Domenica di fine marzo a Roma, cielo terso e sole caldo, si gira a braccia scoperte, i parchi sono più pieni delle chiese. A mezzogiorno però, mentre qualcuno magari è impegnato a cercare il ristorante a Ostia, altri sono già davanti ai cancelli della palestra popolare Valerio Verbano, nel cuore del Tufello, quartiere popolare di Roma. Sono i fan di Alessandro Borghi, l’attore romano che oggi sarà a disposizione del quartiere dalle quattro alle sei, grazie al lavoro dell’assessore alla cultura del Terzo Municipio, Christian Raimo, e della sua invenzione, quel movimento di cittadini che si è radunato, identificato e attivato sotto il nome di Grande come una città.
La palestra Verbano è un luogo storico di questo municipio, un edificio abbandonato con il tetto pericolante e completamente recuperato dalla gente del quartiere, per il quartiere. Senza altri aiuti che le loro forze, gli abitanti del Tufello hanno creato un luogo accessibile a tutti, permettendo di praticare sport anche a chi non si può permettere la retta mensile delle palestre private. Una palestra popolare di nome e di fatto, che porta il nome del diciannovenne “ucciso dalle carogne fasciste”. I muri del quartiere lo ricordano a ogni angolo, qui il popolo non è muto.
E questi sarebbero i pericolosi ‘centri sociali’ tanto evocati dall’uomo solo al comando.
Quando arriva Borghi le ragazzine, in prima fila nel piazzale della palestra, gongolano. Luca Blasi detto Lucone del centro sociale Astra fa il suo discorso politico: in cinque minuti ricorda tutte le battaglie in corso nel municipio. L’applauso è fragoroso. Anche Borghi applaude. Poi parla Caudo, il presidente del Municipio. Anche lui è rapido, non vuole togliere tempo all’attrazione principale. Ringrazia tutti per la presenza e invita ognuno a prendersi cura del proprio vicino per uscire felici e contenti da questo appuntamento. Prendersi cura del prossimo al Tufello, capirai. Poi parla Raimo, il catalizzatore di questo gruppo di cittadini. Ricorda la penuria di spazi culturali del municipio – che è grande come una città: 205 mila abitanti – e rimarca l’intenzione, attraverso Grande come una città, di creare un palinsesto alternativo alla TV. «Dobbiamo tornare a fare le cose insieme, a condividere le esperienze culturali».
Poi tocca a lui: «Sono emozionato». Pausa lunga. «È bello stare qui».
Borghi non ha iniziato a parlare neanche da due minuti e già si parla del film su Stefano Cucchi, Sulla mia pelle. Quando lo fa, c’è un profondo silenzio, come se si stesse consumando una liturgia. «Questo film è un regalo che mi è stato fatto» dice Borghi. Sa bene quanto è importante e sentita questa storia a Roma, e allora lui pesa ogni singola parola quando parla della vita di un’altra persona. «Questo è un Paese dove non è possibile vedere un figlio mentre sta morendo in carcere. Rivedo molto mio padre nel papà di Stefano, il suo pudore nel voler dire le cose è lo stesso che ho conosciuto in mio padre. Più volte ho immaginato mio padre in quella situazione».
Borghi va poi dritto al punto: «Il film abbraccia molti stati emotivi ed è un film sul più grande problema del Paese, il giudizio. Ne abusiamo in Italia, specie quando identifichiamo le persone dal luogo di provenienza. In questo Paese è molto semplice puntare il dito verso chi è diverso. Succede spesso, e sempre in determinati contesti». Borghi non ci gira intorno, non lascia in sospeso nulla. «I contesti dove si vive la vita che si è trovata, da affrontare senza aiuti esterni».
Poi è il tempo di alleggerire un po’ l’atmosfera, e allora racconta com’è nato il Borghi attore. «Ho iniziato per caso. Ero uno studente di economia. Praticavo boxe in una palestra e un giorno, all’uscita, incontro uno che mi ferma per strada. Dice che era in cerca di attori e je serviva uno con la faccia da fijo de ’na mignotta». Risate. Borghi non lascia il numero di telefono al tipo, che comunque lo rintraccia, e un giorno l’attore, in casa, viene chiamato dal padre a rispondere al telefono proprio a questo tipo:
Borghi: – No papà, dije che è morta nonna!
Borghi sr: – Ma come je dico che è morta nonna? No, no.
Borghi: – Allora dije che ho fatto ’n’incidente, che non ce sto!
Alla fine Borghi va a fare il provino, perché «io c’ho sta cosa teribbile che non riesco a di’ de no alle persone. Insomma faccio er provino, esco fori e ’sto tipo, che poi è il mio agente da allora, da circa tredici anni, me fa: “T’hanno preso!” E io: ma a fa che?». Risate. “Ti hanno preso a Distretto di polizia 6! Però senti, sul compenso, a ’sto giro tocca accontentarsi, non avevo molto spazio per trattare. Prenderai 600 euro al giorno”.
«EH?» urla Borghi raccontando il suo stupore.
L’attore chiama subito la madre.
Borghi: «Ah ma’, m’hanno preso a fa l’attore, me danno 600 euro al giorno».
Mamma di Borghi: «Te se vonno incula’».
Il cinismo romano nella sua essenza.
Il pubblico ride divertito, Borghi sembra essere l’amico di tutti dopo neanche mezz’ora di chiacchiere. La sua famiglia ha origini popolari, lo ricorda lui stesso. Mario Sesti torna a impostare un tono più serioso alla discussione chiedendo ad Alessandro quando ha capito che gli piaceva fare l’attore.
«La recitazione ti apre la testa, ti costringe ad avere a che fare con te stesso. Ho iniziato a essere sicuro di me con questo mestiere. Ho capito che era il lavoro mio quando ho fatto Suburra, il film. Ho fatto per anni la TV ma non mi piaceva. Non era quello che volevo fare. Io volevo diventare il più bravo, sfidare i migliori attori del momento. È proprio una cosa mia comportarmi così. E comunque volevo fare il cinema che amavo».
Ed è quindi il momento di introdurre l’incontro che ha cambiato la vita all’attore.
«Claudio Caligari è stato senza alcun dubbio il più grande incontro della mia vita. Mi ha insegnato delle cose meravigliose per la mia vita, cose non di cinema. Fra queste, mi ha insegnato che bisogna fare questo mestiere solo quando c’è il bisogno di raccontare qualcosa. Certo, poi si possono fare anche altre cose, ma sempre mettendoci del proprio. Suburra, per esempio, mi ha consentito di creare l’audience per raggiungere più persone con il film su Cucchi».
E qui si ritorna. Non se ne esce. Si parla di Stefano ma anche di Ilaria, «una donna incredibile», applauso, «una donna che si è costruita un’armatura», applauso.
«Appena ha visto il film mi ha telefonato: “Ho visto il film e non so come hai fatto ma tu sei uguale a mio fratello”. Ho pianto tre giorni dopo aver attaccato al telefono con Ilaria». È dolce Alessandro, si capisce. Parla da un’ora e la sensazione è veramente quella di avere di fronte uno dei tuoi amici. «Vedo il futuro con positività perché oggi ci sono dei bambini di sette, otto anni che sono meravigliosi. Ma io so’ stato sempre così, il bambino che salutava col bacetto i vicini di piazzola al campeggio di Ladispoli».
Foto by Accursio Graffeo
Partono le domande del pubblico.
«Io e Marinelli? Eravamo in finale per fare Suburra, l’ho conosciuto al provino dove poi alla fine hanno scelto me». Pausa, fa il gesto con le braccia, risate. «Lo rincontro sul set di Non essere cattivo, penso che starà incazzato nero, starà ancora a rosica’. Invece appena me vede me viene incontro e mi abbraccia come se ci conoscessimo da una vita. L’amicizia è come l’innamoramento: succede e basta».
Sesti è messo da parte da un Borghi in versione monologo. Spazia su tutto grazie alle domande-assist. Parla in romanesco. Riceve biglietti che lo commuovono da parte di ammiratrici. Vorrebbe fare un film assieme a Di Caprio, diretti da Nolan. Le voci delle fan si rompono quando gli fanno le domande. «Il cinema italiano sta cambiando, però, nonostante gli sforzi di qualcuno di noi, ancora facciamo film brutti. Ci stanno 30 persone che vogliono fare cinema bene e 250 — pausa — MILA che lo vogliono fare male. Ma ce la faremo. La parte di sceneggiatura è quella dove siamo più carenti. Ma non perché i nostri sceneggiatori non sappiano scrivere, è che devono rispettare molti paletti per via della produzione. A me una sceneggiatura deve piacere subito, la devo legge’ e me devo innamora’ subito. Se non me piace, allora non lo faccio, quel film. Io scarabocchio un sacco le sceneggiature, e comunque ci metto del mio perché io devo interpreta’ una cosa che hai scritto te, e questo è il mestiere dell’attore».
Borghi ha «scritto due sceneggiature, ma non le propongo perché sennò me sembra di leva’ il lavoro a quarcuno». Film preferito? «Blue Valentine». Gli farebbe piacere fare un film d’amore «per poi piagne tre mesi e anda’ in analisi».
‘Restituire’ è la parola che usa spesso. Si ritorna a parlare di Cucchi e della scena dell’arresto girata in piano sequenza in 7 take. «È stata la scena più sofferta del film, più di quando muore Stefano». Raimo lo imbecca su Caligari, e Borghi torna serio, perché parla dell’incontro con il suo maestro. Racconta del loro rapporto, nato con diffidenza ma poi mutato in amore, anche grazie a Valerio Mastandrea, «uno che era il mio idolo e mo viene a cena casa mia a raccontà du’ ore de cazzate». «Caligari mi piaceva tanto perché non giudicava. Ve racconto una cosa che sanno in pochi. Una volta gli proposero un gran film italiano con Marcello Mastroianni, un film che gli avrebbe sicuramente cambiato la carriera. Lui rifiutò, “perché ora non ho niente da raccontare”».
Questo è esattamente il Borghi pensiero, l’insegnamento più grande della sua storia cinematografica e non solo, almeno fin qui.
Le sue parole rimbombano nelle vie del Tufello quando sono passate le sei. Qualcuno comincia ad andare via, si comincia a fare la fila per il selfie, molti sono qui solo per la foto, ma qualcosa di queste parole sarà rimasto anche nelle loro teste. Borghi ha restituito qualcosa ancora oggi.