Il cielo sopra Kobane

L’eredità del colonialismo europeo

La cosiddetta questione curda è un crocevia in cui si intrecciano molti aspetti diversi; i sogni di un popolo, le aspirazioni e gli ideali si scontrano con più prosaici appetiti, con le ambizioni di potere e con le furie dell’interesse privato.

Basta pensare che il Kurdistan è un’area grande 450.000 chilometri quadrati, suddivisa tra Turchia, Siria, Iran e Iraq; se fosse unita politicamente potrebbe essere lo Stato più ricco del Medio Oriente, grazie alle materie prime di cui dispone. Il petrolio è presente in tutte e quattro le zone curde, in Turchia, Siria, in Iran e soprattutto in Iraq, nei pressi di Kirkuk, Mosul e Arbil, dove si concentra il 75% dell’intera produzione irachena. Questi fattori già rendono chiara l’importanza della posta in gioco. Non bisogna però sottovalutare la causa ‘efficiente’ principale di questa ferita lacerante che insanguina un’area già piena di conflitti e di contraddizioni. La questione curda, questa crepa del disordine mondiale, è un’eredità ingombrante del colonialismo europeo e si origina infatti nelle partizioni statali che si determinarono alla fine della Prima guerra mondiale; un conflitto che, sia detto per inciso, al di là delle contrapposte retoriche nazionali, per l’umanità è stato un orrendo massacro, ma da un punto di vista geopolitico si presenta come ‘un’utile strage’ ai fini della divisione del mondo tra potenze colonialiste. Gli equilibri del Medio Oriente furono stabiliti principalmente sulla base degli interessi delle nazioni vincitrici. Le nuove realtà che nascevano dal crollo dell’impero Ottomano non corrispondevano a ‘paradigmi nazionali’ come erano stati codificati in Europa e alla volontà delle élite locali; erano un compromesso sbilanciato tra gli appetiti dirompenti delle potenze europee e la stratificazione effettiva di persone, linguaggi, culture. Per il popolo curdo non c’è stato allora l’approdo di uno Stato nazionale. Le potenze vincitrici avevano previsto nel Trattato di Sèvres del 1920 uno Stato curdo, ma questo proposito fu annullato tre anni dopo, quando il Trattato di Losanna fissò i confini della moderna Turchia e non previde tale disposizione, lasciando i curdi in una condizione di minoranza nei rispettivi paesi tra cui era diviso il Kurdistan. E così i curdi, che dopo arabi, turchi e iraniani sono il quarto popolo più numeroso del Medio Oriente, sono diventati minoranza per definizione, pur essendo attualmente più di trenta milioni – rappresentano il 20% circa della popolazione in Turchia, tra il 15 e il 20% in Iraq; 10% in Iran e il 9% in Siria. Naturalmente con il consolidarsi di questa situazione e a fronte delle ricchezze emerse dal sottosuolo, i quattro Stati, in modo diverso, si sono opposti a ogni ipotesi di rinunce territoriali; paventando la nascita di una nazione curda, hanno anche tentato di annullare l’identità e la lingua di un popolo, ridimensionando le prospettive di autonomia, per evitare che diventassero la base di rivendicazioni separatiste. Questo processo ha generato un secolo caratterizzato da tentativi di raggiungere l’indipendenza o almeno di difendere l’identità nazionale, da conflitti e da repressioni. E da una singolare alleanza in funzione anticurda tra nazioni molte diverse per cultura, religione e orientamento politico.

Un popolo senza stato e cento anni di lotta
Per cento anni il ‘più grande popolo senza Stato’ del mondo ha lottato per costruire la sua patria, senza riuscire però ad avere uno stabile sostegno internazionale. Il tentativo più concreto fu la Repubblica di Mahabad, fondata in una parte del Kurdistan iraniano nel gennaio del 1946; era un progetto scaturito dalla tempesta della Seconda guerra mondiale e favorito dalla protezione dell’Armata Rossa. Ma le forze sovietiche si ritirarono e le potenze vincitrici non appoggiarono il tentativo che fu spento da Teheran in pochi mesi. Nel 1958 Mustafa Barzani, un leader curdo che aveva combattuto nella Repubblica di Mahabad, guidò una rivolta curda in Iraq; si aprì un conflitto violento che durò fino al 1970 e finì in una sconfitta. Nel 1978 Abdullah Ocalan, curdo di cittadinanza turca, ha fondato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) che ha portato avanti per decenni la lotta nazionale curda con un’impronta fortemente progressista. La lotta per un Kurdistan indipendente è stata perseguita con ogni mezzo ritenuto necessario, anche violento, e lo scontro armato tra i militanti curdi del PKK e il governo turco dura ormai dal 1984. Durante la guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), i curdi sono stati tra le principali vittime del conflitto, che ha provocato un esodo di circa sessantamila persone che si sono rifugiate in Turchia. L’Iraq di Saddam Hussein ha utilizzato armi chimiche per riprendere il controllo del Nord del paese; a Halabja, l’utilizzo di questi metodi messi al bando dalla comunità internazionale, ha provocato un bilancio di cinquemila vittime.

 

Rojava e Kurdistan iracheno
Lo sfaldamento degli Stati unitari in Iraq prima, come effetto della Guerra del Golfo, e anni dopo in Siria, come effetto della guerra civile, ha favorito la ripresa del sogno nazionale curdo negli ultimi anni. Con modalità e idealità diverse e spesso senza concordia, i curdi siriani e i curdi iracheni hanno consolidato la loro presenza e i loro spazi di autogoverno. Un evento che non si sono ritrovati nel piatto ma che si sono conquistati lottando contro l’insorgenza fondamentalista dello Stato Islamico in entrambi i Paesi e con una spregiudicata alleanza con gli Stati Uniti. L’epopea della lotta dei curdi contro lo Stato Islamico ha scritto pagine importanti a Kobane e a Mosul e ha contribuito in modo decisivo alla popolarità della causa curda all’interno dell’opinione pubblica internazionale. La Rojava ha rappresentato anche un esempio di partecipazione democratica, di visione laica della politica e di apertura ai temi del femminismo e dell’ambientalismo. Nondimeno il fallimento dell’iniziativa referendaria nel Kurdistan iracheno e gli avvenimenti siriani delle ultime settimane sembrano collocare le aspettative dentro un percorso di autonomia regionale all’interno dello Stato iracheno e di quello siriano, facendo segnare il passo alla prospettiva dell’indipendenza nazionale e della sperimentazione politica di un modello sociale diverso.

 

L’ottobre dei curdi siriani
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha comunicato al mondo l’8 ottobre la decisione di ritirare le truppe dal Nord-Est della Siria, di fatto abbandonando i curdi, le Unità di protezione popolare (YPG) e le Forze democratiche siriane (SDF) che avevano combattuto contro lo Stato Islamico, e aprendo la strada all’operazione militare turca Fonte di pace che si presentava come un’invasione della Rojava. Un’offensiva che è partita non a caso il 9 ottobre, subito dopo l’annuncio di Trump. Dopo oltre una settimana di combattimenti e numerose vittime, gli Stati Uniti il 17 ottobre hanno concordato con la Turchia un cessate il fuoco temporaneo, solo parzialmente rispettato. Il bilancio dell’operazione era a quel punto, secondo i dati provvisori dell’Osservatorio per i diritti umani, di circa trecentomila sfollati, settantuno vittime civili e trecentocinquantotto militari uccisi complessivamente fra tutte le forze in campo. Le SDF e i loro alleati hanno avuto centottantacinque perdite; le forze regolari turche hanno registrato nove morti mentre centosessantaquattro sono quelli delle milizie che li sostengono. In quei giorni di combattimenti, ci sono state ripetute violazioni dei diritti delle popolazioni civili, che sono state duramente coinvolte; ricordiamo l’omicidio, realizzato in modo efferato e dal forte significato simbolico, dell’attivista curda Hevrin Khalaf a opera di milizie arabe filoturche. Il 22 ottobre, Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin hanno raggiunto un’intesa a Sochi, nella Russia meridionale, in cui hanno concordato sulla necessità di costituire una safe zone al confine tra Siria e Turchia, di circa 30 chilometri, preclusa alle forze combattenti curde. Le Forze democratiche siriane hanno accettato le condizioni e si sono ritirate; al tempo stesso hanno trattato una convergenza con le forze lealiste siriane, allo scopo di contenere un’ulteriore avanzata dell’esercito turco e delle milizie legate ad Ankara e prevenire un’eventuale riorganizzazione dello Stato Islamico. Sulla base di questa intesa, le forze governative siriane sono entrate a Raqqa e a Kobane.

 

Un mondo che tramonta
Nelle settimane dell’ottobre siriano, Donald Trump ha reso più chiara la sua strategia e la sua visione del mondo, rendendo evidente che ci troviamo di fronte a cambiamenti importanti. Gli Stati Uniti non vogliono più sorvegliare il mondo intero e non vogliono più combattere per “questa sabbia macchiata di sangue”. Il disimpegno in Medio Oriente è l’altra faccia dell’aggressivo nazionalismo di Trump, che segue interessi più immediati, è molto attento al prosaico bilancio tra costi e benefìci, e non vuole che a ogni costo il modello americano sia alla guida del mondo, gli basta l’approvazione ben radicata dei grandi elettori. Tutti gli attori della scena geopolitica globale dovranno rapportarsi con il tramonto della NATO e di un certo ruolo degli Stati Uniti. Un mondo in cui i curdi si sentono traditi, la Russia ritorna protagonista in Medio Oriente, e la Turchia oltrepassa con tracotanza i vincoli dell’Alleanza atlantica. La questione curda si ricolloca in questo scenario, dove sarà comunque difficile costruire alleanze e rispondere alle aspettative di un popolo logorato da decenni di conflitti e strumentalizzazioni.

 

I curdi non sono angeli
Le dichiarazioni con cui Donald Trump ha accompagnato il suo disimpegno dalla Siria e l’abbandono dei curdi siriani di fronte all’avanzata turca in Rojava, rappresentano un apice anche nell’universo paradossale a cui il presidente degli Stati Uniti ci ha abituato: «I curdi non ci aiutarono nella Seconda guerra mondiale, non ci aiutarono in Normandia, per esempio» è una dichiarazione non commentabile a causa dei suoi scarsi contatti con la realtà e ha infatti costretto molti giornalisti di tutto il mondo a ricercare l’originale, perché diffidavano dell’autenticità. Un’altra battuta fuori luogo del presidente «I curdi non sono angeli» permette invece di fare una riflessione importante. Ovviamente i curdi non sono angeli, creature forse solo immaginarie, ma sono molto di più, cioè persone, esseri umani. E combattono, senza poter volare via, senza nascondersi nel cielo, con i molti limiti insiti nella condizione umana. Molte persone in perfetta buona fede e animate dalle migliori intenzioni hanno sottolineato che i curdi hanno combattuto per noi contro l’Isis, che non è giusto abbandonarli, che meritano il nostro appoggio e una patria, sull’onda del loro sacrificio. Si tratta però di concetti che rischiano di diventare insidiosi: sembra quasi che si chieda a interi popoli di meritare il loro diritto di esistere e di costruire un proprio Stato, di guadagnarselo fornendo servizi all’umanità tutta. Bisogna avere meriti speciali, bisogna ‘essere angeli’. Senza nulla togliere all’eroismo dei combattenti curdi, enfatizzare questo aspetto rischia di falsare il quadro: si ha diritto a non essere massacrati, violentati, fucilati senza processo, bombardati, anche se non si è fatto nulla di speciale, anche se si è semplicemente donne e uomini intenti alla propria vita quotidiana. Spesso chiediamo agli altri ciò che non abbiamo la forza di fare; sosteniamo i curdi e se crediamo, e se possiamo, uniamoci alla loro lotta, quando con coraggio si battono contro la tirannia e l’oppressione. Non pretendiamo, però, né da loro, né da nessun altro, meriti speciali; a tutte e a tutti riconosciamo comunque inalienabili diritti. Sperando di riuscire – e non è poco – a restare umani, non associandosi all’orrore.

curdish

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Grande come una città
Grande come una cittàhttps://grandecomeunacitta.org
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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