Nascita di un mito
Nel 1901, quando G.K. Chesterton definì l’«immagine della metropoli stessa come qualcosa di selvaggio e insieme naturale» e il romanzo poliziesco come «senza dubbio, il poema epico, l’Iliade», non avrebbe mai immaginato che la sua profezia si sarebbe avverata, a vent’anni di distanza, al di là dell’Atlantico.
Mentre il poliziesco classico, il mystery, celebrava i suoi fasti soprattutto in Inghilterra, nel primo dopoguerra, sulle ruvide pagine dei pulp magazine, una manciata di scrittori stava rivoluzionando in sordina le coordinate della crime story.
Stava nascendo la ‘scuola dei duri’ che, con stile disadorno, sovvertiva gli schemi su cui il poliziesco classico si era assestato. Erano storie di gangsters, di detective privati, di corruzione e violenza che, parafrasando uno dei suoi campioni, Raymond Chandler, nel suo La semplice arte del delitto (1950) toglievano il delitto dai vetri di Murano per gettarlo nei vicoli, descrivendo «un mondo in cui i gangster possono governare le nazioni e per poco non governano le città, […] dove il sindaco della vostra città può chiudere un occhio su un delitto per denaro, e dove nessuno può percorrere sicuro una strada buia […] Non è un mondo piacevole, ma è il mondo in cui viviamo, e certi scrittori duri e dotati di un freddo spirito analitico possono trarne storie molto interessanti e persino divertenti».
Questi scrittori, progenitori di quello che in seguito si sarebbe chiamato noir e, più in generale, di tutta la crime story moderna, inconsapevolmente nella maggioranza dei casi, stavano fondando il poliziesco come letteratura critica della modernità. E – a leggere tra le righe le parole di Chandler – ponevano la città come emblema e crocevia di questa critica. Come afferma Franco La Polla, la hard boiled school «non si è peritata di porre i propri eroi in un contesto sostanzialmente nuovo, osando investigare su una chimica ancora sconosciuta. Essa si è domandata senza frapporre tanti diaframmi fra personaggio e scrittura: qual è il senso e il sentimento della condizione urbana?».
Ma quali condizioni determinarono l’ascesa alla ribalta dello scenario urbano come scenario privilegiato di questa problematica? E quali erano i suoi elementi costitutivi?
Dopo la tragedia bellica, gli Stati Uniti vivevano una fase di espansione economica tumultuosa, con enormi fenomeni di inurbamento delle masse rurali. Ben presto si sviluppò un tipo di città differente da quello ottocentesco, europeo.
Nasceva la metropoli. Estesa a perdita d’occhio, con grandi periferie ad alta densità di abitanti, in cui si accalcavano crescenti schiere di proletariato, essa si poneva come il contesto ‘naturale’ della modernità.
Là dove la città di tipo ottocentesco offriva all’individuo l’integrazione all’interno di una comunità legata da un insieme di legami e valori, la metamorfosi in grande metropoli la rendeva uno scenario nuovo, come la definiva Jean-Pierre Esquenazi, un labirinto rettilineo verticale e orizzontale, senza più centro, che imponeva l’anonimato e l’isolamento.
Una trasformazione che, percorrendo instancabilmente le capitali europee, avevano già cominciato a descrivere due grandi visionari come Walter Benjamin e Siegfried Kracauer. In America questa trasformazione assumeva un ritmo e una misura incomparabili.
Con il film noir, il cinema avrebbe negli anni ’40 reso indelebile nell’immaginario collettivo l’immagine della giungla d’asfalto, soprattutto grazie ai cineasti mitteleuropei rifugiati negli Stati Uniti, che la rivestirono delle ombre e delle prospettive del cinema espressionista. Ma si dimentica troppo spesso che già vent’anni prima, gli scrittori della scuola dei duri ne avevano fatto lo sfondo e il centro delle loro storie – e il termine stesso di giungla d’asfalto è il titolo di un famoso romanzo di uno di loro, William Riley Burnett.
In questo nuovo contesto, i detective e i criminali di Dashiell Hammett, Raoul Whitefield, James M. Cain, Jonathan Latimer, Lester Dent e tanti altri scrittori della prima ondata si pongono come perfetti animali urbani. Conoscono come le loro tasche le strade oscure, le bische, i locali malfamati e gli alberghi di terz’ordine, così come i luoghi di potere, tribunali, lussuosi night club, centrali di polizia, ville esclusive. E si muovono con disinvoltura interclassista in tutti i luoghi della scala sociale. La città è il loro ambiente naturale.
Al di là degli aspetti particolari, tutte le città in cui sono ambientate le storie di questo primo periodo, circa fino alla fine del secondo conflitto, concorrono a tratteggiare un’unica immagine mitica, grandiosa e tragica, in cui violenza e corruzione paradossalmente contribuiscono a conferirle una statura epica.
La San Francisco di Sam Spade, la Los Angeles di Philip Marlowe o la New York di Mike Hammer sono del tutto riconoscibili, descritte con precisione toponomastica nelle strade e nei quartieri, ma sono tutte riconducibili a questa nascente immagine simbolica.
Una realtà urbana stranamente affascinante, al contempo seducente e da incubo, dalle mille tentazioni e dagli innumerevoli pericoli. In prevalenza notturna, spesso bagnata dalla pioggia, il buio squarciato dalle insegne al neon, è un labirinto senza centro, senza passato, aderente a una pura fungibilità. Composta più che da abitazioni da non luoghi, come bar, androni, palestre, stazioni di bus, locali clandestini, commissariati, garage. percorsa da vicoli sporchi, da grandi arterie stradali gremite di folla e automobili, costituita da case alveare su cui si inerpicano scale di sicurezza e dalle cui finestre si intravedono anonimi attori di una quotidianità senza speranza. La metropoli sembra costituirsi come il doppio notturno e claustrofobico, virato in negativo, della sconfinata e selvaggia natura che dominava, fino a qualche anno prima, lo spazio della frontiera perduta, l’incontaminato Eden del West.
Cantori del mito – i fondatori
A questo punto prenderemo in esame, in una sintetica rassegna, gli autori più rappresentativi della hard boiled school e quelli dei decenni successivi, per approfondire come, attraverso la loro opera, si è andata costituendo questa immagine mitica, e come si è evoluta insieme al genere crime.
Fra quelli della prima generazione non si può che partire dal caposcuola, Dashiell Hammett.
Nelle sue pagine la città è descritta brutalmente come un luogo selvaggio in cui violenza e corruzione possono annidarsi ovunque. Emblematico in questo senso il romanzo Raccolto rosso, noto anche come Piombo e sangue, in cui Continental Op, anonimo detective della Continental, è inviato a Personville, nel Montana, per indagare sull’omicidio di un giornalista. Già a una prima occhiata, però, la realtà cittadina si presenta strana:
«Il primo poliziotto che vidi aveva urgente bisogno di farsi la barba. Al secondo mancavano un paio di bottoni all’uniforme logora. Il terzo se ne stava nel bel mezzo dell’incrocio fra le due strade principali della città, Broadway e Union street e dirigeva il traffico con un sigaro all’angolo della bocca. Dopo di che smisi di ispezionarli».
Presto Op si accorge che l’intera città, amministrazione e polizia compresi, è infiltrata da bande rivali di gangsters, a suo tempo chiamati dal boss cittadino per ‘regolare’ i conflitti sociali. Questi gli dà allora l’incarico di ripulirla. Il suo compito evolve presto in un bagno di sangue – da cui il titolo – di proporzioni tali da metterlo in crisi e riempirlo di disgusto. L’allegoria è trasparente: la città rappresenta l’epitome dello sviluppo capitalistico senza freni, in cui diventa impossibile distinguere la lotta per il profitto da quella criminale. Una visione tanto radicale non stupisce in uno scrittore di idee marxiste che, avendo fatto in gioventù il detective della Pinkerton, conosceva in prima persona la realtà di quel lavoro, in cui alle indagini poliziesche si intrecciava anche la repressione violenta delle lotte sindacali.
Nella stessa chiave è forse ancora più significativo uno dei suoi racconti, Città d’incubo. Un avventuriero, Steve Threefall, capita a Izzard, un’anonima cittadina sperduta nel deserto. Ben presto Steve si accorge che, dietro l’apparenza di normalità, si cela una realtà ben diversa. L’intera popolazione, infatti – cittadini qualunque, istituzioni, commercianti – è costituita in realtà da gangsters che si sono così organizzati per gestire al meglio i loro traffici. Così è costretto a fuggire da tutti per trovare scampo, riuscendo a salvare la pelle solo a stento. La storia ha un evidente intento allegorico: una qualsiasi realtà urbana, simile a mille altre in quei territori, cela infatti un’organizzazione criminale che ne pervade ogni anfratto, costituendone la vera identità.
L’altro caposcuola della scuola dei duri, il creatore di Philip Marlowe, Raymond Chandler, propone il tema in chiave più obliqua. Nelle sue pagine quello che conta non è tanto l’esplorazione di questa nuova dimensione, ma l’inconfondibile atmosfera con cui viene tratteggiata. Grazie alla sua scrittura, che riesce a dotare lo stile hard boiled di singolare raffinatezza letteraria, la Los Angeles di Marlowe, fra locali di malaffare, ville monumentali e bassifondi, possiede un mood che poi avrebbe permeato tanta letteratura e cinema successivi. Diventa, più che una realtà sociale, un luogo dell’anima. Difficile darne l’idea se non si conoscono i suoi libri: è qualcosa di decadente e sensuale, pervasa da uno spleen di malcelata matrice romantica, fatto di nostalgia e disincanto, che solo un poeta come Chandler poteva creare.
Un’altra voce imprescindibile per comporre questa nascente visione della realtà urbana nella sua nuova dimensione novecentesca è quella di Cornell Woolrich.
Scrittore dotato di una febbrile tendenza lirica, spesso visionaria e allucinata, Woolrich descrive la città soprattutto a partire dall’interiorità dei protagonisti e la dipinge come proiezione delle angosce che li attanagliano. Nei suoi romanzi e racconti, la metropoli è rappresentata spesso come una realtà mostruosa e tentacolare, del tutto indifferente al destino dei personaggi, persone comuni che, senza alcuna colpa, per una congiura del caso si ritrovano impigliati in una trappola mortale. Ma allo stesso tempo è un’entità che esercita una malefica attrazione sui suoi abitanti. «Voi considerate questa città semplicemente come un punto della carta geografica. Non è così? […] Io, invece, la considero come un nemico personale: e so di aver ragione. La città è infida. Vi deprime all’inizio, poi vi ghermisce e vi avvince. E io mi sento come incatenata. Ecco perché non riesco a liberarmene». Così spiega una protagonista di Si parte alle sei, romanzo incentrato sulla convulsa corsa contro il tempo dei protagonisti per riuscire a salire sull’autobus che li porterà via dalla metropoli.
Con ispirazione affine David Goodis, uno scrittore dell’era dei paperback negli anni ’50 tratteggia una Philadelphia periferica e marginale, fatta di vicoli luridi, docks minacciosi e bettole malfamate, dove i tipici losers trascinano tra i fumi dell’alcool vite senza possibilità di riscatto. Fin dai titoli – Strade senza ritorno, C’è del marcio in Vernon Street (in originale Moon in the Gutter) – l’universo descritto da Goodis è un microcosmo ai margini della metropoli, separato da un confine invisibile ma impenetrabile dai quartieri rispettabili, come un bagnasciuga su cui la risacca esistenziale ha depositato un’umanità di rottami. Al di là delle trame, spesso ripetitive e melodrammatiche, è proprio questa insistenza masochistica, come afferma Leopoldo Santovincenzo, a conferire a questi tascabili un’atmosfera riconoscibile fra mille.
Mickey Spillane, il volto feroce dell’hard boiled, dal canto suo dipinge nell’immediato dopoguerra una New York forse ancor più cupa e minacciosa. Ecco l’incipit di uno dei suoi libri più famosi, Tragica notte: «Non passava nessuno sul ponte, in una notte come quella. La pioggia era abbastanza fitta da somigliare alla nebbia, era una specie di sipario grigio e freddo che mi divideva dai pallidi ovali bianchi dei visi incorniciati dai finestrini appannati delle macchine che mi passavano accanto, fra il sibilo delle gomme… […] Procedetti così sul marciapiede d’asfalto, fra canyons torreggianti d’edifici, e non mi accorsi nemmeno…». Libro dopo libro il suo eroe Mike Hammer si muove in un territorio barbarico, torvo e violento, conducendo una guerra personale contro i criminali e i comunisti senza esclusione di colpi, anzi esaltando la necessità di rispondere alla crudeltà dei nemici con altrettanta violenza. Va notato che nei libri di Spillane l’immagine urbana che si era delineata fino ad allora nella narrativa crime viene estremizzata in chiave di exploitation, assumendo già i tratti di un’esasperazione manierista.
Un altro tassello fondamentale nella costruzione dell’immagine urbana che andiamo delineando è rappresentato da William Riley Burnett. Originatore della gangster story già negli anni ’20 con Piccolo Cesare, questo scrittore fu il primo a cogliere l’importanza del gangsterismo che in quegli anni imperversava nelle strade d’America, proponendosi di farne il cuore dei suoi libri. Nasce con lui quel filone della crime story, poi sfruttatissimo, in cui la malavita è la diretta protagonista delle storie. Ecco come un giovane Burnett, appena arrivato a Chicago, racconta le sue impressioni: «Eccomi a Chicago, dove risuonavano dappertutto colpi d’arma da fuoco, dove i marciapiedi sono coperti di cadaveri! La notte stessa del mio arrivo – mi ero sistemato in un piccolo hotel del North Side – tre garage saltarono per aria! Mi sono detto: ‘In nome di Dio, che razza di città è mai questa?».
Sembra proprio di vedere un film di gangster con Cagney o Robinson, solo che questi film erano di là da venire. Ed è sintomatico che le parole dell’aspirante scrittore non si capisce se si riferiscano a una città in guerra, o invece in festa.
In Piccolo Cesare, prototipica storia dell’ascesa e caduta di un gangster di secondo piano che vuole conquistare il potere nel racket a ogni costo, la città è qualcosa di selvaggio ma anche di vitalistico, in coerenza con l’estetica di ogni gangster story, teatro di frenetiche sparatorie, di scontri e tradimenti, di avidità smisurate, ma dal sapore intenso di un organismo in crescita turbolenta.
Vent’anni dopo, nel secondo dopoguerra, il quadro si modifica. Burnett scrive Giungla d’asfalto, storia di una rapina finita male e romanzo iniziatore di un altro filone del genere dalle future grandi fortune, la caper story, dedicata appunto alla progettazione ed esecuzione di un colpo. Il romanzo descrive con perizia il sottobosco dei rapinatori e le ramificazioni con l’ambiente cosiddetto perbene dei mandanti, nonché i dettagli della preparazione e attuazione del colpo. Ma soprattutto tratteggia un potente affresco della città, che ora è descritta come «un gigantesco giocattolo meccanico che funzionava in modo esemplare senza preoccuparsi della presenza o meno dell’uomo». Il quadro è sottilmente mutato rispetto a vent’anni prima. Ora l’intreccio tra potere legale e illegale fa parte del tessuto urbano come elemento costitutivo, e il mondo criminale non è più quello selvaggio in cui si dispiega l’individualismo sfrenato del gangster, ma, perdendo ogni aura mitica, è parte indispensabile e complementare di quello ufficiale, a dimostrare come nella civiltà capitalistica la criminalità non sia più un’anomalia, ma il cemento necessario per l’esercizio del potere.
Come scrive Jeanne-Pierre Deloux, l’intento di Burnett è quello di «affrontare il fenomeno cittadino come metafora della società americana; descrivere i differenti universi che vi coesistono, mostrare che la criminalità non è affatto un’escrescenza mostruosa della dinamica sociale, ma la sua conclusione logica».
Questa normalizzazione del crimine nel contesto urbano sarà fondamentale per tutta la fiction successiva, arrivando fino ai giorni nostri.
Chester Himes rappresenta un caso a parte in questo panorama, in quanto primo afroamericano a scrivere noir. Egli elegge Harlem a teatro delle storie dei suoi poliziotti Bara e Beccamorto. Sotto la sua penna il ghetto nero di Manhattan diviene un luogo al contempo realistico e simbolico. Descritto in modo barocco, con feroce umorismo, fin nei dettagli più miserabili, questo quartiere-città è popolato da tipi pittoreschi e incredibili; predicatori pazzi, puttane, piccoli delinquenti, drogati e proletari qualsiasi mangiano, truffano, uccidono, fanno sesso e cercano di sopravvivere in una realtà insensata. Ne risulta un microcosmo impazzito, simile a una bolgia dantesca, in cui la vita e la morte sembrano guidate da una beffarda casualità.
Con Himes la condizione del nero-americano e la questione del razzismo della società americana entrano di prepotenza nel mondo della crime fiction.
Come si vede l’esplorazione del contesto urbano che il noir sta conducendo, con gli anni si va differenziando, prende in considerazione realtà parziali, specifiche. Ma questa diversificazione sottintende che il modello urbano resta il medesimo a prescindere dalle sue particolarità geografico-sociali, e che i tratti profondi che lo caratterizzano sono ormai generalizzati.
Altrettanto a parte è il mondo descritto sempre negli anni ’50 da Jim Thompson. L’autore è texano, quindi fa parte della cosiddetta scuola meridionale, e ambienta le sue storie di follia omicida in piccole città sperdute nel profondo Sud della nazione. Qui la dimensione urbana è provinciale, squallida, anonima e priva di ogni grandezza. Si tratta di small town sonnolente, all’apparenza comunità cordiali, in cui il male si presenta come una realtà sotterranea, sonnacchiosa, ma forse ancor più agghiacciante. Esempio fra tutti la Pottsville di Pop. 1280 – dove 1.280 è il numero degli abitanti – in cui Nick Corey, lo sceriffo, si presenta come un bonaccione compiacente e pronto a tutti i compromessi. In realtà, pian piano si rivela come un paranoico assassino che non esita di ricorrere all’omicidio per vendicarsi delle angherie subite e volgere le cose a proprio favore.
Autori di transizione e moderni
Come si è detto in questi anni il genere andava allargando l’osservazione a contesti diversi. Sempre descritti con esattezza sociologica che li rende subito riconoscibili, questi tipi diversissimi di città si riconducono comunque alla matrice originaria. Come se la condizione urbana di cui parlavamo all’inizio fosse diventata oramai pervasiva, diffusa fin negli angoli più sperduti del territorio americano. L’anomia e la frammentazione che caratterizzavano la condizione metropolitana nascente negli anni ’20 sembrano ora accomunare qualsiasi angolo del continente, ma sta scomparendo il carattere di crescita inarrestabile che la caratterizzava in origine, la mutazione è irreversibile, e si cominciano a scorgerne gli effetti.
Dopo quegli anni, col tramonto delle edizioni popolari su cui il noir era cresciuto, la crime story cambia pelle. Le storie diventano più complesse, i sottogeneri si contaminano e, a volte, cresce l’ambizione ‘letteraria’. Si entra nella contemporaneità del genere.
Nel trattare di autori più vicini a noi non bisogna dimenticare i profondi sconvolgimenti che attraversano la società dopo la fine degli apparentemente tranquilli anni ’50, l’era di Eisenhower. Basti pensare, solo per citare i fenomeni più macroscopici, come l’esplosione della questione nera, la guerra nel Vietnam, le proteste studentesche e l’iniziale diffusione capillare della droga.
Gli esempi diventano infiniti, e qui ci limitiamo a una rassegna molto parziale, ribadendo che il sottotesto di questa letteratura, pur evolvendosi, si mantiene costante.
Da un lato la profondità rappresentativa si accresce, in alcuni casi diventando quasi un’epica della città. Compare la dimensione storica, per la quale autori come Ellroy o Lehane si dedicano a grandi affreschi di precisi periodi storici di Los Angeles o Boston, con l’intento di proporre una sorta di immagine complessiva dell’America; dall’altro, la precisione descrittiva approfondisce l’intento documentario, e l’esplorazione di determinati contesti urbani si fa sempre più analitica e attenta.
Allo stesso tempo, per apparente paradosso, la città come entità simbolica mantiene la sua aura mitica, il suo simbolismo negativo, ma in modo differente. Oramai scomparso il vitalismo barbarico che emanava dalla metropoli dei roaring twenties, lasciata per strada ogni speranza di redenzione che a volte trapelava nelle storie hard boiled, la città è come esplosa in una miriade di frammenti bizzarri, senza più alcun legame fra loro. Ci troviamo di fronte a un deserto di macerie.
Anche il Male, il crimine, ha cambiato sembianze. Se è quello organizzato, ora è mimetizzato dietro l’anonima efficienza delle grandi società finanziarie, tanto da non esserne distinguibile. Se è quello individuale, diventa l’incarnazione della crudeltà senza scopo, della malvagità pura, soprattutto nel personaggio emblematico del serial killer, che imperversa in queste pagine a partire dai capolavori di Thomas Harris. Una sorta di nefasta coazione a ripetere che si presenta come, appunto, seriale, cioè sommamente anonima e ripetitiva, priva di qualsiasi scopo. Altrimenti c’è la criminalità di strada, onnipresente, efferata, un’anarchia rovesciata di segno che non mira a sovvertire alcun ordine ma, anzi, sembra costituire il nuovo ordine quotidiano. Il contesto urbano si ramifica come un’escrescenza cancerosa senza centro, e le sue cellule, i personaggi che percorrono queste pagine, sono altrettanto impazziti. Nella massa formicolante delle etnie, delle stratificazioni sociali, delle condizioni di vita le più disparate e squallide si intravede un affannarsi inutile, disperato, alienato e di atroce solitudine. Violenza, corruzione, droga, perversioni, rapacità, avidità di denaro ad ogni costo sembrano costituire una sorta di normalità quotidiana, indifferente e scontata. Lo sfondo assume via via tonalità apocalittiche, non lontane da quelle che caratterizzano le storie post-catastrofiche di tanta fantascienza coeva.
Nel periodo di transizione tra pubblicazioni popolari e thriller da libreria, in cui il genere colonizza le edizioni cartonate, impossibile non menzionare Ed McBain. Il famoso e prolifico autore italoamericano – il suo vero nome è Salvatore Lombino –, oltre a portare in auge il police procedural con la saga dedicata ai poliziotti dell’87° Distretto, inventò di sana pianta una città di fantasia come teatro delle loro indagini. La chiamò l’Isola, con trasparente riferimento a Manhattan. L’affresco che romanzo dopo romanzo – una sessantina – prendeva così corpo è senz’altro grandioso. Sfruttando abilmente la tecnica della serialità l’immaginaria l’Isola acquista un’esistenza autonoma – e c’è uno studioso, George N. Dove, che ne ha ricostruito in modo minuzioso la topografia. L’Isola è forse l’apice della rappresentazione della città del noir classico, così come ne abbiamo parlato in precedenza, e insieme il punto di svolta verso le concezioni più moderne. Prova ne sia che sviluppa al massimo grado le caratteristiche di metropoli tentacolare e anonima, dominata dalla violenza e dall’alienazione, ma al tempo stesso conserva anche un suo fascino perverso, tanto che a volte McBain la paragona esplicitamente a una grande meretrice, capace di portare alla perdizione chi cade nella sua rete, ma pur sempre dotata di una capacità irresistibile di attrazione.
Charles Willeford, vero outsider del noir made in USA, rappresenta forse il punto di svolta. Della medesima generazione di McBain, dopo alcuni eccentrici crime apparsi su edizioni minori, arrivò al successo più tardi, negli anni ’80, con la tetralogia dedicata al bizzarro agente Hoke Moseley, ambientata a Miami. Qui è rintracciabile nella forma più lampante la versione moderna della città che poi avrebbe ispirato tanti autori contemporanei. Nei libri di Willeford, Miami diventa l’emblema di un paesaggio urbano sconfinato e totalmente assurdo.
«Caos» disse il sergente Hoke Moseley a Elita Sanchez «è l’acronimo per orientarsi a Miami. […] Non c’era bisogno di spiegarle che C stava per corsie, A per autostrada, O per ostacoli e S per svincoli. Non era detto che le strade corressero in linea retta. A volte si avvolgevano su se stesse in semicerchi e arabeschi senza senso» (Tempi d’oro per i morti, 1985).
Ovviamente questa immagine si riferisce anche alla struttura caotica delle storie che leggiamo, nonché alle vite altrettanto prive di direzione e significato dei personaggi.
La città diviene un puzzle di non-luoghi, priva di un disegno riconoscibile, di qualsiasi identità urbanistica che non sia illusoria e transeunte. La condizione urbana, e quindi esistenziale, diviene definitivamente alienata, un puro nonsense.
In un’ottica convergente, anche se diversa, si pone anche Lawrence Block. Scrittore ingiustamente dimenticato, Block situa a New York le storie dell’antieroe Matt Scudder. Con una scrittura sommessa, minimalista, ci fa entrare in una metropoli in cui la violenza fa parte dell’orizzonte comune (Otto milioni di modi per morire è il titolo di uno dei suoi romanzi più belli), in cui la criminalità è entrata a far parte della normale vita quotidiana, in cui è diventato difficile distinguere fra buoni e cattivi. I confini fra bene e male sono diventati evanescenti, relativi, privi di punti di riferimento certi. Non assenti, ma continuamente da rinegoziare nella propria coscienza. La New York che fa da sfondo emerge come contesto contraddittorio: non privo di attrattive, pieno di storia segreta – in cui traspare l’amore dell’autore per la sua città – di microcomunità dotate di un qualche senso del legame, ricco di infinite differenze che ne costituiscono il fascino. New York è una città cronicamente malata, in cui la speranza sembra un residuo inutile, in cui l’orizzonte esistenziale dei personaggi è gravato da una cappa plumbea, per cui è possibile solo rifugiarsi negli interstizi del suo tessuto per salvaguardare ciò che resta di un senso. La tonalità di fondo che ne risulta è melanconica e desolata, grigia come il protagonista di queste strane indagini, che si arrangia a fare il suo lavoro scegliendo i clienti dal tavolino di un bar solo dopo aver valutato, caso per caso, se si sente motivato ad accettare il cliente.
Fra i tanti che non possono essere citati in questa rassegna, si impongono più vicino due autori, sia per l’importanza e la qualità della loro opera sia perché entrambi tematizzano con grande forza il tema della città.
James Ellroy non ha certo bisogno di presentazioni. Da quando uscirono i suoi primi romanzi, ma soprattutto con La Dalia Nera, Ellroy si è imposto come la voce più innovativa e potente della narrativa crime. Ha inventato un nuovo modo di concepire il genere, in cui mescola abilmente la ricostruzione storica, frutto di accurate ricerche, e la fiction. Dotato di una scrittura sincopata, jazzistica secondo alcuni, e capace di giocare su svariati registri, Ellroy concepisce storie complesse e intricate, piene di sottotrame e personaggi, dichiarando senza modestia l’ambizione grandiosa di scrivere una colossale controstoria degli Stati Uniti a partire da quella della città di Los Angeles.
A tutt’oggi questo sforzo ha prodotto due quadrilogie e migliaia di pagine, incentrate sul periodo del secondo dopoguerra nella città degli angeli.
Non c’è dubbio che la visione urbana di Ellroy sia la più apocalittica mai apparsa nella letteratura di genere. Non è facile fornirne un quadro sintetico, date le dimensioni dell’impresa.
Fra poliziotti tormentati o corrotti, sottobosco di Hollywood, piccoli trafficanti, attricette, figure di potere, personaggi di fantasia o realmente esistiti, questi romanzi sono popolati da un’umanità in perpetuo conflitto reciproco, in cui la ricerca del colpevole diviene un’ossessione autodistruttiva, che comporta in chi la persegue una vera di discesa agli Inferi. Il quadro che ne risulta è una lotta senza esclusione di colpi di tutti contro tutti. Per il potere, per il denaro o il sesso, per ossessioni private o per ambizioni inconfessabili, tutti in preda a una furiosa pulsione etero e autodistruttiva. Los Angeles diventa la città per antonomasia, ed è dipinta a tinte terribili ma potenti. Corruzione a tutti i livelli, inganni, giochi di potere, violenza scatenata sono endemici, ormai connaturati al tessuto urbano. Invadono i palazzi del potere, le istituzioni così come le periferie, i bassifondi o i luoghi di malaffare. La giungla d’asfalto di Burnett si è trasformata in una bolgia di pulsioni primordiali senza freni inibitori, di proporzioni bibliche. A tratti sembra quasi che l’autore si compiaccia nello spingere sempre più lontano il proprio nichilismo, ma il risultato è senza dubbio impressionante.
Da una prospettiva differente, ma con non minore rilevanza rispetto al tema che ci interessa, si pone un autore di notorietà assai minore, almeno qui da noi.
Sto parlando di Richard Price. Attivo da più di quarant’anni, Price inizialmente si costruì una reputazione soprattutto come sceneggiatore per cinema e TV. Solo tardi arrivò alla sua vera passione, la letteratura, dimostrando tutto il suo valore. Della sua produzione sono disponibili nella nostra lingua solo pochi titoli, ma li consiglio a occhi chiusi.
Si tratta di romanzi senza personaggi fissi, ambientati a New York, anche quando la città si chiama con un nome di fantasia. Che si narri di venditori di strada di crack, di una squadra di poliziotti parecchio problematici o di gang giovanili, il primo aspetto a colpire il lettore è l’esattezza stupefacente nella descrizione degli ambienti, che con evidenza Price conosce a menadito. Su questo appare imbattibile. Tale realismo – che ritroviamo nei dialoghi e nei personaggi – ha un taglio documentaristico del tutto scevro di stereotipi. Anzi, veniamo a conoscere realtà sociali poco frequentate sin qui, con una immediatezza in presa diretta che ha del sorprendente – anche se a un lettore non americano probabilmente sfugge la maggior parte dei dettagli di cui l’autore è generoso, e che appaiono comunque di prima mano. La New York messa in scena è in prevalenza quella delle periferie e degli slum. Casermoni popolari, quartieri degradati, drugstore e supermercati, locali di quart’ordine. Storie di ordinario squallore. Ne promana, infatti, un senso non tanto di deriva, di possibilità perdute, quanto di inevitabilità, come un dato di fatto del tutto scontato. Per contrasto con tanto degrado, tuttavia, è sorprendente la capacità di Price di restituire la vitalità e l’umanità che riescono a esprimersi in condizioni di vita talmente squallide. Ciò riguarda non soltanto i personaggi, dai principali ai secondari, ma anche il contesto stesso. Di questi quartieri si viene a conoscere un’insospettata stratificazione storica, etnica e sociale. Anche l’ambiente più umile, come un negozietto o un palazzo fatiscente, nascondono una storia, che l’autore ci fa conoscere con maestria. Certo non la storia con la ‘s’ maiuscola dei quartieri centrali o degli edifici di lusso, ma quella umile e quotidiana delle vite vissute e come depositate nella stratificazione cronologica, capace di rivelare il volto più autentico di un contesto che sembra fatto solo di rovine.
Non vorrei essere frainteso. Lo sguardo di Price non è ottimista. anzi. Le sue descrizioni lucidissime e dettagliate non attenuano affatto l’implicita critica di un’organizzazione urbana disumana. Ma la qualità del suo sguardo è scevra da ogni giudizio, e perciò riesce a rintracciare anche al livello più infimo delle condizioni di vita gli elementi di umanità residua che, nonostante tutto, sopravvivono fra le macerie.
Ci fermiamo qui per quanto riguarda questa rapida rassegna di autori che hanno esplorato la moderna condizione urbana nella crime story americana. Resta da definire, in breve, lo sfondo ideologico di questa esplorazione, le motivazioni profonde che sottendono la visione pessimistica e ambivalente della città che abbiamo delineato.
Due chiavi di lettura
Da una prospettiva di critica sociale, è evidente che l’immagine complessiva della metropoli che risulta dalle pagine del noir statunitense è senza dubbio leggibile come una denuncia radicale della città come epitome dello sviluppo capitalistico della società. Ciò è vero ovviamente quando gli autori si richiamano in modo esplicito a una visione marxista, con i suoi concetti di alienazione, sfruttamento, sopraffazione di classe, come nel caso di Hammett, Thompson o Finnegan, o anche nel caso di scrittori genericamente liberal, come Ross Macdonald o Dorothy B. Hughes. Ma rimane vero, paradossalmente, anche quando, gli scrittori hanno un’impostazione conservatrice, ed è il caso di Chandler, o francamente reazionaria come Spillane o Ellroy. La città rappresenta sempre il culmine di un’organizzazione sociale malata, delle sue contraddizioni, della logica del profitto ad ogni costo che genera come inevitabili fenomeni la corruzione generalizzata, l’emarginazione delle masse di esclusi, la riduzione in merce dei rapporti umani e l’alienazione dell’individuo.
È appunto questa prospettiva che spiega come tale visione, specificamente americana, sia potuta diventare universale, uscendo dai confini nazionali per divenire valida a qualsiasi latitudine, a partire dalla diffusione del genere fuori dall’America. Oggi che il noir non ha più confini e si esprime in modo altrettanto incisivo in Europa come in America Latina, in Estremo Oriente come in Russia, qualsiasi sia la nazionalità dell’autore, non si fa fatica a riconoscere la medesima matrice nella descrizione di qualsivoglia realtà metropolitana.
Altrettanto pertinente, tuttavia, ci sembra la concezione espressa da uno studioso francese, Benoit Tadié, che nel suo Le polar américain – La modernité et le mal sottolinea l’importanza del protestantesimo calvinista come influenza profonda di tale fenomenologia.
Sottolineando la profondità dell’influenza del puritanesimo calvinista, inteso non tanto come religione ma come ideologia implicita, su tutta la cultura americana, Tadié vi rintraccia l’origine di quanto abbiamo sin qui esaminato. La concezione puritana, infatti, pone l’accento sulla depravazione innata del peccato originale, sull’ascendente del male, sull’alienazione di chi non è toccato dalla grazia. La corruzione e la depravazione insite nella natura umana, la regressione della civilizzazione verso la giungla, diventano espressioni della caduta dell’uomo allontanatosi da Dio. Nella cultura americana il luogo privilegiato di questa impresa del male diventa la città. A essa si oppone la vita rurale, vista sul piano simbolico come luogo edenico di salvezza, mentre la corruzione mondana dopo la caduta si concentra nel nuovo contesto cittadino. Jefferson loda esplicitamente le virtù della popolazione rurale, degli eletti che lavorano la terra, in contrapposizione alle grandi folle delle città che l’industrializzazione sta generando «come un cancro che divora rapidamente il cuore delle sue leggi e della sua costituzione».
Da qui, secondo l’analisi di Tadié, il pessimismo radicale che impregna la visione della realtà urbana. In questa prospettiva, la crime fiction rovescia la mitologia della frontiera (anch’essa un tratto portante dell’immaginario americano), narrando una continua discesa all’inferno (urbano) in luogo della leggendaria corsa verso i territori inesplorati dell’Ovest.
Questa prospettiva spiegherebbe la differenza che è riscontrabile, nel panorama complessivo della narrativa poliziesca, fra nazioni in cui l’eredità del puritanesimo calvinista è rilevante, e quelle, come per esempio l’Italia o la Francia, dove è presente l’influsso del cattolicesimo, in special modo proprio per quanto riguarda il modo di concepire la realtà cittadina. Ma l’approfondimento di questa differenza richiederebbe ben altro spazio e deve quindi essere rimandato.
Pasquale Pede (Roma, 1951) psicoanalista. Appassionato cronico di crime fiction, in particolare statunitense e francese, ha scritto sull’argomento Le radici del Noir (Fondazione Rosellini, 2009) e numerosi articoli e saggi su volumi e riviste di settore, recentemente ha partecipato al volume collettivo Guida alla letteratura Noir (Odoya, 2019). Dal 2015, anno della sua fondazione, partecipa alla kermesse multiforme sul noir di Campobasso Kiss me deadly.