Il tema sul quale vi intratterrò si può articolare in vario modo. Io vorrei proporvi qualche riflessione su tre versanti: il primo è quello che viene subito in mente parlando di cittadinanza, ed è una riflessione sulla costituzione, o meglio sulle parole, sui concetti cardine della costituzione che ci richiamano al nostro essere cittadini, in questo stato naturalmente, ma anche cittadini in senso più generale, più comprensivo, essere cioè consapevoli dei diritti e dei doveri che competono a questa condizione sociale.
Ci tengo a cominciare con qualche riflessione in proposito perché non di rado la Costituzione viene vista da alcuni come un fastidioso vincolo, o in generale la legge viene vista come un fastidioso vincolo, di cui le persone potrebbero fare a meno e si troverebbero meglio. Questo è un errore notevole perché è proprio l’impalcatura giuridica – e la Costituzione è proprio il massimo strumento del diritto – che permette un vivere ordinato.
E l’idea di considerare gli atti della legge in generale come fastidiosi adempimenti burocratici è un’idea deleteria. La stessa confusione tra legge e diritto da un lato e burocrazia dall’altro è una confusione perniciosa.
Senza distinzione
Quindi partire dalla costituzione può essere giusto. Ma partire da quali aspetti? Ci sono alcuni aspetti che si prestano più di altri alla nostra riflessione. Forse l’articolo fondamentale è l’articolo 3, l’articolo che prevede l’uguaglianza di tutti i cittadini. Ma non si contenta di enunciare questo principio, che è un principio condiviso da tutte le costituzioni nate in seguito alla rivoluzione francese: è un principio generale. Piuttosto lo esplicita entrando nei particolari: “Senza distinzione di razza” (si è discusso sull’opportunità di mantenere un termine come questo, razza, che non ha un fondamento genetico, ma si spiega con il particolare clima, con il particolare momento storico in cui è nata la costituzione, in cui il problema razziale era ovviamente una ferita dolorosa aperta nel corpo dell’Italia e direi in generale dell’Europa).
“Senza distinzione di razza, di genere, di religione”: questa precisazione è già un elemento significativo. È un caso in cui le parole in apparenza superflue – perché una volta detto che tutti sono uguali si capisce che non esistono queste distinzioni – però devono essere ribadite. Ed è soprattutto interessante, perché non ci sono altri riscontri puntuali nelle altre grandi costituzioni europee, la seconda parte dell’articolo: quella relativa all’uguaglianza sostanziale, che è un concetto molto interessante, in cui si dice che è compito della Repubblica fare in modo che coloro che abbiano una situazione di svantaggio sociale ed economica possano aspirare alla massima soddisfazione di sé, alla massima soddisfazione personale, indipendentemente dal punto di partenza.
Naturalmente qualcuno potrebbe dire: bel concetto, ma come si fa a tradurlo in pratica? Un elemento significativo – e permettetemi di usare una parola grossa – un elemento di fascino della costituzione è che è carica di auspici segnati dalla Storia che ha portato alla costituzione. È chiaramente un auspicio, uno sforzo, una tendenza che i vari governi che si succedono devono farsi carico per realizzare questo principio. E del resto non è che un auspicio anche ciò che si legge nel primo articolo – La Repubblica è fondata sul lavoro.
C’è una rispettabile tradizione di pensiero, rappresentata per esempio da Angelo Panebianco, noto come editorialista del Corriere della Sera, che dice che questo articolo andrebbe cambiato: bisognerebbe sostituire al concetto del lavoro – sfuggente – il concetto di proprietà, e dire che la Repubblica nasce per difendere il principio della proprietà. Ora non entro nel merito di questo punto. Dico solo che l’idea di sottolineare l’importanza del lavoro come condizione doppia, cioè come condizione a cui tutti avrebbero diritto di aspirare e che quindi deve essere il più possibile garantito il senso lato, mi pare un principio importante.
Lo stato di diritto: la funzione rieducativa del carcere, l’abolizione della pena di morte, il ripudio della guerra
E poi c’è un altro articolo che vorrei richiamare come occasione di riflessione. È l’articolo 27, che parla della funzione della pena e fa una scelta di campo molto precisa, che non a caso fu oggetto di discussione da parte dei costituenti.
La pena svolge anche ovviamente quella che si chiama una funzione retributiva o in generale preventiva, ossia sì si interviene con una sanzione e anche con la privazione della libertà personale nei confronti di qualcuno che abbia commesso un delitto per ammonire gli altri a non imitarlo e per risarcire simbolicamente la società di questa violazione. Però accanto a questi elementi che sono elementi costitutivi della sanzione penale, che vengono dati come impliciti, c’è un elemento che viene sottolineato: la funzione rieducativa della pena.
Questo mi pare un dato estremamente importante, proprio un dato di civiltà. Ho saputo ora che verrà a parlarvi anche Luigi Manconi, che è particolarmente meritorio per la battaglia che da tanto tempo svolge in questo senso. Idealmente anche il carcere dovrebbe svolgere una funzione di rieducazione. Non si deve perdere la fiducia o la speranza che il reo possa essere riammesso a godere a pieno titolo del godimento dei diritti civili che lui stesso per il suo comportamento si è precluso.
E naturalmente da questo dato deriva come necessaria conseguenza l’abolizione della pena di morte. In Italia quando si parla di abolizione della pena di morte viene in mente il nome di Cesare Beccaria, ed è giusto che sia così, perché Beccaria è uno dei due scrittori italiani del settecento che all’epoca furono più noti nel mondo; l’altro è Metastasio, tutt’altro genere.
Beccaria scrisse questo trattato, Dei delitti e delle pene, che fu immediatamente tradotto in varie lingue, a partire da quella che era l’inglese dell’epoca cioè il francese. Beccaria sostiene due principi molto importanti: il primo è che la pena di morte è per definizione irriformabile, e quindi non garantisce la possibilità umana dell’errore giudiziario – possibilità che la nostra legislazione prevede puntualmente: si parla infatti di verità processuale, non di Verità con la v maiuscola, che è un concetto non attingibile con assoluta sicurezza a livello umano.
La verità processuale vuol dire, come sapete, che c’è la possibilità di ritornare sopra la precedente sentenza; addirittura ci sono tre gradi di giudizio. Dico addirittura perché probabilmente ci sarebbe da chiedersi, ma io non sono un giurista e non voglio indossare panni non miei, se questi tre gradi di giudizio siano funzionali per qualunque tipo di reato, indipendentemente da quello che si chiama il minimo edittale, ossia se non sia il caso di ridurli per i reati meno gravi, e quindi di semplificare e di ridurre i lavori dei vari organi giudiziari. Però il principio è sacrosanto, il principio per cui i giudici possano ritornare su quello che hanno fatto, ammettendo che ci sia stato un errore, o un errore nella procedura – ed ecco che torniamo al valore della legge come rispetto delle regole, non come omaggio a un moloch, ma come invece garanzia dei simboli.
E Beccaria disse anche un’altra cosa molto importante, che non bisognava ricorrere alla tortura. Ma perché? Per ragioni umanitarie? Non solo per questo. Perché, diceva Beccaria molto acutamente, la tortura non è un mezzo di prova; perché il criminale incallito con particolare resistenza anche sotto tortura non ammetterà mai di aver fatto quello che gli viene imputato, mentre la persona più debole potrà non solo ammettere le sue colpe, ma addirittura cedere alle imputazioni che gli vengono rimproverate senza avere la possibilità di rifiutare queste imputazioni, perché ciò che ha davanti agli occhi è l’idea di terminare con quel supplizio.
Sono due obiezioni di tipo giuridico, oltre che di tipo morale, che rendono particolarmente significativo questo lontano precedente, perché quando Beccaria scriveva queste cose, nel 1764, la pena di morte era assolutamente normale in tutta Europa, non dimentichiamolo.
L’Italia ha anche il merito di una riforma, quella di Zanardelli – stiamo stavolta nel secondo ottocento – molto avanzata per i tempi in cui la pena di morte era abolita. Come sapete, la pena di morte è stata poi reintegrata dal fascismo. Ed è stato poi, come ricordavo, negata alla radice da questo articolo della costituzione. È quindi interessante fare una riflessione, come sempre partendo dal singolo articolo e dilatandolo in termini storici, ma in termini anche di riflessione su diritti umani, sui diritti che non riguardano solo gli italiani, i francesi o gli albanesi, ma gli esseri umani in quanto parte di una società organizzata.
Ancora un’ultima riflessione vorrei fare sull’articolo della costituzione in cui si dice: l’Italia ripudia la guerra. È un altro articolo che esprime più un auspicio che una condizione strettamente vincolante; ci sono state polemiche sulla partecipazione di soldati italiani a vicende più o meni recenti, per esempio dei Balcani: guerra o non guerra? È un ripudio o non è un ripudio? Però inviterei a vedere questo principio nel senso di un auspicio, come una scelta di fondo: si considera la guerra come un tipico disvalore, per usare la parola tecnica che nel linguaggio del diritto indica qualcosa di negativo da cui la società deve difendersi. Nella Costituzione si prevedeva ancora la possibilità della pena di morte in guerra; questa norma è stata però superata, di fatto, con una legge del 1994. Superata la pena di morte, ma superata anche, ci si augura, anche la condizione della guerra, che l’irrogazione di questa pena rendeva possibile.
Le lingue cambiano
La seconda riflessione che vorrei fare riguarda l’ambito specifico dei miei studi, la lingua, e si riferisce alla necessità linguistica adeguata per l’insieme dei cittadini. La padronanza linguistica implica andare oltre le parole che costituiscono il patrimonio spontaneo di qualunque parlante, quelle che un grande linguista scomparso che mi fa piacere ricordare qui, Tullio De Mauro, aveva calcolato secondo un complesso sistema di elaborazione in parole del lessico fondamentale – per esempio ma, andare, il o anche gatto, cane -, parole di alto uso e parole di alta disponibilità.
Le parole di alto uso sono parole di alta frequenza, appena un po’ meno, e le parole di alta disponibilità sono le parole che ciascuno di noi per molti giorni potrebbe non pronunciare mai, non avere modo di evocare, ma che rappresentano però parole che appartengono al nostro orizzonte quotidiano: aceto o alluce… Non è che parliamo sempre di aceto a tavola, forse un po’ ma neanche tanto; di alluce ancora meno, però ci rendiamo conto che sono parole importanti.
C’è questo zoccolo duro, si sarebbe detto, in tempi di prima repubblica forse, di parole che costituiscono l’elemento portante della lingua di ciascuno di noi. Però ci sono parole che vanno oltre, e di cui la scuola in particolare (come accade già del resto) deve farsi carico. Quali parole? Prima di tutto le parole che indicano la continuità con la nostra grande tradizione scritta. L’esempio che vorrei fare è attinto da Dante, che è un poeta centrale della nostra esperienza linguistica, non solo perché la sua immagine figura sulla moneta da due euro (anche se questo qualche significato ce l’ha; abbiamo messo il meglio che avevamo sulla moneta con maggiore valore).
In Dante ci sono molte parole che usiamo ma con un significato diverso. Prendere atto, prendere coscienza di questa evoluzione è un buon modo per storicizzare la trasformazione delle lingue che è un dato assolutamente normale (ci mancherebbe altro che le lingue non cambiassero, cambiano!). Però è importante, nel caso della tradizione letteraria, mantenere questo senso di continuità.
Faccio due esempi presi dal ventiseiesimo canto del purgatorio; è il canto in cui Dante incontra tra gli spiriti purganti i lussuriosi, con una novità importante su cui non mi soffermo; tra i lussuriosi ci sono quelli contro natura e quelli secondo natura; invece i sodomiti erano stati peggio nell’inferno, distinti dai lussuriosi. Ma non mi interessava qui quest’aspetto, quanto la parola stupido, che oggi è una parola molto comune, e tutti sappiamo cosa vuol dire. Forse è al gradino più basso dei possibili insulti. Quello che si legge su Facebook, su Twitter, dove la gente mette con una certa impudicizia – non troverei altro termine, lo riconosco un po’ vecchiotto – il peggio di sé. Beh, stupido è qualcosa da bambino, qualcosa che ci fa quasi tenerezza.
Ma in Dante stupido non vuol dire poco intelligente. Dante dice per descrivere lo stupore che questi purganti provano nel vedere un vivo come Dante, con tanto di ombra che si aggira nell’oltremondo. Non altrimenti stupido si turba / lo montanaro, e rimirando ammira / quando rozzo il salvatico si inurba. Allo stesso modo il montanaro che arriva nella città, si trova in un ambiente assolutamente ignoto, e si guarda intorno stupefatto, esprimendo questa sua meraviglia.
Tra l’altro nei versi che ho citato, c’è anche un verbo, inurbarsi, che è un verbo inventato da Dante, e che oggi noi usiamo in un’accezione diversa – l’inurbarsi delle classi rurali nell’Italia, per esempio, del secondo dopoguerra.
E l’altro esempio tratto dallo stesso canto è quello di scemo. Scemo è oggi sullo stesso piano di stupido. Invece in Dante vuol dire ancora mancante, privo. Esiste oggi un verbo, non comune ma ancora in uso, che è scemare, diminuire, ridurre. Dice infatti Guido Guinizzelli nel ventiseiesimo canto del Purgatorio: Farotti ben di me volere scemo. Cioè: toglierò il tuo desiderio di sapere chi io sia dicendoti il mio nome. Farotti ben di me volere scemo: / son Guido Guinizzelli; e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo. Scemo e stupido, parole comuni, che però in Dante hanno significato diverso. Questa è una buona occasione per riflettere anche sulla lingua, su come cambia nel corso del tempo.
La necessità linguistica adeguata per l’insieme dei cittadini
Dunque tenere conto della continuità con la lingua del passato ma tenere conto anche della consapevolezza di capire la lingua di oggi a livello appena colto. Quale è il livello appena colto a cui faccio riferimento? Quello dei giornali. Io sono un vecchio signore e sono abituato a leggere il giornale cartaceo; ma il discorso non cambierebbe se ricorressi alla lettura via tablet. Allora per darvi l’idea di quello che dico, ho ritagliato un articolo del Corriere della sera di oggi – quindi non ho fatto particolare ricerca – ed è un articolo che tutti, credo, anche un ragazzo delle medie, non dico delle elementari, potrebbe leggere.
È un articolo sulla Tav: riporta le dichiarazioni del ministro Toninelli, con il titolo “Valuteremo se fermare la Tav”. Timori senza fondamento. Ora mi soffermo su tre, quattro parole, parole molto comuni. Ma mi chiedo – avendo insegnato per tanto tempo, e avendo anche avuto anche rapporti molto frequenti con il mondo della scuola, con il mondo degli insegnanti – quanti ragazzini saprebbero capire le parole su cui mi soffermo.
“Basta con le grandi opere infrastrutturali, mastodontiche, dispendiose”.
Infrastruttura è una parola importante in economia. Ed è una parola che non si ricava da gran parte delle letture che si fanno a scuola, e certo non si può ricavare dai programmi di italiano, perché non capita che gli autori letti, e giustamente, a scuola parlino di infrastruttura o infrastrutturale, che sono parole la cui attestazioni risale a non più di cinquanta o sessant’anni fa. Però la parola infrastruttura è importante per indicare tutta una serie di interventi che si fanno sul piano dei trasporti, dell’edilizia, delle fognature. È una parola importante, non conoscerla vuol dire partire male nella lettura di un articolo come questo abbastanza banale.
Andando oltre troviamo il verbo recedere: “gli eventuali costi di tutte le alternative compresa quella di recedere dalla prosecuzione dell’opera”. Sono parole del ministro, che non voglio commentare nel merito, ma rispetto alla forma sì. Recedere è un bel verbo, che ci permette, ove avessimo mai una minima, davvero minima competenza in latino, quella che si può avere anche solo nel bienno del linguistico di scienze sociali, o a maggior ragione nel liceo scientifico o nel liceo classico, di fare un’osservazione che ci permette di collegare recedere a una famiglia lessicale che è ben viva anche in italiano. L’unica informazione in più che darei è che recedere, verbo già latino formato da cedo, indicava un movimento. Il significato fondamentale è quello di andare. Poi, forse anche per un meccanismo eufemistico, già in latino cedere è passato dal significato di andare a quello di ritirarsi; le sconfitte, i ripiegamenti di un esercito in conflitto sono in generale sempre velati perché considerati una sconfitta che è difficile ammettere.
I prefissi sono volutamente chiari: recedere qui vuol dire proprio ritirarsi, tornare indietro. E poi abbiamo accedere, formato con ad che significa avvicinarsi. Accedere è un altro verbo tipico dell’uso scritto, però è un verbo di cui è giusto acquisire il significato nel corso degli studi: avvicinarsi, nei termini, per esempio, di operazioni istituzionali, accedere ad una gara. Oppure succedere, nel significato di subentrare; questo non ha bisogno di particolari commenti. Incedere, andare avanti. Procedere, andare mettendosi davanti a qualcuno. Con un prefisso pro, che vuol dire proprio mettersi davanti, come nell’espressione pro patria mori: mettersi davanti alla patria personificata per ricevere in sua vece i colpi del nemico. Ecco una semplice, banale riflessione che però ci permette di collegare verbi sparsi, ma ancora presenti in italiano – un italiano scritto per il quale è importante non solo la capacità di produzione ma anche la capacità di comprensione; ed è importante che le generazioni scolari le sappiano.
Altri due esempi: “tra gli annunci figura l’arrivo del nuovo codice degli appalti”. Figura è un sinonimo più ricercato ma non particolarmente arduo, di quello che noi parlando abitualmente, parlando in maniche di camicia, diremmo c’è. Figura è una possibilità tipica della lingua scritta che ha un lessico più ricercato, più articolato. L’altro elemento non è lessicale ma morfologico, cioè bensì. Leggo il brano: “Su Alitalia, per esempio, l’indicazione è che non vada semplicemente salvata, bensì rilanciata nell’ambito…”. Tutti i parlanti italiani sanno o intuiscono che non si potrebbe dire qui però. Ed è interessante riflettere sulla differenza tra bensì e però. Perché bensì sostituisce, cancella la affermazione fatta in precedenza – “Non siamo nel quarto municipio, bensì nel terzo”. Potrei dire anche ma naturalmente. Non potrei dire però, non avrebbe senso, ci sarebbe una violazione logica; perché però lascia sussistere, modificandolo, attenuandolo, ciò che viene detto prima.
La lingua in cui siamo e di cui dobbiamo prendere coscienza
Questa banalissima riflessione anche qui serve a prendere coscienza di un uso che già noi abbiamo. Permettetemi di fare un passo indietro, di ritornare solo per un momento alla cittadinanza e alla Costituzione. Ci sono degli articoli della Costituzione, che tutti quanti applichiamo perché abbiamo interiorizzato ma che non sapremmo riconoscere nella loro formulazione. Facciamo un banalissimo esempio: l’articolo 3, quello da cui sono partito, Tutti sono uguali. Non c’è alcun dubbio che è una realtà che tutti noi diamo per assolutamente scontata nella concretezza dei rapporti anche famigliari, insomma non c’è nessun padre che penserebbe di lasciare i suoi averi in una misura diversa ai figli perché uno è maschio e l’altro è femmina; è impensabile. Però se voi uscite di qui e andate a chiedere a Viale Jonio o a via Scarpànto – come so che si dice in loco, io faccio una certa difficoltà ad accettare quest’accento invece di Scàrpanto, ma naturalmente mi rassegno – e chiedete alla prima persona che incontrate che cosa dice l’articolo 3, vedrete che i casi sono tre: c’è una minoranza che risponde, una maggioranza che vi guarda come mezzi pazzi e pensa che vogliate chiedergli soldi, e un altro gruppo che non lo sa. L’articolo non si sa, ma il concetto è assolutamente presente. E così anche il rapporto tra ma, però e bensì. Ed è una occasione di riflessione perché nella scuola c’è anche una giusta competenza da sviluppare, una competenza come si dice metalinguistica.
Terzo punto sul quale vorrei fare qualche considerazione è la padronanza della lingua da assicurare ai cittadini stranieri. Questa è una condizione fondamentale per quanto riguarda l’integrazione; ci sono altre condizioni che rappresenterebbero se fossero richieste una violenza. Non potremmo chiedere a nessuno di abdicare alla propria religione. Ma neanche – facciamo anche un esempio più spicciolo, ma secondo me non secondario – di rinunciare alla sua cucina regionale, alla sua cucina etnica. Come sapete, tra i vari problemi di convivenza, che sono problemi tra gruppi etnici diversi, c’è il fatto che in alcune cucine si sentono odori che sono sgraditi alla nostra tradizione; non potremmo però dire: tu sei venuto in Italia e devi mangiare spaghetti e non i vari piatti.
Possiamo invece chiedere due cose, o aspettarci due cose: la prima è la padronanza della lingua che in genere gli stranieri sono ben disposti a imparare perché è il modo di comunicare con la realtà che li circonda. Qui c’è da dire che sono ammirevoli le iniziative che il volontariato cattolico e laico svolge per provvedere a questo insegnamento.
Tuttavia si dovrebbe fare molto di più da parte dello Stato, perché è nell’interesse dello Stato garantire questo livello di integrazione. E naturalmente, l’altro livello che noi possiamo aspettarci – e lo dico proprio richiamandomi al concetto da cui sono partito, la Costituzione – è il rispetto dei principi generali.
Non possiamo abdicare al principio che per noi è fondante dell’uguaglianza, non possiamo ammettere che ci possano essere differenze tra uomo e donna. Colui che viene nel nostro paese, nel nostro sistema, deve rispecchiarsi in questi valori. Quindi non si tratta di chiedere conoscenze storiche come in altri paesi è avvenuto; mi risulta anche in Svizzera, per esempio; immaginate se facessimo domande di storia patria quanti sono i cittadini italianissimi che non saprebbero rispondere, stendiamo un velo pietoso… non chiediamo questo…
Chiediamo invece la competenza linguistica, che procederà attraverso richieste diverse rispetto a quelle a cui alludevo prima. Sono importanti, come sanno coloro che insegnano l’italiano elementare, le formule che si usano nella lingua di tutti i giorni, e che rappresentano delle formule con una forte caratura idiomatica.
Facciamo qualche esempio: quando il sole brilla e ci riscalda molto, il verbo che si usa è il verbo picchia. Oggi il sole picchia: se ci pensate non potremmo dire in nessun altro modo. Potremmo dire certo oggi fa caldo, ma non potremmo dire oggi il sole colpisce. Perché la frase è protetta da questo suo statuto idiomatico.
Oppure, per fare un esempio meno trito, qual è alla quale ciascuno di noi ricorre quando si trova in un gruppo di persone che stanno parlando e a un certo punto se ne vuole andare ma senza che questo sia visto come un gesto brusco, addirittura maleducato? Dice: Scusate, scappo. Oppure, devo scappare. Ma non c’è nessuna fuga, nessuno che potrebbe chiedere: ma scappi perché hai fatto qualcosa? È una formula idiomatica tipica.
E pensiamo anche alle formule che si usano in italiano o in qualunque altra lingua per chiedere scusa o per ringraziare o semplicemente per fare un augurio cortese che varia nei vari momenti della giornata. A quest’ora non direi buona notte che implica che subito dopo si vada a letto, ma direi buona sera, o – mi rassegno anche qui un po’ come con Scarpànto – a dire buona serata, che non appartiene al mio novero linguistico ma non c’è niente di male. Certamente non buona notte.
Sono tutte cose per un parlante nativo, quale che sia il suo grado di istruzione; non lo sono legittimamente per un parlante straniero, ma sono importanti per farlo sentire parte di una comunità linguistica. E permettetemi in conclusione di ricordare l’importanza della lingua madre, non solo dell’italiano, ma dell’albanese, del rumeno, del norvegese…
La lingua madre – lo ha osservato una scienziata milanese, l’immunologa Maria Luisa Villa – ha un potere straordinario: “La lingua materna ha una superiore capacità di dare corpo ai pensieri e di trasformarle in parole chiare, perché nel corso dell’acquisizione infantile essa plasma in modo le strutture della mia mente”. Questa osservazione di Maria Luisa Villa è stata fatta in un suo brillante opuscolo sul principio che l’inglese non basta. Come sapete, nella scienza e non solo nella scienza l’inglese domina senza rivale: non solo domina l’italiano, ma anche il francese, che – lo ricordavo incidentalmente prima – ha una storia di lingua veicolare, anche di lingua imperiale di tutto rispetto.
Però, sottolineava la Villa, questo non può essere un buon motivo per abbandonare la lingua materna proprio per la sua capacità di modellare il pensiero, come avviene nell’acquisizione che in modo straordinario – se lo guardiamo dall’esterno – qualunque bambino in qualunque parte del mondo riesce a compiere impadronendosi di una lingua complessa.
E l’osservazione ingenua che qualunque adulto è tentato di fare è di meravigliarsi che bambini cinesi o svedesi possano padroneggiare delle lingue così difficili; naturalmente nessun adulto la fa un’osservazione di questo tipo. Vero è però che proprio in base alla distanza tipologica tra italiano e cinese, e appena un po’ meno tra italiano e svedese, la difficoltà di apprendere questa lingua da adulto è molto maggiore.
Ma questo solo per ricordare che il compito di diffondere l’italiano agli stranieri è compito nostro in generale come società, ed è veramente questo sì un modo per difendere o per proteggere l’italiano, quello di moltiplicarne il più possibile l’uso nei confronti di persone che per contingenze di vita si trovano anche particolarmente esposte a questa esigenza e sono tendenzialmente pronte ad accettarlo.
* Trascrizione della lezione aperta tenutasi il 1 agosto 2018 ai giardini sopra la stazione della Metro Jonio