«[…] C’era un gruppo lanciato a tutto volume nel nuovo stile robop: una macchina elettronica sceglie una sequenza arbitraria di toni e i musicisti la seguono con le loro roche performance individuali».
Fritz Leiber, Le maschere, 1950
“Fantarock”, chi era costui?
O meglio… cos’è? Ok, parlare di rock vuol dire parlare di una galassia musicale in cui c’è dentro di tutto: dalle canzonette di Elvis al maledettismo di Marilyn Manson, dai Beatles agli Stones, dal folk rock di Dylan, Crosby, Neil Young fino ai cantautori italiani, a Tom Waits e Springsteen, dall’hard di Deep Purple e Led Zeppelin al metallo pesante di Iron Maiden e Metallica, le aeree ricercatezze di Pink Floyd e Genesis, la furia iconoclasta dei Sex Pistols e il reggae bianco di Clash e Police, l’elettronica glaciale di Brian Eno, i robotici Kraftwerk e i Tuxedomoon, l’epica degli U2, il funk di James Brown, la disco di Moroder e dei fantascientifici Rockets, fino al gioco ricombinatorio di tutto quanto sopra, cui l’hip hop e poi la techno da rave hanno dato vita grazie alla tecnologia cut-up del campionamento.
Ovvio che, in questa galassia, gli autori dotati di una qualche consapevolezza letteraria abbiano attinto liberamente a modelli letterari da ogni angolo della storia della pagina scritta: Shakespeare, William Blake, E.A. Poe, T. S Eliot, H.P. Lovecraft, Huxley (The Doors of Perception), Orwell (il citatissimo 1984) e, perché no, anche Asimov, Bradbury, Clarke, come Bukowski, Burroughs, e poi i cyberpunk, i minimalisti, Stephen King e Joe R. Lansdale e così via. Potremmo scrivere – e non sarebbe male farlo – una storia dei collegamenti fra rock e romanticismo (di lì il maledettismo di tante rockstar); un’altra di quelli fra rock (ancor più jazz e blues) e narrativa gialla/noir/hard boiled; o una – sì, lo faremo! – degli ammiccamenti del rock (e della disco) al porno, ce n’è a pacchi. Come ce n’è già una fra rock (specie metal) e horror by Vitolo/Lazzati (Arcana, 2010).
E allora perché focalizzarsi proprio sui collegamenti tra rock e fantascienza? Perché il rock ha sempre avuto l’ambizione di parlare, anzi di essere l’esperanto del futuro. Quindi col genere di fiction che ha il futuro come oggetto principe di speculazione deve avere un rapporto particolarmente simbiotico. E, infatti, razzi, UFO, viaggi spaziali, esplorazione di nuovi mondi e nuove dimensioni, creature fantastiche e mostruose hanno abitato la scrittura rock e le sue copertine, poi i costumi e le scenografie dei live show, i video clip, fino a saldare un’osmosi a molti livelli col grande cinema (e anche col fumetto): colonne sonore, cantanti-attori, titoli ispirati a film.
Questa liaison, il rock’n’roll l’ha coltivata fin dai suoi primordi negli anni ’50, quando era solo una forma di musica da ballo per teenager senza pretese culturali, ma si era nella grande corsa allo spazio di USA e URSS, i ragazzi dicevano ‘l’astronauta’ quando gli chiedevi cosa volevano fare da grandi, Mondadori lanciava Urania in edicola, ancor oggi la principale collana editoriale dedicata alla fantascienza in lingua italiana, il design di tendenza si definiva ‘aerodinamico’, guardare allo spazio era di moda, anche se con canzonette dai testi leggeri leggeri, con titoli come Two Little Men in a Flying Saucer (nientemeno che Sua Maestà Ella Fitzgerald!), Satellite Rock, Flying Saucer Boogie, Sputniks and Mutniks, Trip to the Moon e così via).
Chitarre nello spazio
«L’ometto gli porse il nuovo strumento, una chitarra con degli strani tagli, un ponte ad alta precisione, una tastiera che pareva scivolargli tra le mani come se fosse viva e lo amasse.
[…] L’ingegnere elettronico osservò il diagramma. – Non funzionerà – disse.
funzionerà – disse Drusilla. – Siete in grado di costruirlo? – Be’, sì, ma non si è mai visto un regolatore di tensione come questo. Da dove verrebbe la corrente… […]
– Voi costruitelo – disse lei.
Lui lo costruì. Funzionò.
[…] Chan, se ti chiedessi di suonare questo tema, e poi di… di dipingerci sopra con la chitarra, questo avrebbe un senso?
– Quello che dici tu ha sempre un senso.>
Lei gli sorrise. – Bene, suona quel tema e, insieme, suona la crescita di un albero.
(…) Lei chiuse gli occhi. Quasi inaudibilmente, canticchiò qualcosa. Poi disse: – Insieme, metti tutti i dettagli di un albero già cresciuto. […]».
Theodore Sturgeon, L’educazione di Drusilla Strange, 1954
La vera esplosione del rock che guarda alla fantascienza come spazio infinito per ampliare i propri orizzonti si verifica dopo il giro di boa del decennio seguente, con la fioritura della policroma stagione psichedelica: Bob Dylan approfondisce le ambizioni letterarie dei testi delle canzoni inventando il folk rock, i Beatles di Sgt. Pepper, dopo il viaggio mistico in India, ampliano pazzescamente la tavolozza strumentale (già arricchita da Revolver), lo stesso anno i Pink Floyd proiettano tutto questo verso lo spazio profondo e con loro Jimi Hendrix, i Byrds (David Crosby è da sempre un gran lettore di s/f), Frank Zappa (che un b-movie fantascientifico tentò pure di realizzarlo), i Jefferson Airplane (poi Starship), persino un gruppo che ha scelto di chiamarsi H.P. Lovecraft, come il Solitario di Providence, gli inglesi Soft Machine (che il nome lo prendono da un romanzo di William Burroughs, il quale le la s/f la frulla per i suoi esperimenti radicali contro il linguaggio) o i ‘terragni’ Rolling Stones di 2000 Light Years from Home, fino ai King Crimson di 21st Century Schizoid Man e al giovane David Bowie che, prima di ‘cadere sulla Terra’ in pellicola, ottenne il suo primo successo da classica con Space Oddity, tragica ballata spaziale assai kubrickiana.
Nel giro di tre anni, diciamo circa dal 1966 al 1969, la musica rock fa un balzo nel futuro che potremmo dire ‘wellesiano’, conquistando una maturità compositiva e una libertà esecutiva e improvvisativa che la musica cosiddetta classica europea aveva raggiunto nel corso di un’evoluzione durata diversi secoli, dal Medioevo al Novecento di Schönberg e Webern, e il jazz aveva rimontato impiegando alcune decine di anni, da quelli ruggenti dei gangster, del Proibizionismo e del Cotton Club al 1961 di The Free Jazz di Ornette Coleman e poi alle Sun Ship e Stellar Regions di Coltrane, al Miles In The Sky di Davis, e agli Heliocentric Worlds di Sun Ra, il jazzista più fantascientifico della storia, sempre paludato come una sorta di faraone cosmico – diceva di provenire da Saturno!
Un balzo che è culturale ma anche tecnologico, perché si svolge non solo nella prima epoca della storia umana in cui si diffondono un po’ in tutte le case degli apparecchi per la riproduzione di musica registrata, cioè dopo le radio i giradischi, cui farà seguito il successo planetario delle audiocassette prima dei CD e poi dei formati digitali cui ormai siamo tutti abituati; ma anche in quella in cui gli impianti di registrazione attraversano un’evoluzione a propria volta fantascientifica. Per fare un esempio, il primo album dei Beatles, Please Please Me, fu registrato nel 1963 su un impianto a due tracce, una per gli strumenti e una per la voce del cantante, un paio di brani addirittura in mono. Eleanor Rigby, nel 1966, già sfoggiava un ardito arrangiamento di George Martin su doppio quartetto d’archi (e nessuno strumento ‘rock’ come chitarre o batteria), che però andavano compressi su sole quattro piste; così il primo quartetto fu registrato su quelle quattro disponibili, poi mixato su una – bouncing –, in modo da lasciare le altre tre libere per registrare il secondo quartetto e poi il cantato.
Le tracce disponibili diventano otto nel 1968, anche se già l’anno prima la Ampex sperimentava a New York un impianto a sedici. Nei primi anni ’70 le piste utilizzabili contemporaneamente dai musicisti aumentano rapidamente a 24, poi fino a 32. Oggi, un programma mixer audio a disposizione anche di un musicista dilettante consente di mixare un numero praticamente illimitato di tracce audio, vocali e musicali. Così sono nati alcuni album solisti di Paul McCartney, ma anche di Stevie Wonder, Prince o Trent Reznor (Nine Inch Nails), in cui leggiamo nelle note che il musicista ha suonato da solo praticamente tutti gli strumenti; oppure album molto complessi e ricercati, dai Pink Floyd agli Emerson Lake & Palmer fino a Björk o molti rapper contemporanei, in cui vengono stratificate decine di tracce, accostando percussioni etniche ad ampie orchestre sinfoniche, intrecciate selve di campionamenti di registrazioni preesistenti, chitarre elettriche riprocessate attraverso sintetizzatori e…
Tastiere innaturali
«Esaminai attentamente il resto della scultura. Era tutto uno sbocciare di nuovi germogli metallici: archi, punte uncinate, duplici spirali aguzze, che distorcevano la statua originale in una costruzione più massiccia ed elaborata cui faceva sussurrante alone un’accozzaglia di suoni semifamiliari, frammenti di una decina di preludi e sinfonie. Tastai uno dei sostegni e la pulsazione mi giunse più vigorosa, un battito costante che percorreva il metallo, come spingendosi innanzi sull’onda della propria musica.
(…) Fra un po’ canterà l’edificio intero».
J.G. Ballard, Il sorriso di Venere, 1957
Già, il sintetizzatore: in certo senso, il simbolo stesso del fantarock. Lo strumento ‘innaturale’ per antonomasia fu creato negli anni ’40 nei laboratori Novachord della Hammond Organ Company, non ebbe subito particolare fortuna a causa degli alti costi, ma trovò poco tempo dopo fertile impiego proprio nelle colonne sonore dei film di fantascienza, in quanto strumento in grado di produrre sonorità credibilmente aliene per accompagnare il volo di UFO e astronavi nello spazio, l’approssimarsi di mostri minacciosi e così via.
Era il figlio evoluto del Theremin, inventato nel 1919 (poco dopo la pubblicazione de L’arte dei rumori di Luigi Russolo) dal fisico sovietico Lev Sergeevič Termen, che si basa su oscillatori i quali – a seguito dello spostamento delle mani del musicista – producono frequenze udibili anche senza il contatto fisico dell’esecutore con lo strumento (da cui la sua spettacolarità quasi magica nelle performance dal vivo).
Il theremin è stato utilizzato anche in numerose colonne sonore di film, tra cui La moglie di Frankenstein di James Whale, Io ti salverò di Alfred Hitchcock e Ultimatum alla Terra di Robert Wise, venendo poi recuperato come una stramberia vintage da giganti del pop rock come Jimmy Page, che lo suona in Whole Lotta Love dei Led Zeppelin, o Michael Jackson, che lo inserisce nell’horroristica Thriller.
Risale al 1956 la prima colonna sonora interamente elettronica, la firmano Bebe & Louis Barron per il film Il Pianeta Proibito di Fred Wilcox, anche se in realtà i due coniugi futurmusicisti non utilizzarono un vero sintetizzatore, bensì una circuitazione valvolare originale in grado di produrre timbriche per l’epoca inusitate. Ma ormai il dado era tratto: presentato al Monterey Pop Festival nel ’67, il sintetizzatore Moog viene adottato da Doors (Strange Days), dai Byrds (Space Odyssey), dai Pink Floyd (Interstellar Overdrive), dai Beatles e a cascata da tutti i musicisti già citati come protagonisti della rivoluzione psichedelica, che nelle visioni della fantascienza trovava il nutrimento culturale alla propria ricerca di nuovi mondi e dilatazioni della mente. E poi dall’ulteriore ampliamento di quelle prospettive da parte del progressive rock dei citati Floyd, Crimson, ELP, Genesis, Van Der Graaf Generator, Mike Oldfield (utilizzato da Friedkin per la colonna sonora de L’Esorcista), dal Miles Davis elettrico del jazz rock (la cui luce continua a riverberare per es. fino all’ultimo album The Universe Inside dei Dream Syndicate, uscito in aprile 2020) e dai suoi epigoni Weather Report, Herbie Hancock, Chick Corea, dai tedeschi Tangerine Dream, autori di numerose colonne sonore fanta/horror (da The Sorcerer di Friedkin a Il buio si avvicina della Bigelow) e Popol Vuh, a lungo legati a Werner Herzog (Nosferatu); e poi ancora dalla ambient music siderale di Brian Eno.
Ma non basta: da metà anni ’70 assistiamo a una nuova svolta, proprio in quest’ambito cosiddetto kraut rock. La musica robotica e interamente elettronica dei pure teutonici Kraftwerk, in cui anche le ritmiche sono prodotte dalle prime drum machine, porta una rivoluzione epocale nel pop, entra in discoteca colla dance di Moroder, folgora il duo Bowie/Eno che a loro s’ispira per le sonorità berlinesi di Heroes, brano/album/trilogia (appunto detta ‘berlinese’) di schiacciante influenza sulla nascente new wave inglese (e non solo) da lì in avanti, sicché di lì discendono le sonorità ‘da cestello di lavatrice’ del duo newyorkese Suicide, ma anche degli Ultravox, dei cerebrali Tuxedomoon, Residents etc., fino alla miriade di synt band del techno pop modaiolo degli anni ’80 formate da un duo, un cantante e un tastierista responsabile di tutti i suoni del team: Soft Cell, Tears for Fears, Eurythmics, Pet Shop Boys etc.
Nasce in questo clima una delle colonne sonore fantascientifiche più celebri di tutti i tempi, Blade Runner di Vangelis, un tastierista rock greco dei ‘70 (membro degli Aphrodite’s Child col cantante Demis Roussos) che compone una colonna sonora destinata a fare storia come il film che accompagna: basata sui sintetizzatori, contiene accenni di melodie classiche (The Future Is Old), jazz (One More Kiss, Love Theme con anche il sax), la voce dell’ex collega Roussos che canta in arabo (Tales of the Future), un complesso tradizionale giapponese e un’arpa, per ottenere il feeling multietnico dell’ambientazione nella babele californiana postmoderna e piovosa ideata da Ridley Scott per rendere un romanzo di Philip K. Dick che risaliva al 1969. Prog, ambient, classica, minimalismo ed etno: un mix che preannuncia la corrente New Age, che nasce proprio in quel periodo e di cui Vangelis sarà uno dei protagonisti.
L’onda lunga di Blade Runner darà vita negli anni ’80 – restando nel fantastico – alle colonne sonore ultrasynt di Flash Gordon e Highlander dei Queen, anche se non dobbiamo dimenticare fra i capisaldi del fantarock cinematografico i casi paradigmatici dei Goblin (un trio italiano sul modello degli ELP), assurti a fama mondiale grazie alle musiche degli horror di Dario Argento, e di John Carpenter, un regista che tanto ha dato al fanta/thriller/horror fra gli anni ’70 e ’80, quasi sempre componendosi da solo le proprie colonne sonore al sintetizzatore (da Distretto 13 a Halloween, 1997: Fuga Da New York, Christine, Il Signore del Male fino a Fantasmi da Marte), che qualche anno fa è anche venuto a suonare in tour in Italia.
Cut-up & paste sound
«Ieri sera di nuovo (…) ho udito frammenti di musica trasportati dalle onde termiche, remoti e fuggevoli echi del canto d’amore di Lunora Golaen. Camminando sulla sabbia di rame verso le scogliere ove crescono le sonisculture, ho vagato nelle tenebre fra i giardini di metallo, cercando la voce di Lunora. Nessuno ormai cura più le sculture, e quasi tutte sono andate in rovina, ma d’impulso ho tagliato una spirale e l’ho portata alla mia villa, piantandola nell’aiuola di quarzo sotto la terrazza. Ha cantato per me tutta la notte, parlandomi di Lunora e della strana musica che suonava a se stessa…»
.J.G. Ballard, Le statue canore, 1962
L’ultima rivoluzione fantasonora (almeno a oggi) è quella del campionatore, strumento che – oltre ai suoni sintetici – può memorizzare in digitale il timbro di qualunque strumento naturale per poi suonarlo con la tastiera. Sviluppato dalla Fairlight nei primi ’80 e subito sperimentato da musicisti come Frank Zappa o Peter Gabriel, dal crepuscolo di quella decade è diventato il protagonista dell’hip hop e della techno, per la possibilità di acquisire frammenti di registrazioni preesistenti da ricontestualizzare nel tessuto ritmico di un brano nuovo: in pratica, il DNA sonoro del rap, nel quale ha gradualmente sostituito lo scratching manuale dei dischi di vinile da parte del dj con le sue potenzialità pressoché infinite (e fieramente avversate dai legali dei discografici) di montaggio sonico. Summa teologica del postmoderno musicale, l’hip hop dei primi ’90 è così divenuto una nuova forma di ‘centone sonoro’ in cui si poteva (si può) costruire il groove di un brano su un giro di basso di James Brown, una sequenza ritmica dei Kraftwerk, stratificando in un singolo pezzo anche decine di campioni sonori, rubacchiati (legalmente o meno) dall’intero patrimonio della musica registrata mondiale.
Lo possiamo sentire ad esempio in un album di Flying Lotus (ascoltate per es. il suo cosmico Cosmogramma del 2011), uno dei musicisti hip hop più arditi e sperimentali del presente, oltre che – ai nostri fini – anche regista del delirante film Kuso (‘merda’ in giapponese), un trip fantacamp composto di quattro surreali vignette sugli individui mutati sopravvissuti al terremoto che ha distrutto Los Angeles. Ma anche del cortometraggio animato Blade Runner Black Out 2022, diretto da Shinichiro Watanabe, uno dei tre prequel al ben più corposo Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve.
Fantasuoni pervasivi
E col ponte di Steven Ellison/FlyLo arriviamo al collegamento con l’immaginario fantascientifico: perché sinora abbiamo documentato come la musica rock nel suo complesso si sia proiettata verso il futuro culturalmente, armonicamente/compositivamente e tecnologicamente, ma non abbiamo ancora fatto più che qualche esempio all’inizio di musicisti che hanno tratto titoli o testi di canzoni dall’immaginario fantastico, ispirandosi a libri, film, magari anche a fumetti o (da quando esistono) videogiochi e serie tv.
Farne un elenco esaustivo è praticamente impossibile, non sono bastate nemmeno le 460 pagine del saggio citato in calce, quindi non ci proveremo neanche: sappiate che sono migliaia e – scoperta – si trovano in tutti i periodi, gli stili, le correnti del pop rock internazionale (e anche italiano): non solo nella musica elettronica glaciale (i già citati Eno/Bowie, Tangerine Dream, Kraftwerk etc.), che già coi suoni evoca visioni futuribili, ma anche nel folk psichedelico dei Byrds, nell’hard blues di Hendrix, nei Deep Purple di The Mule (Asimov), nei Pink Floyd, nei Genesis, negli ELP, Yes, ma persino nella disco music più sciocchina, a tonnellate nell’heavy metal (che pure indulge volentieri all’horror), nella vintage wave dei B-52’s, e l’Extraterrestre di Finardi e in alcune canzoni di Dalla o del primo Battiato, nei più recenti Radiohead, nelle trasmutazioni aliene di Bowie e nelle ‘installazioni corporee’ di Björk, fino ai neopsichedelici Flaming Lips (il cui leader Wayne Coyne ha pure lui diretto un bislacco filmetto sci-fi), ai neoprog Mars Volta, Porcupine Tree, ai concept metal dell’olandese Ayreon e chi più ne ha più ne metta.
Sono stati realizzati numerosi concept album interamente fantascientifici, come ad es. Blows Against the Empire dei Jefferson Starship, I, Robot di Alan Parsons Project, Diamond Dogs di Bowie (il più importante degli almeno 4 o 5 direttamente o indirettamente dedicati a 1984 di Orwell, da Rick Wakeman degli Yes agli Eurythmics dell’omonimo film), Cyberpunk di Billy Idol e Cyberpunx dei Cassandra Complex, Transverse City di Warren Zevon e The Gospel According The Men In Black degli Stranglers.
Ci sono le colonne sonore: da quella del film animato Heavy Metal dell’81, gemmazione cinematografica dell’edizione USA dell’importante rivista di fumetti francese Metal Hurlant, alla sontuosa Dune dei Toto, a quelle più underground di film punk bizzarri come Liquid Sky, Decoder, il porno arty post apocalittico Café Flesh, il recentissimo horror Bliss o la sexy space opera Blood Machines, entrambi passati all’ultimo S+F Festival di Trieste. Fino alle parate di successi di Strange Days, Johnny Mnemonic e Matrix (sia nel cast che in colonna sonora) o quella del sequel di Tron fatta dagli elettronici Daft Punk, anche registi dello sperimentale Electroma.
Poi ci sono le rockstar attori: Bowie, Jagger (Frejack), Sting (Dune), Alice Cooper (Il signore del Male di Carpenter), Gene Simmons (Runaway), Ice T, Henry Rollins e così via. Oppure registi, come – oltre ai citati Wayne Coyne e Flying Lotus – l’horrorista metallaro Rob Zombie, di tutti il più famoso. O Bruce Dickinson, cantante degli Iron Maiden, che scrive la sceneggiatura del fanta-occulto Chemical Wedding, su una sorta di possessione virtuale da parte di un Aleister Crowley redivivo nel presente.
E infine ci sono gruppi la cui intera discografia è in sé un opus fantascientifico, come per esempio gli spaziali inglesi Hawkwind (e in parte i loro colleghi Gong delle ‘teiere volanti’), gli hard lovecraftiani americani Blue Öyster Cult, i prog francesi Magma e i loro connazionali più discotecari Rockets dal look glabro-argentato, gli sperimentali Chrome, fino ai minacciosi canadesi Voivod, autori di una prog-avant-metal saga fantascientifica che si snoda lungo l’intera loro discografia (come anche per i Magma del resto).
Parole sonanti
«La musica invadeva la vecchia Dusenberg mentre Jerry Cornelius guidava verso la costa del Kent – Zoot Money, gli Who, i Beatles. Jerry sceglieva solo la musica migliore».
Michael Moorcock, Jerry Cornelius: Programma finale, 1968
Al termine di un tale ottovolante psicomusicale a rotta di collo, ovvio che anche la fantascienza abbia cominciato osmoticamente a trarre ispirazione dal rock. Il brano che apre questo paragrafo data al 1968, come avete letto, e probabilmente è uno dei primi esempi di romanzo di fantascienza che cita alcune delle rockstar all’epoca in voga. Anche se, va detto, è dai tempi di Asimov che gli scrittori s’inventano bizzarri strumenti musicali impossibili come il visiosonor, il sexofono (Huxley), le macchine salvamusica (Dick), asce sonore o siringhe sensoriali (Delany) e via immaginando. Ma dagli anni ’80 il rock scorre già nel sangue di molti di loro, quindi avremo i sogni trasformati in videoclip di Sintetizzatori Umani di Pat Cadigan, le girl band islamiche de Lo spirito dei tempi di Bruce Sterling, nel Belpaese i racconti del Metallo Urlante e Black Flag di Valerio Evangelisti e poi le band vittime di pericolosi occultismi di Danilo Arona (Palo Mayombe e Rock, i delitti dell’Uomo Nero).
Per finire (almeno per ora) con l’antologia di racconti fantamusicali, S.O.S. – Soniche Oblique Strategie, curata dall’umile sottoscritto partendo dal gioco di ruolo creato da Brian Eno per i musicisti impegnati nelle session di registrazione del concept album cyberpunk Outside di David Bowie; antologia che riunisce ancora Arona, Ernesto Assante, Andrea C. Cappi, Giovanni De Matteo, Lukha B. Kremo, Claudia Salvatori e il musicista Maurizio Marsico, tutti legati fra loro dal racconto del curatore.
Tutti gli altri paragrafi, avrete notato, sono invece introdotti da citazioni provenienti da classici firmati da autentici pesi massimi del fantastico, scritti però assai prima che il big bang del rock esplodesse le proprie virulente schegge sonore in tutto l’universo: il brano iniziale di Leiber sull’immaginario genere robop sembra evocare le drum machine dei Suicide o dei Tears for Fears, invece data al 1950, prima ancora che Elvis varcasse la soglia del Sun Studio! Quelli successivi di Sturgeon e Ballard spaziano dal 1954 al ’62, ossia al massimo al periodo di Love Me Do dei Beatles, eppure notate come prefigurano invenzioni sonore degne della più onirica psichedelia pinkfloydiana, oppure addirittura le cacofonie noise di Metal Machine Music di Lou Reed.
Gli scrittori sentivano che anche in musica qualcosa doveva succedere…
Mario Gazzola
Mario Gazzola autore del romanzo Rave di Morte, dell’ebook Crepe nella Realtà, del corto Con gli occhi di domani e di diversi racconti, nel 2019 vince il Premio Vegetti con il saggio FantaRock (cofirmato con Ernesto Assante), poi sviluppato nell’antologia S.O.S. – Soniche Oblique Strategie. Cofondatore dei siti Posthuman, Brain One e collaboratore di Wonderland (RAI 4), MediaTrek, Nocturno Cinema, attualmente lavora a una riscrittura apocrifa di Jekyll & Hyde, al suo primo graphic novel e al racconto illustrato Situation Tragedy, coi disegni di Roberta Guardascione.