Sul ruolo dell’intellettuale nella società, nella politica, nell’economia si sono versati fiumi – oceani, oserei dire – di inchiostro, tanto che si è rischiato di affogare e, di fatto, più di una volta, così è stato. Allora, cosa mi accingo a fare? A versare qualche ulteriore goccia in questo mare magnum? Sì e no. Lo scopo di questo articolo non è tanto quello di riflettere su doveri e diritti dell’intellettuale nella nostra società, quanto piuttosto di sviluppare una riflessione su una questione più ristretta, nonostante afferente alla stessa disciplina. Nella nostra società della dis-informazione, lo storico, in quanto intellettuale, ha doveri particolari da assolvere e diritti specifici da rivendicare? Per dirla con una formula più vaga ma di sicuro più evocativa, a chi e a cosa serve la storia?
Il mio non vuole essere il contributo a una dissertazione tra addetti ai lavori, ma una riflessione che si rivolge a chiunque possa trovare interessante questo argomento. Pertanto, pur se scritto con un taglio specifico, ‘da storico’, va inteso come testo aperto e non come una ricerca conclusa in sé stessa.
Il problema del ruolo pubblico dello storico è mal posto. Credo sia necessario, in via preliminare, chiarire il senso del valore della storia. Ciò impone, nostro malgrado, una riflessione teorica su cosa è e cosa fa la storia e, per chiarirne i termini, provo a partire dall’inizio, con un brevissimo excursus di storia della storiografia.
L’idea che, in qualche senso, la conoscenza della storia sia utile è, diciamo così, intrinseca alla storiografia stessa e coeva alla nascita della disciplina. Il riconosciuto padre della storiografia occidentale, Erodoto[1], nel proemio della Storia delle guerre persiane, nel punto in cui si descrive la lotta dei Greci contro Dario e Serse nel IV secolo a.C., afferma in maniera esplicita che indagare il passato ha un duplice scopo: Affinché «le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria, e, inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro». Per Erodoto, quindi, studiare il passato era utile sia per non dimenticare, non presentando differenze, in questo senso, rispetto ad altri strumenti per la memoria, sia a comprendere, aspetto che quindi la porta ad avere un suo valore specifico.
Il suo successore, Tucidide, lo storico ateniese della Guerra del Peloponneso, introduce, tra gli scopi dell’opera dello storico, la ricerca della verità, contrapponendolo ad altri, come poeti e logografi, che invece tessono i propri racconti allo scopo di intrattenere e blandire l’uditore: «Ma di molte altre cose ancora, anche se del nostro tempo e non dimenticate per l’età, gli altri Greci non hanno idee esatte […] Tuttavia, in forza degli argomenti sopra riportati, si sarà più vicini alla verità ritenendo presso a poco quali le ho esposte io, piuttosto che prestar fede a quanto cantano i poeti, soliti ad abbellire e amplificare, o alle composizioni dei logografi le quali hanno maggiore attrattiva per l’orecchio che rispetto per la verità». Per opera degli storici romani, all’idea che il valore dell’indagine storica risieda nella ricerca della verità, si aggiunge una seconda forma di utilità, di in natura esplicitamente pragmatica, quindi operativa nel proprio presente. La storia è, per dirla con Cicerone nel De oratore[2], «testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità». Nel concetto di historia magistra vitae trovo sia necessario distinguere due aspetti, uno culturale e uno, diciamo così, di tipo etico. L’idea che dalla storia si impari qualcosa è da mettere in relazione con una forma mentis tipica tanto del mondo greco, quanto di quello romano.
Gli antichi ritenevano che l’andamento della storia fosse di carattere ciclico, per questo vedevano nello studio di tale disciplina un modo per imparare, suffragando l’esistenza di infiniti corsi e ricorsi, ovvero di accadimenti che si ripetono sempre uguali a se stessi.
Malgrado ciò, nella visione ciceroniana e, più in generale, di ascendenza romana, quest’idea si spinge oltre. Gli storici romani considerano, infatti, storia e azione politica come un tutt’uno o, se vogliamo, la prima come premessa per una saggia pianificazione della seconda.
Ecco che i termini della questione sono già praticamente tutti presenti: ricordo, verità e valore edificante. Tuttavia, l’unione di questi tre aspetti è tutt’altro che pacifica. I tre termini sono strettamente legati tra loro solo in apparenza, e il passaggio dal primo – la memoria – al secondo – la verità –, così come al terzo – il valore civico – non è affatto lineare, rischia anzi di rivelarsi un volo pindarico. Il malinteso si fonda su un’ambiguità di fondo per cui tra memoria e storia esisterebbe una qualche continuità. Falso: storia e memoria non sono due facce della stessa medaglia, né due tessere di un identico mosaico, né infine due momenti del medesimo processo. Piuttosto assomigliano ad acqua e olio, non potranno mai mischiarsi. Applicando questa metafora al nostro problema, provo a spingerla un poco oltre, e aggiungo che storia e memoria sono come acqua e olio, ma in due contenitori separati. Non che non abbiano nulla a che spartire l’una con l’altro; la storia è permeata di memoria in molteplici forme, la principale della quali è il ricordo individuale e collettivo di chi ha fatto esperienza diretta di un certo passato. Inoltre, la memoria può essere oggetto di studio da parte della storia o, per meglio dire, è legittimamente studiabile come ‘oggetto storico’, e questa è stata, e continua a essere, una delle grandi conquiste del cultural turn applicato allo studio della storia. Tuttavia, credo che, per comprendere meglio la questione dell’utilità storica, sia necessario considerare queste due componenti come assolutamente separate.
Per moltissimi versi, pur se straordinari, gli esempi citati circa il senso e la funzione della storia presentano un limite fondamentale, un’ambiguità di fondo non del tutto affrontata. Tali descrizioni dell’utilità della storia lasciano intendere – intendono in modo alquanto esplicito – che tra memoria e storia esista una sorta di continuità. Semplificando all’estremo, l’ammaestramento contenuto sopra ha una duplice accezione: ricordare per non commettere gli stessi errori del passato; ricordare perché i tuoi ricordi si sedimenteranno fino a costruire la comprensione dei fatti, divenendo così storia. Figlie della prima versione, per limitarsi a esempi recentissimi, sono le numerose le giornate del ricordo e della memoria che, dall’inizio degli anni Duemila, si sono moltiplicate all’interno dei calendari civili delle nazioni occidentali e del nostro Paese[3], fino a configurarsi come una vera è propria «memoria-mania»[4]. Al secondo gruppo, più articolato, ma di fatto non molto dissimile dal precedente per tipo di ragionamento, appartengono, per esempio, le celebri considerazioni di Niccolò Machiavelli nel Principe e nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
È all’interno di questa ambiguità che risiede il malinteso modo di interpretare l’utilità della storia e con essa quella del ruolo dello storico. Ritengo sia opportuno porre molta enfasi su questo punto, in quanto mi pare sia il perno della riflessione. Proprio perché – manteniamo la metafora – storia e memoria sono due liquidi con densità diverse e quindi non solvibili l’uno nell’altra, basare l’utilità dello studio della storia, ovvero la pratica della ricerca storica sulla continuità tra storia e memoria, porta con sé fraintendimenti che potrebbero rivelarsi pericolosissimi, e storicamente è stato proprio su questi fraintendimenti che si sono innestate molte critiche distruttive alla disciplina e al suo valore.
Provo a fare qualche esempio, a partire da uno noto a tutti, attraverso il quale siamo inevitabilmente passati tutti. Spesso, a scuola, la storia non è materia molto amata e, anche se apprezzata, è ritenuta non proprio facile, perché considerata materia mnemonica; chi la disprezza per questa sua caratteristica, lo fa in virtù del fatto che appare una disciplina sterile, vuota; chi la apprezza, invece, di solito lo fa perché la considera una sorta di jolly per alzare la media, visto che ottenere un buon voto può dipendere da quante volte i paragrafi del manuale sono letti e ripetuti a pappagallo. Non neghiamolo, sono questi i due principali modi in cui viene percepita la storia nelle nostre scuole, e non solo nelle nostre. In una certa misura, verrebbe da dire che questo atteggiamento può anche essere giustificato. Cerco di spiegarmi portando un altro esempio, che non vuole essere un atto di accusa o di critica, ma una semplice constatazione: l’insegnamento della storia nei tre ordini della nostra scuola dell’obbligo – primaria, secondaria di primo e di secondo grado – consiste di fatto nella ripetizione di tre programmi in sostanza identici per contenuti, per quanto diversi in termini di approfondimento e quantità di aspetti presi in esame. Insomma, per dirla in una parola, studiamo tre volte le stesse cose, solo che alle scuole medie e alle superiori studiamo in modo più circostanziato rispetto alle scuole elementari. Beh! Che c’è di strano? La storia è sempre quella!, si potrebbe obiettare. D’altra parte non si può certo chiedere a un bambino di dieci anni di studiare come uno di diciotto, e viceversa. Niente da replicare a questa critica, tranne che la storia è, e dovrebbe essere, un’altra cosa. Ritorniamo, quindi, alla domanda di partenza: cos’è, allora, la storia? Per dirla in modo molto semplice, la storia è una pratica di problem solving. Come la matematica? Beh, in un certo senso, sì, e spero che non si offendano i matematici. Per meglio chiarire questo punto, credo sia necessaria una breve digressione su – parolone in arrivo – lo statuto epistemologico della storia. Diciamolo meglio. Che tipo di scienza è la storia? Una prima definizione, seppure precaria, è di carattere negativo: la storia non è una scienza nel modo in cui lo è, per esempio, la matematica – e con questa mia affermazione spero di essermi riconquistato la simpatia degli amici matematici. Un po’ meno sintetico è invece descriverla in modo positivo. In primo luogo, è necessario fare una distinzione preliminare. Con il termine storia indichiamo almeno due cose tra loro distinte: storia-fatto e storia-racconto. La prima è il passato, cioè l’insieme di eventi di varia natura avvenuti in un tempo ormai trascorso. Per definizione, in questa accezione la storia-fatto non è scienza, è appunto un fatto, anzi un insieme di fatti, e si colloca al di fuori delle nostre possibilità di conoscenza diretta; relegata in un altro tempo, appare come unica, non ripetibile, irraggiungibile. La storia-racconto è invece la cosa di cui stiamo parlando, ovvero la scienza, l’atto conoscitivo che investe la storia-fatto sotto forma di racconto. Ed è su questa che dobbiamo concentrarci.
La discussione su che tipo di scienza sia la storia e sul tipo di conoscenza cui può ambire è lunga come la storia stessa della storia o per meglio dire della storiografia, cioè della disciplina. Perciò, non mi interessa ripercorrerla, se non quel tanto che può tornare utile allo scopo della riflessione in corso. La storia-racconto appartiene alle scienze cosiddette molli, il cui scopo d’indagine è l’uomo, contrapposte, per loro natura, alle scienze dure, come la fisica, la matematica o la chimica. Marc Bloch definì il ‘buono’ storico come «l’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda»[5]. Questa definizione di storia come una delle ‘scienze dell’uomo’ è una definizione assai ampia, volutamente ampia, tale per cui è incluso, in realtà, ogni aspetto dell’esistenza passata dell’umanità intesa sia come l’intero consorzio umano sia come gruppi sia come singoli – dagli aspetti concreti a quelli politici, da quelli culturali a quelli economici, e poi ancora gli immaginari, i rapporti tra gruppi e generi, la cultura materiale e il rapporto con l’ambiente, e molto altro ancora. Insomma, tutto è storia perché tutto ha una storia, come recitava in modo eloquente il titolo di un testo di John Haldane, pubblicato nel 1951[6]. Una tale circoscrizione del campo di indagine può apparire sostanzialmente inutile, addirittura confusionaria. In effetti, ciò ha determinato in tempi recenti una significativa crescita delle specializzazioni, tanto che già oltre quarant’anni fa uno storico come Tony Judt denunciò l’esplosione di approcci e di ambiti di interesse come un «grave caso di avvelenamento»[7]. Tuttavia, per quanto disorientante, credo che restringere il campo di interessi della storia sia non solo impossibile, ma neppure utile.
La storia studia l’uomo. Come lo studia? Essa si incarica di interrogare i ‘relitti’ del passato e di farli parlare attraverso precise ipotesi di scandaglio. Alla pluralità di temi si accompagna quindi la pluralità di prospettive di indagine, sia in generale sia sullo stesso aspetto, poiché ogni segmento di passato conserva in sé diverse stratificazioni di testimonianza. Ecco un primo tassello del tipo di conoscenza prodotto dalla storia: la verità storica è una verità plurale.
La verità plurale della storia scaturisce da una ricerca di senso; lo storico raccoglie testimonianze del passato in varie forme – documenti, manufatti, dati statistici, ricordi ecc. – e li interroga da una specifica prospettiva di indagine, vale a dire a partire dall’ambito del suo interesse di ricerca. Questo non significa costruire la propria verità a tavolino, infatti non è la verità a essere soggettiva, quanto piuttosto le ipotesi di ricerca che dovranno poi essere messe poi in relazione con i dati raccolti. L’obiettività e, più ancora, l’onestà intellettuale, principale e più importante obiettivo dello storico, risiede soprattutto nella capacità di mettere il lettore/interlocutore nella condizione di valutare per prima cosa l’ipotesi di ricerca e, a seguire, il processo di raccolta e selezione – e quindi anche di esclusione – delle fonti, l’impiego delle fonti stesse per sostenere determinate argomentazioni e, da ultimo, il loro possibile grado di analisi. Ed ecco il secondo tassello per la descrizione del tipo di conoscenza storica: la ricerca storica è un’operazione di problem solving. La storia si incarica, pertanto, di ricostruire a ritroso la catena causale che ha condotto a un determinato evento, o carattere, e fa ciò con due accortezze: riconosce che un unico evento, o aspetto, può avere una pluralità di cause concorrenti, cercando di chiarire i reciproci rapporti, sia gerarchici sia di influenza tra le varie cause. Mi rendo conto che spiegato in questo modo risulti tutto molto generico e vago, pur se sufficiente a inquadrare finalmente il nostro problema sotto una nuova luce e, forse, a comprendere meglio a cosa serve la storia. Pur nella sua estrema indeterminatezza, questa descrizione della natura della storia mostra che il perno della ricerca storica, come anche del ragionamento storico, non è la memoria. Facciamo allora un passo indietro e torniamo all’esempio della scuola. I nostri studenti – e, con buona probabilità, non pochi tra i lettori di questo articolo – amano e, al contempo, odiano qualcosa che chiamiamo storia, ma che, in realtà, è qualcos’altro, ovvero la pratica mnemonica di ricordare nomi, date, luoghi e una grande quantità di altre informazioni, accomunate, in prima battuta, dal fatto di collocarsi in un altro temporale, che è il passato. Intesa così, la storia non serve a niente e a nessuno. O meglio, serve nella misura in cui è un esercizio di memoria, utile sì, ma se l’utilità della storia si riducesse a ricordare, mi sentirei di consigliare di tornare a insegnare e studiare le poesie a memoria.
Il valore dello studio, come della pratica della storia, va ricercato all’interno del carattere plurale della verità storica e dello sforzo di costruzione di spiegazioni causali. Per quanto riguarda il primo aspetto, la storia è utile perché educa alla complessità. Attraverso spiegazioni complesse, che non passano sopra le eccezioni e i casi singolari come un caterpillar, è possibile imparare a guardare alla nostra società e al nostro mondo riconoscendo che non esistono soluzioni semplici – o addirittura semplicistiche – per problemi complessi. Anzi, per accrescere la comprensione è doveroso non semplificare ma complicare, come ben sintetizzato dalla provocatoria domanda di Jacques Revel: «Perché semplificare quando si può render complesso?»[8]. Questo ammaestramento derivante dalla storia è nell’immediato e utilizzabile in modo proficuo in numerosi campi; solo per citarne uno di bruciante attualità, può tornare utile contro la diffusione delle fake news e abbattere la predisposizione a credere alle più disparate teorie del complotto.
All’insegna della complessità è anche lo sforzo per la costruzione di spiegazioni causali. Questo tipo di spiegazioni è finalizzato a far nascere e a fortificare la consapevolezza storica. Nata come categoria impiegata dai filosofi della storia, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, se ne sono appropriati gli storici in maniera sempre più esclusiva. Si tratta di un’azione di dotazione di senso composta, in estrema sintesi, da tre fattori: la comprensione individuale e collettiva degli eventi del passato, ovvero ciò che sappiamo o crediamo di sapere del passato; i fattori cognitivi e culturali che modellano la nostra comprensione del passato, nonché la relazione tra la comprensione storica e il modo in cui pensiamo il presente e il futuro[9].
Ne discende un modo di pensare tipico della storia. Pensare storico non è la semplice conoscenza più o meno dettagliata dei fatti del passato, quanto piuttosto «l’auto-appropriazione di procedure e concetti che derivano dall’atto di fare storia»[10]. Il pensiero storico è un modo di analisi razionale che procede per gradi a partire da evidenze e che ha immediate e numerosissime applicazioni quotidiane. Eccoci – e finalmente, dico io con voi – al cuore della questione. Assodata questa descrizione seppure sommaria della storia, del suo studio e della sua pratica, cosa può e deve fare lo storico? Deve sporcarsi le mani. Lo so, la retorica dello sporcarsi le mani è diventata ormai un luogo comune che comincia a stancare. Tuttavia, provo a renderlo meno insopportabile cercando di chiarire meglio. Compito dello storico è riconoscere che parte del suo lavoro consiste proprio nello sforzo di aumentare la consapevolezza di cosa sia la storia. Provo a ribadirlo in maniera più esplicita: rafforzare questo genere di conoscenze è parte integrante del lavoro di uno studioso e ricercatore, prima ancora di essere un dovere morale. Ne consegue che lo storico di professione deve cercare di chiarire e diffondere tanto il suo metodo di lavoro, quanto le caratteristiche del tipo di sapere storico. Lo storico ha il dovere di perseguire questo obiettivo, pena l’inutilità e l’incomunicabilità del proprio operato presso i non-addetti ai lavori. Una disciplina, qualunque disciplina, è socialmente utile nella misura in cui è compresa in maniera diffusa nei suoi caratteri fondamentali. Disinteressarsi dell’incomprensione di fondo nei confronti del proprio lavoro, non può che ridimensionare la capacità dello storico di incidere sulla società e quindi essere riconosciuto come importante. A differenza di altre specializzazioni – penso alla medicina o all’ingegneria, ma anche ad alcune scienze umane, come la psicologia o la pedagogia –, il valore pratico della storia, sia per ricerca di concretezza sia in senso filosofico di morale, non è autoevidente, ma risulta comprensibile attraverso la comprensione della natura della disciplina, in quanto la sua funzionalità consiste nel metodo stesso della ricerca e dell’analisi storica. Accontentarsi che la storia continui a essere considerata una sorta di ‘memoria al quadrato’, la cui utilità sia data per scontata, quando non proclamata con orgoglio senza ulteriori spiegazioni, è estremamente pericoloso per la sopravvivenza stessa della disciplina e dei suoi specialisti. Lo storico non può quindi astenersi dall’essere insegnante, ma impegnarsi con tenacia per diffondere la comprensione della pratica stessa del suo lavoro e intervenire in modo chiaro per concorre a creare, o a consolidare, una forte coscienza storica e un pensiero storico argomentato all’interno di ogni livello della società. Più storia a scuola, quindi? Sì e no. Sì, perché la scuola è di fatto un luogo di fondamentale importanza per conseguire tali risultati; no, nel duplice senso che questo sforzo non deve essere limitato alla scuola, perché non si dovrebbe solo fare di più, al contrario – per dirla con uno spot –, si sarebbe auspicabile passare dallo studio delle ricostruzioni al laboratorio delle fonti[11].
Cosa fare, dunque? Mi preme sottolineare che la consapevolezza della necessità di intervento nella succitata direzione è andata crescendo negli ultimi decenni, divenendo evidente soprattutto in alcuni Paesi. In effetti, è anche all’interno di questo genere di istanze che si è originata una nuova – ma già attempata, avendo oramai superato gli anta[12] – branca della storia, la public history. Pur non essendo stata ancora raggiunta una definizione univoca di questa disciplina[13], si può dire in generale che la public history ha quale scopo quello di portare la storia all’interno della società. In questo senso, la public history rappresenta una «discesa della storia nell’arena pubblica, confronto con pubblici diversi, ed uso sistematico, per farlo, dei media di comunicazione di massa […] ma esprime anche la volontà di molti soggetti […] di capire più in profondità i problemi del presente alla luce della loro storia. È una pratica scientifica della storia e dei metodi storici, è soprattutto la capacità di offrire una profondità analitica agli eventi da contestualizzare e da documentare con le fonti; si tratta con il metodo storico di rendere più problematica l’analisi degli eventi»[14]. In generale lo storico, e il public historian in particolare, deve imparare a portare la storia, il suo metodo e il suo tipo di verità non solo in luoghi tradizionalmente deputati all’istruzione, ma in ogni strato della società: dalle istituzioni pubbliche – musei e archivi, ma anche amministrazioni locali e nazionali, parchi e monumenti – all’economia privata – imprese e aziende, fabbriche e agenzie che operano nel turismo –, fino a diventare parte integrante di ogni settore della comunità – associazioni culturali, società storiche, gruppi di rappresentanza di comunità locali e minoranze etnico-linguistico –.
Per far ciò, il public historian ricorre sia ai canali tradizionali della discussione accademica e didattica – come riviste specializzate, corsi universitari e percorsi di istruzione nella scuola e al di fuori di essa – sia a tutti i mezzi di comunicazione di massa disponibili, mettendosi in gioco con strumenti molto diversi tra loro: dai ‘più tradizionali’ – e penso a documentari televisivi e radio, mostre, commemorazioni, fiere e monumenti – ai più ‘eterodossi’ – prodotti di infotainment – che siano film, sceneggiati e spettacoli in genere – passando per testi divulgativi e uso di internet – blog, pagine internet, social network –, fino a dare l’assalto a nuove frontiere – come i giochi, videogames in particolare –. Più canali, quindi, nell’ottica di trasmettere non solo semplici conoscenze, ma coscienza di metodo. È questo il cammino da seguire? La pratica della public history non è né l’unica strada possibile, né quella obbligatoria per tutti gli storici. È però un esempio da tenere in considerazione e di cui fare tesoro. Lo storico deve sforzarsi di rendere accessibile al vasto pubblico non specialistico ogni aspetto della propria disciplina, oltre ai risultati in termini di ricostruzioni. La sua rilevanza dal punto di vista sociale non risiede soltanto nella conoscenza (ovvero nel ricordo dei non protagonisti) di ciò che Alcibiade fece o patì[15], quanto piuttosto nel modo in cui tale conoscenza viene prodotta.
Per concludere, insegniamo, studiamo e impariamo a fare storia.
[1] Va detto, a onor del vero, che individuare un momento di nascita della storiografia è assai meno semplice di quanto potrebbe apparire. In effetti, la storiografia greca nacque nel corso di un lungo processo di distacco da altre discipline (soprattutto il mito, ma anche l’etnografia, la genealogia e molte altre ancora), e la forma della storia-racconto come la conosciamo noi oggi ha a lungo convissuto con molte altre, come l’orografia e la cronografia. Date tutte queste premesse, continuiamo pure a chiamare Erodoto ‘padre della storiografia’, ma teniamo presente che quando si cimentò nella sua opera, la scrittura della storia era già una pratica diffusa. Si veda la traduzione italiana di A. Izzo e D’Accinni di Erodoto, Storie, 1° vol., F. Cassola, D. Fausti (a cura di), Rizzoli, Milano, 2001 e, in particolare, su questa questione, F. Hartog, The Invention of History. The Pre-History of a Concept from Homer to Herodotus. History and Theory (39), pp. 384-395.
[2] M. T. Cicerone, Dell’oratore, (II, 9), Rizzoli, Milano, 2018.
[3] Il calendario civile del nostro paese contempla le seguenti giornate del ricordo: Giornata della Memoria (27 gennaio), Giorno del ricordo degli istriani, fiumani e dalmati (10 febbraio), Giornata europea in ricordo delle vittime del terrorismo (11 marzo), Giornata della memoria per le vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice (9 maggio), Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace (12 novembre), Giornata della memoria dei marinai scomparsi in mare (12 novembre).
[4] S. Macdonald, Memorylands. Heritage and Identity in Europe Today, Routledge, London-New York, 2013.
[5] M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 2009, p. 41.
[6] J. B. Haldane, Everything has a history, Routledge New York-London, 2016.
[7] T. Judt, A Clown in Regal Purple. Social History and the Social Historians, History Workshop Journal, 7(1), pp. 66-94, 1979.
[8] J. Revel, Histoire au ras du sol. In G. Levi, Le pouvoir au village (p. I-XXXIII e, in particolare, p. XXIV). Gallimard, Paris, 1989.
[9] H. Cooper, J. Nichol, Identity, trauma, sensitive and controversial issues in the teaching of history, p. 182, Cambridge Scholars Publishing, New Castle upon Tyne, UK, 2015,; P.C. Seixas, Theorizing historical consciousness, pp. 3-24, Toronto University Press, Toronto, 2004; P. C. Seixas, C. Peck, Teaching historical thinking, in A. Sears, I. Wright (eds.), Challenges and prospects for Canadian Social Studies, pp. 109-117, Pacific Educational Press, Vancouver, 2004.
[10] S. Lévesque, Thinking historically. Educating students for the twenty-first century, University of Toronto Press, 2008.
[11] Per inciso, va detto che l’idea dell’insegnamento della storia tramite esercitazioni pratiche è tutt’altro che nuova, in quanto prassi comune per lunga parte dell’Ottocento e del Novecento nelle Università di molti Paesi occidentali sul modello degli Übungen rankiani (si veda K. R. Eskildsen, Leopold Von Ranke (1795–1886). Criticizing an Early Modern Historian, History of Humanities, 4(2), pp. 257-262; M. Middell, G. Lingelbach, F. Hadle (a cura di), Historische Institute im internationalen Vergleichœ, Akademische Verlagsanstalt, Leipzig, 2001.
Questo modus non solo non ha di fatto mai varcato le mura delle università ma è poi largamente caduto in disuso unitamente al crescere delle giuste critiche contro Ranke – mi si passi l’uso della spicciola saggezza popolare, ma si è buttato via il bambino con l’acqua sporca.
[12] Le prime riflessioni sulla disciplina risalgono alla fine degli anni settanta e il primo corso in public history fu istituito presso la New York University da Paul Mattingly e Daniel Walkowitz nel 1981. Da allora, essa ha intrapreso un percorso di crescita che l’ha portata fino a una sua completa istituzionalizzazione, entrando anche a far parte di specifici percorsi universitari in alcuni Paesi (per una succinta descrizione di questi sviluppi, si veda D.M. Dean (a cura di), A Companion to Public History, pp. 28-30, Wiley Blackwell, Malden, 2018.
[13] Per una sintetica panoramica del dibattito, si veda P. Ashton, A. Trapeznik, A. (a cura di), What Is Public History Globally? Working with the Past in the Present, Bloomsbury, London, 2019.
[14] S. Noiret, “Public history” e “storia pubblica” nella rete, Ricerche Storiche, (39), in European University Institute Library, Fiesole (FI), pp. 275-327, 2009.
[15] L’espressione è di Aristotele, che nella Poetica criticò la storia per essere, dal suo punto di vista, addirittura inferiore alla poesia, in quanto «[…] compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità. Ed infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in prosa e l’altro in versi […], ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale poi è questo: quali specie di cose a quale specie di persona capiti di dire o di fare secondo verosimiglianza o necessità, al che mira la poesia pur ponendo nomi propri, mentre invece è particolare che cosa Alcibiade fece o che cosa patì» (1451b). Si veda D. Pesce, G. Girgenti (a cura di), Aristotele, Poetica, Bompiani, Milano, 2010.
Immagine: George Grosz, Der Agitator, 1928