura una serie di filoni che tornano in molta della musica che verrà poi: androginia, decadentismo, teatralità, ossessione per il successo, estetica camp… Ma devo dire che in realtà non ricordo da dove mi venne l’idea di un intero libro sul tema. Immagino che tutto sia nato ai tempi di Retromania, dove ci sono un po’ di pagine sul glam, sul rock’n’roll revival e sui primi anni Settanta intesi come primo momento coscientemente retromaniaco della storia del pop.
Be’, in effetti il glam può anche essere interpretato come uno dei primi fenomeni esplicitamente postmoderni in ambito pop, no? C’era il retro e il futuro, il vecchio e il nuovo, la citazione e il doppio codice, l’alto e il basso, insomma: l’intero pacchetto.
Anche questo è vero, ed è il motivo per cui il glam non può essere interpretato come un semplice revival del primo rock’n’roll: se prendi per esempio un pezzo di Gary Glitter e lo paragoni a uno di Little Richard, lo capisci subito che vengono da epoche diverse. Però è altrettanto vero che nel glam c’era questo ricorso al pastiche e al recupero – opportunamente rivisitato – di estetiche e periodi storici del passato.
Però il glam è anche l’antitesi di quell’interpretazione del «vero rock» come una cosa schietta, orgogliosamente anti-artistoide e fatta «dal popolo per il popolo» – sai, la solita storia del «ho visto il futuro del rock e il suo nome è Bruce Springsteen», che tra l’altro Jon Landau tirò fuori più o meno nello stesso periodo dei vari Bowie e Roxy Music. Quello che trovo interessante, è che in realtà è proprio dagli ambienti working class che spesso vengono gli attacchi più espliciti alla retorica purista e ai concetti di autenticità e «orgoglio proletario»: il glam – che in buona misura fu composto da figli della classe operaia – è un caso tipico, ma se ci pensi è uno schema che tende a ripetersi con una certa frequenza. Prendi – chessò – John Lydon: un figlio di immigrati irlandesi cresciuto in una condizione socialmente ed economicamente disagiata, che poi si disegna i vestiti da solo, inventa il punk e subito dopo passa a una cosa totalmente d’avanguardia come i PIL. Mentre dall’altra parte a difendere i valori del vero «rock del popolo» hai un prodotto della borghesia come Joe Strummer, per dire. Sono tanti piccoli segnali di quanto sia fuori fuoco la tesi secondo la quale tutto quanto sia sommariamente artistoide o culturalmente avanguardista debba per forza ricondurre a modelli borghesi e non possa essere un parto della classe operaia.
Sì, e in questo senso il caso Springsteen è parecchio interessante. Lui sai, ha questa immagine di cantore degli ultimi e degli oppressi, e la sua musica è sempre molto terra-terra, senza fronzoli, rock nel senso più classico e purista del termine. Però se guardi bene, tutto si regge su un’impostazione molto estetizzante, pomposa; lo stesso suo linguaggio è estremamente fiorito, epico… Il tema dell’autenticità, dell’essere «reali» è una costante della storia del rock: ma basta scavare poco sotto la superficie che quello che trovi sono sostanzialmente delle costruzioni. Al contrario, la teatralità esplicita di un fenomeno come il glam è sì un autentico parto della working class, ma anche un invito a emanciparsi, a sfuggire a quella realtà che altri pretendono di rappresentare senza artifici o edulcorazioni. Gruppi come i Roxy Music arrivarono addirittura a sposare un’estetica estremamente artistocratica, chic, elitaria… Gli stessi Slade, che del glam erano il gruppo forse più basico, venivano dalle fabbriche ma credo che in tutta la loro carriera non abbiano mai scritto mezza riga sulla «vita da operaio». Magari un tipo come Springsteen avrebbe tirato fuori versi tipo «piccola, prendiamo la moto e scappiamo da questo buco di città»; gli Slade invece la fuga la praticavano con la loro stessa musica, se capisci cosa intendo.
I Roxy Music nel 1973
Torniamo a come nasce il tuo interesse per il glam: in Polvere di stelle ricordi di aver già trattato il tema moltissimo tempo fa – e per la precisione alla metà degli anni Ottanta – sulle pagine di Monitor, la rivista che fondasti quando eri studente a Oxford… Mi racconti qualcosa di quella vicenda?
Era il 1985 e la scena musicale stava attraversando una certa stanchezza, nel senso che si era conclusa la grande stagione che dal post-punk aveva portato al new pop, e in giro sembrava non fosse rimasta molta energia… Non che non uscissero ancora bei dischi, eh? Ma eravamo nella classica situazione a metà strada tra la fine di un periodo e l’inizio di qualcosa che nessuno sapeva ancora individuare con certezza, anche perché il rap e la cultura rave non erano ancora esplosi. E allora David Stubbs [critico inglese e fondatore assieme a Reynolds di Monitor, NdR] se ne uscì con l’idea di prendere il 1975 come precedente del 1985, anche perché il 1975 è comunemente considerato un altro dei punti più bassi della storia del rock. Quindi prima ci mettemmo a comprare i vecchi singoli degli Sweet e di Alice Cooper; poi Paul Oldfield [altro collega di Reynolds e Stubbs, NdR] scrisse questo pezzo su Gary Glitter, e da lì nacque l’idea di collezionare una serie di interventi sul tema. L’apice arrivò quando sull’ultimo numero della rivista ci inventammo un gruppo mai esistito, i Wilson Sisters, di cui allegammo persino un flexi disc chiamato 1972 che non si sa come finì anche in una classifica di Greil Marcus! Su Monitor facevamo spesso di queste cose: inventavamo gruppi inesistenti e su di loro costruivamo storie assurde, facevamo finte interviste, finti reportage… È un’idea comune a molte fanzine, quella di inventare gruppi immaginari e di costruirci tutta una mitologia attorno.
Sì, io una volta feci una fanzine su una scena intera, sempre completamente immaginaria.
Ahahah, davvero? Un’intera scena? E che scena era?
Era questa scena avant-post-punk di un posto in provincia di Roma che si chiama Zagarolo, non credo che tu lo conosca…
Uhm, no, non mi pare.
Lo sospettavo. Comunque, l’idea mi era venuta da questo film-parodia, Ultimo tango a Zagarolo; e io mi inventai che in questa cittadina (in cui tra l’altro non sono mai stato) c’erano tutti questi gruppi che prima erano partiti col punk e poi erano finiti a fare chi le risse nei bar e chi gli esperimenti di musique concréte su nastro. Sono le classiche cose che fai a sedici anni, credo. Sai, invece di studiare.
Assomiglia a quello che ha fatto David Keenan con This Memorial Device, hai presente? È un romanzo su questa fantomatica scena post-punk di un piccolo villaggio della Scozia di cui David ha inventato tutto: gruppi, nomi, etichette…
Secondo me è arrivato a inventarsi i gruppi per riprendersi da quella che secondo lui sarebbe «la fine dell’underground». Comunque: torniamo a Monitor, che alla fine è stata un’esperienza piccola ma molto importante nell’Inghilterra dei primi Ottanta; tu come la descriveresti?
Tecnicamente era una fanzine, anche se dall’aspetto molto curato, glossy… Ci piaceva immaginarla come una rivista pop, e infatti la presentavamo come tale. All’inizio non facevamo nemmeno recensioni di dischi, ma solo interviste lunghissime in cui trascrivevamo parola per parola quello che dicevano i musicisti: ma proprio nel senso che se uno tossiva, trascrivevamo pure il colpo di tosse, capisci? Poi che altro… C’erano questi think-pieces, articoli lunghi che andavano avanti per pagine e pagine…
Era una fanzine snob, insomma.
Aahaha! Be’ una specie… Era molto intellettuale, mettiamola così. Ma scrivevamo di cose di cui le altre fanzine non scrivevano: un sacco di ambient, i dischi di etichette come la Crammed… Verso la fine ci fu una ragazza chiamata Gina Rumsey che fece questa intervista (credo ai Sonic Youth) in cui non riportò nemmeno un virgolettato, ma solo parafrasi delle risposte che davano i musicisti. Era tutto molto così, sperimentale…
Il primo numero di Monitor, 1984
Vi ispiravate a qualche precedente in particolare? Perché io ho sempre pensato a Monitor come a un proseguimento del lavoro iniziato in Inghilterra da giornalisti-teorici tipo Paul Morley, Ian Penman… Sai, tutto quel giro dell’NME periodo fine Settanta/inizi Ottanta, quando persino la recensione del più trascurabile gruppo post-punk era un piccolo saggio post-strutturalista.
Assolutamente, io mi ero formato proprio con quelle cose lì. Ero ossessionato in particolar modo da Paul Morley e da quei lunghi saggi zeppi di citazioni filosofiche che pubblicava sull’NME ai tempi del post-punk. Poi, quando verso la prima metà degli anni Ottanta l’NME abbandonò quel tipo di approccio, pensai: «ok, lo faccio io». E la stessa cosa la pensò David Stubbs: è così che nacque Monitor. Sembra assurdo dirlo ora, ma ci fu un periodo in cui l’NME fu un vero contenitore di firme estremamente sofisticate, dotte, con questo bagaglio teorico molto forte… Gente che magari iniziava le recensioni citando Derrida o Lacan, e che poi produceva questi articoli molto densi, spesso pure troppo. A volte anzi era difficile seguirli e capire cos’è che dicevano…
So che a un certo punto uscì questo famigerato articolo di Ian Penman (se non sbaglio sui Throbbing Gristle) che era talmente complicato da leggere che alla redazione dell’NME arrivarono migliaia di lettere di protesta incazzatissime…
Gliene dicevano di tutti i tipi! Penman sapeva senz’altro essere molto astratto nei suoi articoli, ma quando voleva era anche molto accessibile, piacevole… Assieme a Morley (e a Barney Hoskyns) fu quello che più incise sull’identità dell’NME del periodo. Fu una stagione molto breve, credo non più di tre o quattro anni, ma di enorme importanza per chiunque «scriva di musica».
Per me è la stagione che ha inventato il giornalismo musicale moderno.
Sono totalmente d’accordo.
Cioè, noti proprio lo stacco con la generazione precedente, quella dei Lester Bangs per capirci…
Nell’Inghilterra degli anni Settanta c’erano autori come Ian MacDonald e Nick Kent che ogni tanto si cimentavano in qualche «saggio generale», ma non ricorrevano alla teoria, alla sociologia, alla filosofia e a questo genere di bagaglio qui. Erano molto intelligenti, e almeno MacDonald era anche molto colto, ma il massimo in cui si arrischiavano erano aggettivi tipo «dionisiaco», capisci come? Partivano più dall’osservazione personale, dalla loro vita privata…
Forse l’unico ad aver anticipato quello che poi diventerà l’approccio dell’NME post punk di Richard Meltzer…
Oh, certo! È vero, anticipò diverse intuizioni – anche se sempre all’americana, in maniera gonzo…
I Public Enemy sulla copertina del Melody Maker, novembre 1987
Tu quand’è che alla fine sei arrivato a scrivere per il Melody Maker?
Nel 1986.
Quindi hai da poco festeggiato i trent’anni di critica «ufficiale».
Sì, se non consideriamo gli inizi su Monitor.
E nel 1986 il Melody Maker che tipo di giornale era?
Era il secondo settimanale musicale inglese dopo l’NME per numero di vendite, ma stava attraversando un’evidente crisi di identità. Quando alla fine degli anni Sattenta l’NME inaugurò la sua fase post-punk, fu subito chiaro che era quello il giornale «fico»: perché l’NME aveva le firme più carismatiche, gli articoli più interessanti, i giornalisti migliori… Ok, ai tempi del punk il Melody Maker aveva avuto Caroline Coon, ma a metà anni Ottanta ormai era passato a trattare tutt’altra musica e con tutt’altro taglio: era perlopiù musica americana molto traditional e innamorata del vecchio rock’n’roll, gruppi tipo Long Ryders, Guadalcanal Diary, i Blasters… Li hai mai sentiti nominare?
Come no, credo anzi che in Italia andassero anche relativamente forte. Io ero ancora troppo piccolo, ma c’erano almeno un paio di mensili che trattavano perlopiù quella roba lì (oltre che Bruce Springsteen).
Ecco, tu immagina che in un giornale del genere arrivano, alla metà degli anni Ottanta, personaggi come David Stubbs, Paul Oldfield e il sottoscritto, insomma il nucleo storico di Monitor. Venivamo da un retroterra completamente diverso, scrivevamo pezzi cervellotici e su musiche che fino a quel punto il giornale a malapena aveva sfiorato, cominciavamo a interessarci a generi come l’hip hop e la musica dance, ma soprattutto facevamo squadra, scrivevamo pezzi assieme, eravamo molto presenzialisti e col tempo il Melody Maker prese a essere identificato perlopiù con noi. Arrivarono anche nuove firme sulla nostra scia, e il Melody Maker cominciò a farsi la fama di giornale «intellettuale», di rivale «serio» dell’NME che nel frattempo – esaurita la sua fase post-punk – era passato a tutt’altro. Noi invece trattavamo la musica «nuova»: i Public Enemy, i My Bloody Valentine, gli Spacemen 3…
I lettori come reagirono alla «svolta intellettuale»?
C’era chi si lamentava, ma la maggior parte del pubblico apprezzò. Perché percepiva il nostro entusiasmo, la voglia di far scoprire nuove musiche e nuovi suoni, e poi c’è anche da dire che nessuno di noi toccò mai le vette criptiche di uno Ian Penman. Perché io ho sempre pensato che ok la teoria, ok i riferimenti alti, ma devi anche provare a comunicare quello che stai ascoltando, la musica di cui vuoi trattare e tutto il resto. Credo di essere sempre stato abbastanza chiaro nell’esposizione… Certo, usavo un sacco di metafore, ma erano sempre metafore che provavano a restituire le sensazioni che mi davano le musiche di cui volevo parlare.
Che tipo di metafore erano?
Mah, molte erano a carattere naturalistico: cose tipo «musica che suona come l’aurora borealis», oppure «come i fiordi in Norvegia». C’era questo editor del Melody Maker che mi prendeva in giro e mi diceva «ma perché non ti metti a scrivere per il National Geographic?».
Ricordi dalla rave era: i KLF sulla copertina del Melody Maker, 1991
Ma senti, al di là dello stile, parliamo un po’ di contenuti: tu hai sempre dichiarato la tua contrarietà ma anche la tua fascinazione per un libro come Rock and the Pop Narcotic di Joe Carducci, uno dei testi sacri del «vero rock» come roba per tizi sudati che mandano a fuoco gli amplificatori. Sintetizzando un po’, per Carducci il rock deve essere una cosa chitarra+basso+batteria fatta da giovani maschi (bianchi) senza pretese «artistiche» di alcun tipo; di contro, gli esperimenti «creativi» del pop, ma anche il rap e i ritmi meccanici di house e techno, sono per lui un’aberrazione, il segno di un’effeminatezza e di un’artificiosità che vengono meno ai princìpi di autenticità di una musica autenticamente «popolare». È difficile immaginare una lettura più distante dalla tua…
Penso che Carducci abbia una consapevolezza sociale oltre che politica molto chiara. Certo, è una coscienza eufemisticamente di destra, ma ha il merito di essere esplicita nella sua definizione di «cos’è il rock». Non sono d’accordo con lui su quasi nulla, ma apprezzo le sue descrizioni di come funziona quell’idea di rock, anche perché è un’idea che torna spesso nell’immaginario di pubblico e ascoltatori.
Be’, di fatto nella lettura di Carducci il rock è un fenomeno sostanzialmente fascista. Ed è vero che quel tipo di rock lì ha un suo lato populista molto pronunciato… Mi chiedo cosa hai pensato quando arrivò il grunge: per Carducci fu letteralmente un sogno diventato realtà, il che dal suo punto di vista era comprensibile. Voglio dire, prova a metterti nei suoi panni: dal suo punto di vista cos’era il grunge se non una massa di capelloni sudati che bevevano birre e sparavano riff da un ampli valvolare?
Del grunge mi piaceva qualcosa, specie i Nirvana. Anche qualcosina dei primi Soundgarden, ora che ci penso. E poi gli Alice In Chains, che avevano melodie splendide. Però è vero che il grunge ebbe anche la funzione di riportare in auge roba tipo i Led Zeppelin, che per un post-punk come il sottoscritto erano un anatema. Quello che però rendeva interessante il grunge era la sua componente sociale, e in questo l’analisi di Carducci resta molto accurata: giovani indolenti e annoiati, provenienti perlopiù dalla piccola borghesia bianca della provincia USA. L’altro testo chiave per comprendere quel fenomeno è stato per me Teenage Wasteland di Donna Gaines, che non parla esattamente del grunge (semmai di gruppi tipo i Metallica), ma che è un ottimo ritratto di quella suburbia americana popolata da giovani apatici e spesso disoccupati per i quali i Led Zeppelin non sono mai passati di moda. Sono gli stessi posti dove adesso è popolare Trump, se ci pensi.
>Tu negli stessi anni del grunge eri preso dalla cultura rave e dall’esplosione di house e techno, praticamente il Nemico Assoluto per gente tipo Carducci. E in effetti si tratta di approcci sinceramente agli antipodi: nella techno i musicisti di fatto scompaiono, è una musica tutta artificiale e «suonata dalle macchine», al rocker come icona cristologica si sostituisce la figura misteriosa del dj… Ma soprattutto era una musica nuova, affascinata dall’idea di futuro, refrattaria a qualsivoglia sentimento nostalgico…
Sì, e infatti per me il grunge fu davvero una specie di «ultima chiamata» per il rock: metti assieme un po’ di punk e un po’ di Led Zeppelin e il risultato magari è potente, ma difficilmente lo descriverei come nuovo. House e techno invece introdussero una serie di innovazioni realmente immense, sia dal punto di vista del contenuto che della fruizione.
La cosa interessante è che in Energy Flash, il tuo libro sulla cultura rave, tu prendi una posizione molto chiara: anziché schierarti con la parte «intellettuale» della cosiddetta «techno intelligente» dei vari Autechre e giro IDM, sposi la causa della sottocultura hardcore: jungle, gabber, drum’n’bass… Insomma, la techno più «bassa» e brutale, nata più nelle periferie di Londra che in qualche cameretta tappezzata di poster di Kraftwerk e Stockhausen…
Pensi sia strano, vero? A me piaceva che l’hardcore non fosse roba da poseur, che fosse una cosa nata dal basso, certo… Ma devo dirti la verità: mi piaceva anche l’idea di fare l’esatto opposto di quello che uno si sarebbe aspettato da un tipo come me, visto il mio retroterra post-punk e la mia fama da «critico intellettuale».
In realtà no, non penso che sia strano. Jungle e drum’n’bass magari non citavano Stockhausen, ma erano in tutto e per tutto musiche estremamente d’avanguardia. E questo ci riporta al tema che abbiamo sfiorato parlando del glam, e che Carducci prova a risolvere in chiave reazionaria e populista: spesso le innovazioni più di rottura arrivano non dalle elucubrazioni di qualche dotto ascoltatore borghese, ma dai retroterra più infimi e disagiati, che poi sono i primi a scontrarsi senza protezione alcuna con i cambiamenti sociali, economici o anche semplicemente tecnologici della modernità. Mentre dall’altra parte, quando provieni da un retroterra più tipicamente borghese hai a disposizione tutta una serie di protezioni, di riferimenti culturali, che in qualche modo attutiscono l’impatto di questi cambiamenti.
La cosa per me più interessante è proprio che musiche come la jungle e la gabber, nate a uso e consumo di un pubblico working class, non si presentavano mai sotto l’insegna dell’«Arte». Al contrario: erano musiche sporche, «brutte», «fatte male»… Ma erano anche musiche incredibilmente futuriste, che sorpassavano a sinistra tante pretese di quei musicisti che magari si impegnavano a fare gli artistoidi pur di finire in copertina su The Wire. Penso anche che molta della techno cosiddetta «intelligente» sia invecchiata veramente male col passare degli anni: mentre dalla scena hardcore è nato tutto un percorso – quello che ho chiamato hardcore continuum – ancora molto vivace e vitale, almeno in Inghilterra.
Alle origini dell’hardcore continuum: il Foul Play Remix di «Renegade Snares», 1993
Nel mixtape che hai fatto per Not però c’è poca traccia di hardcore continuum, immagino per via del fatto che da tempo risiedi negli USA. Semmai c’è un sacco di trap, che se vogliamo è un po’ il corrispettivo americano di quei fenomeni «di strada» che negli anni Novanta hai conosciuto a Londra. In generale però, non mi sembri molto interessato alla musica elettronica di oggi…
Be’, ho fatto quell’intervista a Jlin per il Guardian…
Giusto.
Però è vero, è un po’ che non seguo quella scena, anche perché non credo di avere molte cose interessanti da dire a riguardo… L’ultimo fenomeno che mi ha davvero incuriosito è stata la deep tech (da non confondere con la deep techno o la deep house), che in effetti può essere considerata come un’altra tappa dell’hardcore continuum inglese, perlomeno a livello di pubblico. È una specie di house classica ma con basslines molto scure e produzioni strane, da ascoltare rigorosamente in una dimensione da club. Ha anche una sua droga di riferimento, sai?
Ah sì? E quale?
Hai presente i palloncini col gas esilarante…
L’ossido di di azoto!
Sì, in inglese lo chiamiamo nitrous oxide o più semplicemente nitro. Ecco, presa nel suo insieme la deep tech è stata una cosa di cui mi sarebbe piaciuto sapere di più, ma non frequentando più tanto Londra e i club era un po’ difficile per me… E questo lo dico al di là del valore di quelle musiche, che magari è discutibile. Non so, per te c’è della musica elettronica di adesso che vale la pena ascoltare?
Be’ sì, direi di sì…
Tipo?
Guarda, alcune di queste le hai se non altro sfiorate in Retromania, dove hanno una parte importante musicisti come James Ferraro e Daniel Lopatin/Oneohtrix Point Never. È anzi interessante come ai tempi loro fossero in prima linea in quel sentimento «retromaniaco» che nel loro caso si declinò nell’effimera stagione dell’hypnagogic pop; ma subito dopo l’uscita del tuo libro, ecco che intraprendono una svolta risolutamente anti-nostalgica, anti-retro e potentemente pro-futuro… Magari non è un caso. Magari Retromania li ha stimolati a tentare di emanciparsi dal feticcio della nostalgia.
Io posso dirti che Oneohtrix Point Never è uno dei miei musicisti preferiti sin dai tempi di «Physical Memory», che davvero è uno dei brani che ho ascoltato di più in assoluto negli ultimi quindici anni. Però hai ragione: agli inizi lui faceva questa elettronica à la Tangerine Dream molto «calda», piena di sintetizzatori e arpeggiator. Poi con quel famoso disco lì, R Plus Seven, è passato a fare queste cose più fredde, molto hi-tech…
E da lì discende tutta quell’ondata di musicisti tipo Arca, Holly Herndon…
O le cose dell’etichetta PAN, certo. È vero che sono tutti musicisti che spingono la tecnologia al limite e che a volte riescono persino a scoprire nuovi suoni. Però è anche una musica molto «storta», deforme, decostruita… Un critico che si è molto concentrato su questa scena qui è Adam Harper, che senz’altro è riuscito a trarne conclusioni notevoli. Ora che mi ci fai pensare, credo che tutti questi musicisti possano ricondurre tutti a un primo modello originario… Indovina quale?
Mmmh, gli Autechre?
Gli Autechre!
Eh, ma io sono anni che lo dico! Mi fa piacere che anche tu la pensi così, però so anche che per gli Autechre non nutri grande «trasporto», diciamo.
Li rispetto molto, sono dei grandissimi costruttori di architetture sonore. Ma non sono un gruppo che ho mai davvero amato… Perché fanno una musica per certi versi molto accademica, ostentatamente «difficile», che non mi produce forme di godimento, se capisci cosa intendo.
Sì, lo capisco, è un effetto che fanno a molti.
È il motivo per cui negli anni Novanta alla techno «intelligente» preferivo la scena hardcore di jungle e drum’n’bass, no? Ed è anche il motivo per cui musicisti come Arca li trovo senz’altro interessanti, apprezzabili, freschi, futuribili e così via… Però sai… Io ci provo, li seguo, mi piacciono: ma che posso farci, a godermeli non ci riesco.
Arca, «Xen», 2014
Valerio Mattioli è editor per NERO. Ha pubblicato Superonda. Storia segreta della musica italiana (Baldini & Castoldi 2016). Il suo nuovo libro Remoria è in uscita per minimum fax a settembre 2019.