Negli ultimi anni è venuta affermandosi una rilettura tutta politica della lotta di Liberazione antifascista tesa a seminare dubbi e discredito sulla Resistenza. Se ne sono evidenziate le divisioni e le contraddizioni interne, gonfiati episodi marginali di vendette partigiane, nel tentativo di disconoscerne il carattere fondante dell’Italia democratica. L’operazione è stata completata da una banalizzazione del fascismo, dittatura dal volto umano, e dall’umanizzazione della figura di Mussolini, sciupafemmine di provincia, in parte succube del criminale germanico. Questo processo si è arricchito nel tempo anche di astuzia retorica, con cui un certo revisionismo sta rileggendo quel periodo storico contrapponendo alle immagini un po’ logore e poco seducenti dei vecchi partigiani quelle più empatiche dei giovani di Salò. In realtà i giovani ebbero un ruolo di primo piano nella rottura del consenso al regime e poi nella lotta di liberazione.
Proprio quei giovani di cui il fascismo si faceva vanto di esprimere le aspirazioni, i sogni e che non mancava di organizzare in strutture paramilitari, come anche culturali fortemente coinvolgenti, il cui fine ultimo però era quello di integrare, fin dai primissimi anni di età, le nuove generazioni al fascismo.
Negli anni 1935 e 1936, con l’invasione brutale dell’Etiopia e l’aggressione alla Spagna repubblicana, unitamente alla nascente retorica imperiale, si determinò un primo distacco fra il regime e gli studenti universitari. Tra i giovani maturò la consapevolezza che i processi di crescita e di modernizzazione che il fascismo prometteva attingevano risorse dai Paesi sottomessi, in contesto razzista, imperialista, oltre che nella guerra, prezzo che non erano disposti a pagare. I Littoriali, i Cineguf, perfino riviste ufficiali come Cinema, diretta da Vittorio Mussolini, e Roma fascista divennero occasione di confronto acceso e di posizioni critiche. In quei cenacoli prenderanno vita, a partire da iniziali sentimenti di distacco, i primi embrioni di resistenza alla dittatura e la futura classe dirigente, culturale e politica del Paese.
Con la Seconda Guerra mondiale, che il regime rivendica come guerra fascista, il distacco cominciò ad assumere dimensioni più ampie. Il conflitto non era quella passeggiata che Mussolini aveva prospettato: «Cento morti per sedersi al tavolo dei negoziati». Il Paese si rivelava totalmente impreparato, in breve neanche il razionamento riuscì a garantire una sufficiente distribuzione di generi alimentari, nonostante i tanto propagandati orti di guerra. Anche l’esercito, le otto milioni di baionette di Mussolini, si scoprì mal armato, senza rifornimenti e armi moderne, in balia di corruttele e raccomandazioni e, sebbene l’arruolamento fosse massiccio, i tanti fronti e la loro lontananza ne svelarono la debolezza. A partire dal 1943, con lo sbarco alleato in Sicilia e i bombardamenti su tutto il Paese, la crisi diventò palese. Il 25 luglio, dopo la riunione del Gran Consiglio, il re, nel tardo tentativo di prendere le distanze dal fascismo, fece arrestare Mussolini. L’Italia festeggiò la fine della dittatura, ma anche la pace possibile. Il governo Badoglio gelò subito quella speranza.
Quando l’8 settembre fu finalmente reso pubblico l’armistizio con gli alleati, la guerra era finita, ma ne stava iniziando un’altra. Il re, Badoglio, la corte e il governo fuggirono dalla capitale senza lasciare ordini. Roma era stata dichiarata città aperta e non avrebbe dovuto essere coinvolta dal conflitto, ma i tedeschi, che stavano ripiegando al Nord, vedendola sguarnita, decisero di occuparla. Per la difesa della città, alla Magliana combatterono il 1° Granatieri, altri soldati e numerosi civili. Le forze tedesche erano soverchianti e i difensori furono costretti a ripiegare su Porta San Paolo, dove il 9 settembre le azioni videro impegnati soprattutto civili. Alcuni provenivano da Montesacro/Valmelaina, come Riziero Fantini e i giovani Alvaro Vannucci, Giuseppe Gnasso, Corrado Fulli, Orlando ‘Lallo’ Orlandi Posti, Mario Gambigliani, Dario Funaro, un certo Berto, e Franco, un altro ragazzo della zona Ponte Vecchio.
Il 10 settembre si combatteva ancora sulla Salaria. Rainelli, Caccamo, Celli, Petrignani, Orlandi Posti, tutti giovani di Montesacro, attaccarono, nei pressi del Ponte Salario, un piccolo nucleo di avanguardia tedesca. Dopo due ore di fuoco, avendo terminato le munizioni, ripiegarono senza alcuna perdita, mentre furono tre i tedeschi uccisi. Secondo il racconto che ne farà Rainelli fu questa l’occasione in cui per la prima volta incontrò Lallo Orlandi Posti, che entrerà poi nel Partito d’Azione e sarà una delle colonne della Resistenza a Montesacro. Lallo arrivò da solo imbracciando un fucile e si distinse per il coraggio e l’intraprendenza con cui affrontava il nemico.
Caduta Roma, molti giovani si impegnarono in azioni spontanee e isolate di sabotaggio. Ci si procurava chiodi a quattro punte da amici più intraprendenti o già introdotti e si cercava di far danni agli occupanti. Questa voglia di fare qualcosa portò molti giovani verso l’attività cospirativa dei partiti che andavano riorganizzandosi nel territorio, ma confluì anche in piccoli gruppi di antifascisti combattenti, tutti permeati da un profondo spirito unitario. Questi gruppi furono l’occasione di incontro tra giovani senza alcuna esperienza politica e quelli che questa scelta l’avevano già maturata.
Tra questi l’ARSI – Associazione Rivoluzionaria Studenti Italiani, che è stata forse una delle realtà più interessanti e originali della prima fase della Resistenza italiana. Riuscì perfino a pubblicare il foglio clandestino La nostra lotta, in cui rivendicava la propria identità comunista e socialista. Il gruppo si organizzò a Montesacro per iniziativa di alcuni giovani del quartiere, fra cui Ferdinando Agnini, che ne era l’ispiratore, Nicola Rainelli e Gianni Corbi, che non abitava in zona.
Nella visione di Agnini la lotta prioritaria per la liberazione del Paese dal nazifascismo, non poteva prescindere dalla rottura con la tradizione culturale italiana, doveva suscitare il risveglio delle coscienze individuali e la formazione di una nuova coscienza collettiva. Doveva anche essere lotta per una società più giusta e libera, in una prospettiva europea. L’obiettivo era la Repubblica, garanzia della trasformazione democratica della società e della lotta a ogni forma di assolutismo.
I giovani erano il referente privilegiato perché l’Italia, una volta liberata, per trasformarsi, avrebbe avuto bisogno anche di una nuova classe dirigente.
Era un progetto ambizioso e affascinante che suscitò rapidamente molti consensi. Ne fecero parte anche Franco e Sara Caccamo, Luciano Celli, Amorina ‘Rina’ Lombardi, Mario Perugini, Luciano Palomba, Lallo Orlandi Posti, Renzo Piasco e Antonio Pistonesi.
Tra loro spiccava un nucleo di giovanissimi, fra i quattordici e i diciotto anni, che costituirono un gruppo nel gruppo: erano i caimani del bell’orizzonte Alvaro Vannucci, Giuseppe Gnasso, Corrado Fulli, Mario Belotti, Mario Condigliani e De Anna. Erano per lo più studenti del Liceo Orazio Flacco, ma tutti assidui frequentatori di una spiaggetta sull’Aniene, oltre il ponte Vecchio, chiamata bell’orizzonte, dove d’estate facevano il bagno. I caimani quando non nuotavano si incontravano al Bar Bonelli, o nei prati per interminabili partite a pallone. Erano legati da una salda e lunga amicizia che li aveva portati a maturare insieme la scelta dell’impegno e che diventò il cemento che li sostenne anche nella lotta clandestina.
Alcuni di loro avevano combattuto a Porta San Paolo e in seguito saranno sempre presenti nelle iniziative militari e politiche che l’ARSI intraprenderà nel quartiere e a livello cittadino. Presero parte a numerose azioni si sabotaggio; non si limitarono solo a tranciare il cavo telefonico del comando tedesco, ma iniziarono a sovrapporre i due tronconi legandoli tra loro per rendere più difficile l’individuazione dell’interruzione. Si specializzarono nella raccolta delle armi, prima in un deposito dell’esercito italiano abbandonato nei terreni di proprietà della famiglia Talenti, poi nella caserma dell’VIII Genio, nel cui cortile c’era un presidio tedesco. La caserma si trovava sulla sponda sinistra dell’Aniene, vicino a Ponte Vecchio. Nel mese di gennaio, faceva molto freddo. Alvaro Vannucci, che allora aveva quindici anni, attraversò ripetutamente a nuoto il fiume per prelevare fucili dal locale deposito. Con lui erano Corrado Fulli, Giuseppe Gnasso e altri, ma andò Vannucci, perché era il più giovane, con l’idea che, se lo avessero preso, avrebbe avuto più possibilità di cavarsela. Infine riuscirono a sottrarre anche le armi dalla locale caserma della PAI – Polizia dell’Africa Italiana, stabilendo poi un buon rapporto con alcuni che cominciarono a fornire informazioni.
Parteciparono anche ad azioni di propaganda e sensibilizzazione, che all’apparenza potevano sembrare più tranquille, ma che in realtà presentavano molti rischi. Una volta decisero di fare un lancio di volantini al cinema Rex, a Corso Trieste, dove proiettavano un documentario sulla liberazione di Mussolini. Un manipolo era sceso in platea, altri erano in galleria, mentre alcuni aspettavano fuori per la copertura. Al buio, al grido di “Morte al fascismo, morte a Mussolini” diedero avvio al lancio. Giuseppe Gnasso, in galleria, sentì gridare: «A noi! A noi!», e si risolse a una ritirata strategica. A scapicollo, si precipitò per le scale ma, proprio in quel momento, un gruppo di fascisti stava entrando nel cinema. Fu così che si buttò a pesce nel baldacchino della cassiera, rifugiandosi fra le sue gambe. Grazie alla complicità della donna, rimase lì parecchio tempo, con la pistola in pugno, mentre da fuori provenivano le voci di quelli che lo stavano cercando.
Alvaro Vannucci fu coinvolto anche nelle indagini che seguirono il ferimento del console della milizia Nusso il 14 dicembre 1943. Questi, che si vantava di non aver paura di niente, e rientrava in via Maiella da solo, senza scorta. Un gruppo di resistenti, probabilmente azionisti e comunisti, lo affrontò sparandogli diversi colpi senza ucciderlo. Dopo alcuni giorni Alvaro fu prelevato a scuola e condotto nella caserma della PAI per essere interrogato. Nel tragitto erano passati vicino casa sua, e lì aveva scorto altri agenti impegnati in una perquisizione. Terrorizzato per l’arsenale che nascondeva sul tetto, in caserma visse attimi di terrore. Per sua fortuna, la madre, insospettitasi per il suo andirivieni dalla soffitta, aveva fatto controllare dal fratello che, con l’aiuto di un amico, si era liberato di tutto nel fiume.
Durante l’interrogatorio furono gentili; Vannucci, d’altronde, era ancora un ragazzetto con i pantaloni corti. Erano risaliti a lui grazie all’arresto di un certo Tito, a cui avevano trovato addosso una pistola: gli agenti che conducevano l’indagine sostenevano che fosse una di quelle che aveva sparato al console Nusso. Tito confessò di averla trovata, ma che apparteneva a Vannucci. Alvaro quella pistola l’aveva sotterrata sul Montesacro e con buona probabilità Tito l’aveva visto e ne aveva approfittato. Per tre mesi la PAI continuò a prelevarlo a scuola, pranzava in caserma e poi tornava a casa. Riuscì così a diventare amico di uno di loro, poi di un altro, e li convinse a collaborare. Fu infine costretto a comparire davanti a una sezione del Tribunale militare dove si presentò sempre in calzoncini corti, rischiando di finire nei guai per essersi messo a disquisire con l’ufficiale che lo interrogava su chi fossero i veri alleati degli italiani.
Nel gennaio del ’44 i caimani parteciparono con l’ARSI al boicottaggio della ripresa degli esami universitari – il 17 gennaio alla Sapienza e il 28 alla facoltà di ingegneria a San Pietro in Vincoli –. Manifestazioni, che pur vedendo una notevole partecipazione, per garantire la possibilità di svolgere l’attività politica programmata, erano protette da alcuni studenti armati, che tenendosi ai margini dell’iniziativa ne garantivano la sicurezza.
Nel frattempo, i caimani, insieme a un’altra trentina di giovani di Montesacro, si erano avvicinati a Democrazia del Lavoro, grazie all’amicizia con Giorgio Padaia, infiltrato tra i fascisti, che si occupava di procurare armi a questa stessa organizzazione. Forte della presenza di numerosi militari, era una delle formazioni più organizzate, e la sua base, sul Monte Scalambra, riceveva gli aiuti dagli alleati. Così quando l’ARSI si sciolse per confluire nell’USI – Unione Studenti Italiani, i caimani, senza rompere i legami con gli altri membri, continuarono una lotta senza soluzione di continuità.
Per il comando tedesco, Montesacro era uno snodo strategico, sia per i cavi telefonici sia per il controllo della Salaria. I continui atti di sabotaggio e gli scontri a fuoco ne impedivano un controllo sicuro. Nel dicembre del 1943 ci fu una prima ondata di arresti. Il primo fu il generale Vito Artale, torturato a via Tasso e trucidato alle Fosse Ardeatine, poi fu la volta degli antifascisti comunisti già schedati: Riziero Fantini, Italo Grimaldi, Antonio Feurra, Raffaele Riva, Giovanni Andreozzi e Filippo Rocchi, tutti torturati e dopo un processo sommario fucilati a Forte Bravetta o alle Fosse Ardeatine. Nonostante tutto la Resistenza continuò.
Dopo lo sbarco alleato di Anzio, Roma diventò la retrovia più immediata del fronte e per i tedeschi il controllo del territorio divenne vitale. Così, agli inizi di febbraio, furono di nuovo attivate le spie – Franco Sabelli, Aristide Balestra e Armando Testorio. Quest’ultimo era riuscito a infiltrare il gruppo dell’ARSI, che divenne il bersaglio principale della nuova retata, operazione preparata con cura che in pratica decapitò tutta l’organizzazione. La polizia tedesca conosceva i nomi e gli indirizzi di ognuno e, il 3 febbraio 1944, bloccò le strade del quartiere e iniziò a girare casa per casa. Si diresse prima verso l’abitazione di Rainelli, che riuscì a fuggire dalla porta di dietro. In quel momento passava Lallo Orlandi. Amorina Lombardi fece in tempo a metterlo in guardia con uno sguardo. Lallo capì e proseguì, dirigendosi a passo spedito verso via Peralba, dove abitava Franco Caccamo. Lallo percorse di corsa strade, vie e scalette. Avvertì tutti: Roberto Croce in via delle Alpi Apuane, Emilio Palombo a viale Carnaro, Luciano Celli in via Montecristo ed Ennio Petrignani in via Monte Bianco. Non riuscì a rinunciare a un ultimo saluto alla madre e, prima di darsi alla macchia, passò per casa.
Mentre attraversava piazza Sempione per dare un ultimo sguardo a Marcella, il suo amore segreto, a cui da qualche tempo dedicava pensieri appassionati mai esplicitamente dichiarati, fu riconosciuto da Testorio e arrestato. Furono catturati anche Paul Lauffer, Renzo Piasco e Sara Caccamo. Poco più tardi, a Via Tasso, dove si era recato per chiedere notizie della figlia, fu fermato anche il padre di Caccamo. Testorio fu responsabile anche dell’arresto di Antonio Pistonesi, avvenuto il giorno dopo. L’operazione si concluse il 24 febbraio con la cattura di Ferdinando Agnini. Paul Lauffer fu fucilato a Forte Bravetta. Ferdinando Agnini, Lallo Orlandi, Renzo Piasco e Antonio Pistonesi, torturati più volte, non tradirono, e furono tra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine.
Dopo gli arresti di febbraio, che decimarono il gruppo di studenti antifascisti di Montesacro-Valmelaina, gran parte dei superstiti si unirono alle bande partigiane delle proprie organizzazioni di riferimento che combattevano sull’Appennino.
I caimani rimasero sul Monte Scalambra fino ai primi di giugno. Poi scesero verso Roma per partecipare alla liberazione della città, ma quando erano a cinque chilometri di distanza, furono fermati e disarmati dagli alleati. Forse c’era un accordo tacito, garantito dal Vaticano, per far defluire le truppe tedesche fuori dalla città senza ulteriori spargimenti di sangue, o si voleva evitare che la città si liberasse con una insurrezione popolare, come era già avvenuto a Napoli.
Attraversarono la campagna e raggiunsero la Casilina e poi infine la Nomentana. Si fermarono alla vaccheria Giuliani, una grande azienda agricola di Talenti, fino al 4 giugno, quando gli americani cominciarono a muoversi. Una volta a Montesacro furono divisi: alcuni, in cui c’era anche Giuseppe Gnasso, furono mandati al Palazzo della Stampa, a piazza Colonna, ad aspettare l’arrivo del governo, il gruppo costituiva la guardia personale di Bonomi; gli altri, Corrado Fulli, Alvaro Vannucci e un’altra decina, furono messi a guardia della Nomentana e di Ponte Tazio. Appena entrati in piazza Sempione avvistarono un carro armato in prossimità del ponte; erano controsole e lo scambiarono per un carro armato degli alleati. Gli andarono incontro salutando ma quelli aprirono il fuoco, erano tedeschi, e altri ne stavano arrivando da via Maiella. Messisi al riparo, risposero al fuoco con le poche armi che avevano, mentre i tedeschi sparavano con un mitragliatore da carro. Tempo pochi minuti, la scalinata della chiesa era ridotta a un colabrodo. I tedeschi si erano concentrati sullo slargo antistante il ponte e, con una camionetta, tenevano sotto tiro le strade d’accesso. I caimani decisero di dividersi per aggredire i tedeschi da più lati Fulli raggiunse i giardini pubblici in fondo a via Maiella. Aveva già trovato riparo, quando vide cadere in mezzo alla strada un agente della PAI colpito dalla mitragliatrice. Uscì allo scoperto e sotto una grandine di colpi riuscì a metterlo in salvo. I tedeschi intanto avevano minato il ponte e si accingevano a farlo saltare. In quel momento arrivò attraversando il Ponte Vecchio il gruppo di Giuseppe Gnasso, che era stato avvertito da Stocchi, il fornaio che si era sempre prodigato per aiutare tutti. I tedeschi, visto il movimento e temendo il peggio, fecero brillare la prima carica di mine e una campata del ponte saltò, ma non fecero in tempo a finire il lavoro e furono costretti alla ritirata.
Nello scontro di Montesacro, morirono anche due soldati americani, perché la jeep su cui viaggiavano saltò in aria in prossimità del ponte. Poco più in là, a difesa del ponte ferroviario della Salaria, fu ferito a morte Ugo Forno. Aveva appena compiuto dodici anni, l’ultimo caduto nella Lotta di Liberazione di Roma.
I caimani non si fermarono. Fulli e De Anna, che erano gli unici del gruppo in età di leva, si arruolarono nell’esercito di Liberazione e andarono a combattere al Nord. Alvaro Vannucchi e Giuseppe Gnasso provarono ad arruolarsi falsificando i documenti, ma furono subito scoperti, erano ancora due ragazzi. De Anna fu ferito e morì annegato in una pozza d’acqua.
Molti altri giovani combattenti per la libertà non hanno avuto l’opportunità, concessa ai repubblichini, di invecchiare serenamente in un Paese libero e democratico. Questo racconto ce li restituisce nel pieno della loro giovinezza, anche quelli che sopravvissuti, per questioni anagrafiche, non sono più tra noi, o giovani non lo sono più.
Antonio d’Ettorre