Se il DDL Pillon è solo l’inizio. A Verona il “populismo religioso” che minaccia i diritti

“Il diritto di famiglia va riformato. Il DDL Pillon è solo l’inizio”. Così il vicepremier Matteo Salvini, nella Giornata internazionale della donna, ha difeso e rilanciato la proposta ormai celebre, che porta il nome del senatore della Lega Simone Pillon, di modifica delle norme sull’affido dei figli in caso di separazione.

Il DDL in questione (S. 735), ricordiamolo, prevede la mediazione obbligatoria (a pagamento, e senza riguardo all’esistenza di situazioni di violenza) per le coppie con figli minori che vogliono separarsi; un “piano genitoriale” con tempi di affidamento rigidamente paritari per madri e padri; l’abolizione dell’assegno di mantenimento; l’obbligo per chi mantiene la casa familiare, nell’interesse dei figli, di versare un canone d’affitto all’altro coniuge; il rischio, per il genitore economicamente più debole (più spesso la madre) di perdere il diritto all’affidamento paritario se non dispone di spazi abitativi adeguati; la possibilità di sottrarre un minore al “genitore alienante” (leggasi: la madre accusata di ostacolare il rapporto con l’altro genitore) e di trasferirlo in casa famiglia in attesa che il “mediatore familiare” ricostruisca la sua relazione con il padre.
L’opposizione al disegno di legge è cresciuta nel corso degli ultimi mesi in modo ampio e trasversale, raccogliendo i pareri negativi tanto delle associazioni femministe, quanto delle organizzazioni a difesa dei diritti dei minori. Le ragioni del dissenso sono evidenti: è una proposta di segno paternalista e autoritario, che decreta di fatto la fine della separazione consensuale, non dà voce ai soggetti coinvolti, innanzitutto ai minori, non tiene conto delle diseguaglianze di genere esistenti, ignora il problema della violenza domestica, fa valere un astratto “diritto alla bigenitorialità” che somiglia molto a un diritto dei padri separati a rivalersi contro le ex mogli o compagne.
Per capirci, simuliamo una situazione piuttosto comune. Immaginiamo una coppia non sposata, così da togliere di mezzo il tema dell’assegno di mantenimento per l’ex coniuge. Immaginiamo che la coppia abbia uno o più figli, e che lei, come spesso accade, perda il lavoro in gravidanza o non riesca a rientrare nel mercato del lavoro a causa degli oneri di cura che gravano (quasi interamente) su di lei, mentre lui continua a lavorare e anzi avanza nella carriera. La relazione si incrina e i due consensualmente decidono di separarsi. In base alla nuove norme, l’iter prevedrebbe che ognuno dei due, a proprie spese (dividendo a metà), paghi una serie di incontri di mediazione. E già qui per una donna senza reddito cominciano i problemi. Dopodiché lei non potrà rimanere con i figli nella casa familiare, perché non può permettersi di pagare un affitto all’ex partner. Andrà, magari, a vivere dai suoi. Quindi il giudice, che dovrebbe disporre una divisione perfettamente paritaria dei tempi di affidamento (supponiamo una settimana all’uno e una settimana dall’altra), valuterà se la sistemazione della madre sia adeguata a ospitare i minori. Se non lo è, i figli restano con il padre (o con una baby sitter), e alla madre sono concessi una manciata di giorni in cui vedere i figli, che non potranno stare da lei.
Questo è solo uno degli scenari possibili. Perché potremmo anche avere il caso di una donna che subisce violenza dal partner. Il ddl prevede che sia obbligata alla mediazione, e che i figli si trovino costretti a frequentare il padre anche qualora esprimano il proprio rifiuto. La madre sarà infatti ritenuta colpevole di questo rifiuto dei figli, che invece, nei casi di maltrattamenti in famiglia, è piuttosto da imputare all’esperienza della “violenza assistita”.
Da qualunque angolo lo si guardi, il progetto Pillon appare animato da un intento punitivo verso le madri. E non è azzardato ipotizzare che il fine ultimo sia disincentivare le separazioni, ripristinando un matrimonio di fatto indissolubile, più che riformare la materia dell’affido.
La Commissione Giustizia del Senato ha da poco terminato le audizioni programmate sul disegno di legge. Le organizzazioni femministe e i centri antiviolenza gridano a gran voce che è inemendabile e va ritirato. Le dichiarazioni di Salvini portano però a pensare che il proposito della Lega sia di andare fino in fondo.
E certo non stupisce, se si considera che Salvini e Pillon, ma anche altri esponenti leghisti del governo come Lorenzo Fontana, Ministro per la Famiglia e la Disabilità, e Marco Bussetti, Ministro dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, saranno ospiti d’onore al Congresso Mondiale delle Famiglie, che si terrà a Verona dal 29 al 31 marzo. A parlare di cosa? Tra i temi congressuali troviamo “la bellezza del matrimonio”, ma anche la “salute e dignità della donna” – che abbiamo imparato a tradurre con “contrasto alla contraccezione e impedimento alle pratiche di aborto” – nonché la “tutela giuridica della Vita e della Famiglia” (maiuscolo nell’originale!).
Come recita la presentazione dell’evento, il Congresso “ha l’obiettivo di unire e far collaborare leader, organizzazioni e famiglie per affermare, celebrare e difendere la famiglia naturale come sola unità stabile e fondamentale della società”. A promuovere l’edizione italiana sono le sigle che animano i Family Day e la Marcia per la Vita: Generazione Famiglia / La Manif Pour Tous Italia, Comitato Difendiamo i Nostri Figli, Pro Vita Onlus. Ma anche Citizen Go, associazione prolife già autrice dei contestatissimi manifesti contro il “gender” (“Basta violenza di genere: i bambini sono maschi, le bambine sono femmine”) e contro l’aborto (“L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo”). Poi abbiamo l’International Organisation for the Family e la National Organisation for Marriage, entrambe dirette da Brian Brown, di cui si possono leggere prese di posizione contro i gay, le unioni omosessuali, la transessualità.
È chiaro quindi che qui non si tratta di una scampagnata della domenica per famiglie. Nonostante la copertura retorica offerta efficacemente attraverso l’appropriazione del lessico della vita, della difesa delle donne e dei minori, siamo in realtà in presenza a un consesso che propaganda l’odio verso le minoranze sessuali e la soppressione dei diritti sessuali e riproduttivi.
Ecco perché non è normale, è anzi gravissimo, che tre esponenti del governo intervengano nella kermesse che – dopo le proteste dei giorni passati e l’opposizione del premier Conte – non gode più del patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri ma pur sempre di quello del Ministero per la famiglia. Grave è anche trovare tra gli ospiti rappresentanti delle istituzioni come il Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani – distintosi di recente per l’uscita su Mussolini che “ha fatto anche cose buone” – il governatore della Regione Veneto Luca Zaia, il sindaco di Verona Federico Sboarina.
Quella che ci vogliono raccontare come una sagra dell’amore familiare è un luogo altamente politico di elaborazione di strategie transnazionali di pressione sui governi.
Un appello lanciato da ricercatrici, ricercatori e docenti dell’Università di Verona illustra bene il pericolo presentato dal Congresso Mondiale delle Famiglie: “Si tratta di associazioni diffuse a livello internazionale che si sono caratterizzate, negli anni, per precise prese di posizione relativamente a: l’affermazione del creazionismo; l’idea che la natura abbia assegnato a uomini e donne differenti destini sociali e diverse funzioni psichiche, che identificano automaticamente la donna in un ruolo riproduttivo e di cura; l’idea che il lavoro fuori casa delle donne, l’esistenza del divorzio e della possibilità di abortire siano le cause del declino demografico; il rifiuto del riconoscimento di diritti civili a configurazioni familiari al di fuori della coppia eterosessuale unita in matrimonio; l’affermazione che configurazioni familiari diverse dalla coppia eterosessuale unita in matrimonio siano, di per sé, contesti educativi e affettivi inadatti all’armonioso sviluppo dei minori; l’equiparazione tra interruzione volontaria di gravidanza e omicidio; la patologizzazione dell’omosessualità e della transessualità e di tutte le forme di orientamento sessuale e identità di genere non ascrivibili a maschio/femmina eterosessuale, e il rifiuto del pieno riconoscimento di diritti civili alle persone che manifestano queste identità; la promozione delle ‘terapie riparative’ per le persone omosessuali al fine di “ritornare” alla condizione armoniosa dell’eterosessualità”.
Inoltre, come spiega il politologo Massimo Prearo, in un contributo al volume, curato da Lidia Cirillo, Se il mondo torna uomo (Alegre, 2019), c’è un filo rosso ben visibile che unisce questi cattolici “identitari” e tradizionalisti alla destra populista e nazionalista. La difesa della famiglia tradizionale contro la “deriva omosessualista, genderista, femminista, globalista, ecc. del mondo contemporaneo” si salda con la retorica popolo vs. élite dando forma a “una sorta di populismo religioso che si sposa alla perfezione con la versione nazionalista del discorso populista che vede nelle politiche pubbliche, cosiddette filoimmigrazioniste, un attacco all’italianità ‘naturalmente’ bianca e cristiana”.
Non per caso, il Congresso gode del sostegno di una rete internazionale che unisce la Russia di Putin all’estrema destra europea (qui una buona ricostruzione di questi legami).
Ciò significa che, nonostante i facili slogan, non siamo di fronte a un manipolo di nostalgici del Medioevo, ma a interpreti di una modernissima torsione illiberale della democrazia, che maschera dietro l’opposizione alle élite globaliste e anti-identitarie una strategia di attacco ai diritti delle donne e delle minoranze sessuali ed etnico-razziali.
Ecco perché siamo costrette a credere che Salvini faccia sul serio quando dice che il DDL Pillon è solo l’inizio. Ecco perché ciò che accadrà a Verona merita la massima attenzione. Ecco perché è doveroso mobilitarsi contro questa aperta minaccia alla vita, alla libertà e alla sicurezza di tutte e tutti.

Giorgia Serughetti è ricercatrice presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di genere e teoria politica, scrive di prostituzione, migrazioni e tratta, violenza contro le donne e diritto d’asilo. Dal 2007 collabora inoltre come ricercatrice e project manager con enti pubblici e del privato sociale, come l’Associazione Parsec (Roma) e Open Society Foundations (Europa). Svolge attività di formatrice sui temi di violenza di genere, tratta, migrazioni, comunicazione corretta. Ha pubblicato, oltre ad articoli su riviste e contributi in volumi collettivi, Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne del nuovo millennio (minimum fax, 2017) con Cecilia D’Elia; Uomini che pagano le donne. Dalla strada al web, i clienti nel mercato del sesso contemporaneo (Ediesse, 2013); Chiedo Asilo: essere rifugiato in Italia (Università Bocconi Editore, 2012), con Maria Calloni e Stefano Marras; Consumatori di normalità. Giovani e droghe al tempo della crisi (Iacobelli, 2013) con Claudio Cippitelli, Pierpaolo Inserra e Laura Giacomello.

Altre pubblicazioni scientifiche qui.

Questo il suo blog.

Grande come una città
Grande come una cittàhttps://grandecomeunacitta.org
Grande come una città è un movimento politico-culturale, nato a Roma, nel Terzo municipio, per promuovere l’incontro fra le persone, creare luoghi e momenti di confronto, nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo, e nel rispetto di tutte le opinioni, etnie, religioni e orientamenti sessuali.

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