La demografia serve al futuro prossimo più della politica
La demografia è un’interessante chiave per accedere allo spirito del tempo e per descrivere e, potenzialmente, incanalare il futuro. La demografia è predittiva come può esserlo l’economia e come non lo è la politica.
Serve a capire che razza di Paese diventerà l’Italia, che tipo di ridimensionamento subirà l’Europa, cosa dobbiamo attenderci da flussi migratori in continua evoluzione. Un detto sempre efficace ci ricorda che “Se non ci occuperemo dell’Africa, sarà l’Africa a occuparsi di noi”. Gustosi ritornelli si intersecano sul problema: “aiutiamoli a casa nostra”, “aiutiamoli a casa loro” se non proprio il definitivo e leghista “prima gli italiani” che chiude l’uscio a qualunque dialettica.
Vi interesserà sapere che la metà della popolazione mondiale (circa sette miliardi) vive in grandi metropoli. Il fenomeno si consolida e sarà ancora più evidente nel 2050, quando sulla terra vivranno 10 miliardi di individui. Il fenomeno Greta Thunberg ben rappresenta la preoccupazione climatico – ambientale anche rispetto a questo “affollamento”. Le principali 14 prime città del mondo per popolazione racchiudono circa 1/35esimo della popolazione mondiale. Dunque Roma ci apparirà per popolazione una piccola capitale rispetto a Il Cairo, a Lagos, Shanghai o Pechino, occupando solo il 71esimo rango in una graduatoria fruibile su Wikipedia. Ma tutto è relativo perché, nell’ambito del vecchio continente, Roma mette insieme la superficie di Parigi, Stoccolma, Bruxelles e Lisbona. Di qui il grande irrisolto e non secondario problema delle periferie – pare che l’ultimo a pensarci tra i sindaci sia stato il “viterbese” Petroselli – . Cosa lega oggi Tor Bella Monaca a via del Corso se non il casuale assemblaggio nello stesso agglomerato urbano? Possono essere gestite con lo stesso criterio di socialità e di ordine pubblico? Come potete immaginare questa discrasia richiede una difficile e specifica peculiarità.
Omologamente a questa concentrazione metropolitana mondiale (un trend irreversibile) i due/terzi della popolazione italiana (61 milioni di abitanti) risiedono in città più o meno grandi. Ci sono Paesi che chiudono i battenti. Dove sparisce la caserma dei Carabinieri, l’ufficio postale, infine il negozio di alimentari e il bar, gli unici luoghi di ritrovo e socializzazione. Non è un caso che oscuri piccoli comuni della Calabria e della Sicilia – il primo è stato Salemi per iniziativa di Sgarbi – mettano in vendita case al prezzo simbolico di un euro per cercare di scongiurare la sparizione di servizi e tradizioni. L’Italia, in un continente di 500 milioni di abitanti (numero più o meno stabile, compensando i bassi indici di natalità con la controllata immissione di migranti, più o meno regolari), è l’unica nazione che ha circa 100 città da 60.000 e più abitanti (non tutti capoluoghi).
Questa constatazione statistica ha un valore pregnante per quello che, una volta, con termine desueto, si definiva ‘il campanile’ ovvero la storia, l’antropologia, l’arte, il folclore, di quel luogo. Pensate a quello che può significare solo in ambito sportivo (vedi derby) o in termini di progettato federalismo (il tema delle Province, il tema delle Regioni). L’Italia, in termini di censimento, è un po’ lo specchio fedele di quanto avviene in Europa. Italiani giovani (Erasmus) che lasciano il Paese; italiani anziani che per miglior trattamento fiscale si spostano in Portogallo, numeri compensati dall’arrivo degli stranieri, comunitari e non, oggi calcolati in un universo di sei milioni, di cui 600.000 non in regola. Il tasso di fecondità in Italia è in costante calo. Secondo l’Istat, nascono 1,28 figli per donna e si tratta di uno degli indici più bassi all’interno dell’Unione Europea, mentre gli over 65 sono aumentati di 30 volte dagli anni sessanta. Il tasso naturale che assicurerebbe continuità è stato definito nel 2,1 e siamo ben lontani da questa soglia.
Evidenza chiara, la famiglia è una struttura sempre più debole e meno garantita. Ci si si sposa sempre più tardi e quindi più tardi si mettono al mondo (pochi) figli. Un matrimonio in Italia dura in media 7,5 anni e le unioni civili hanno sovrastato ormai lo scarso ricorso alla funzione religiosa, conseguenza di un numero sempre più modesto di italiani che frequentano regolarmente le Chiese (universo stimato in 7 milioni di persone). L’Italia si gode il privilegio del secondo posto al mondo (primo è il Giappone) per aspettativa di vita, ormai assestata oltre gli 85 anni per la donna e oltre gli 80 per l’uomo con una forbice in crescita tra i due sessi e, per alcuni versi, non ancora completamente spiegata dalla scienza. Il riconoscimento dell’esistenza in vita di 16 milioni di anziani (più di un italiano su 4 lo è) dovrebbe spingere il legislatore a immaginare un Paese diverso. Un mondo di servizi, di potenziata sanità, di riconoscimenti maggiori per il volontariato e per il terzo settore.
Con l’utilizzo del lavoro intellettuale (se non manuale) di una buona percentuale di anziani che possono costituire “cittadinanza attiva” e che vorrebbero essere attivi protagonisti in una politica dei “beni comuni” ancora non attivata. C’è anche la deriva di una conseguenza economica della scarsa natalità. Gli italiani oggi posseggono 8.500 miliardi (di cui 4.300 di origine monetaria) ma il diradamento degli alberi genealogici ha portato a individuare una potenziale ricchezza senza eredi e quindi senza sbocchi pari a 800 miliardi. Un bene inutilizzato che pure potrebbe risolvere sia pure parzialmente il problema del debito pubblico se opportunamente incanalato attraverso una riforma dell’obsoleto sistema della successione.
Ma torniamo al “grande come una città”, a quanto è grande Roma, a quanto è grande la nostra municipio. Nella capitale il top è la VII – Appio Latino, Tuscolano, Cinecittà – con 307.00 abitanti, mentre la nostra – la III –, con 204.000 abitanti, si colloca ai piedi del podio, al quinto posto. L’Appio da solo vale l’undicesimo posto nella graduatoria delle città italiane più popolose alle spalle di Catania, mentre Montesacro se la batte con la città di Trieste, all’altezza della quindicesima piazza. Ne discende che Christian Raimo potrebbe confrontare il budget del ‘suo’ assessorato alla Cultura con quello del grande Comune giuliano. A spanne, 34.000 euro rispetto a quanto? La domanda retorica rimanda al debito irrisolto del Comune di Roma e alla spessa contraddittoria dialettica tra Comune di Roma e circoscrizioni, tra vincoli di bilancio e un generoso ‘voler fare’ sul territorio.