«[…] but she, being born in the body of a maid, had a spirit and courage at least the match of yours. Yet she was doomed to wait upon an old man, whom she loved as a father, and watch him falling into a mean dishonoured dotage; and her part seemed to her more ignoble than that of the staff he leaned on».
J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings, 1954
Quando leggiamo un racconto fantasy, il personaggio che risplende è in genere l’eroe. Guardiamo alle epopee di un tempo: Gilgamesh, Achille, Ettore, Ulisse, Enea, Beowulf, Artù, Lancillotto, Sigfrido; e ancora Conan, Aragorn, Elric. Tali elenchi sono infiniti – e tutti al maschile.
Ma perché dovrebbe interessarci? Ci sono donne in queste storie; Elena, Ecuba, Penelope, Didone, Lavinia, Ginevra, Isotta, Galadriel, Arwen, Polgara. La loro presenza ancillare offre l’equilibrio necessario e, se i personaggi che guidano la trama sono prevalentemente maschi, questo è solo l’aspetto tradizionale di un genere che riflette la prospettiva storica. Nessuno sta dicendo che al giorno d’oggi le donne non dovrebbero essere uguali nel mondo reale, ma dopo tutto questa è fiction.
Giusto?
No, sbagliato, e per molte ragioni.
Cominciamo con la base storica. Certo, la storia letta da J.R.R. Tolkien e dalla sua generazione era incentrata sulle grandi opere di uomini (bianchi), nell’interpretazione che rifletteva la visione del mondo vittoriana di autorità e responsabilità maschili. Ciò crea immediatamente problemi: quando l’importanza dei grandi uomini è data per scontata, è lì che si concentrerà lo storico e, a seguire, anche il narratore. Se le donne non sono ritenute importanti, perché preoccuparsi di scriverne se non nei casi in cui incidono sulla vita o sulle azioni del soggetto principale? Inevitabilmente finiranno per essere assenti o tutt’al più sullo sfondo di queste scritture. Ma se si tratta semplicemente di un portato storico, perché ancora oggi si inciampa nella visione patriarcale del fantasy? Perché la fiction è importante, e basta osservare un elenco di best-seller per adolescenti dell’ultimo decennio per vedere come domini il fantasy. Per fortuna, scrittori come la compianta Diana Wynne Jones e Philip Pullman scrivono storie che incoraggiano bambini e bambine a esplorare e discutere le visioni del mondo che potrebbero essere loro imposte, insieme ai ruoli a cui sembrano destinati e all’autorità che gli adulti esercitano su di loro. È vitale che l’epica e i ‘racconti di fate’, nella definizione di Propp che li considerava un fenomeno di carattere sovrastrutture collegato con la struttura economica, i mezzi di produzione e il regime sociale a cui corrispondono, non annullino tutto quel buon lavoro, lasciando assorbire inconsciamente nozioni di privilegio maschile in storie in cui l’importanza di una donna è sempre definita secondo la morale vigente e dove le donne che trasgrediscono i dettami dell’altro sesso sono invariabilmente punite da colpi di scena di un apparentemente indifferente destino.
Molto spesso i modelli di letteratura fantasy prendono spunto da cosmogonie note o ricostruzioni storiche. Nella storia, le donne esercitano il potere – politico, economico, militare, artistico, letterario, scientifico – in modo sia esplicito sia implicito: eppure capita non di rado che mostrare le donne al potere sia in qualche modo percepito come «irrealistico».
Sono cresciuta in un mondo in cui la storia è stata scritta da uomini bianchi in genere seduti dal lato vincente nelle contese. Questi attori della storia e le loro filosofie erano quelli che contavano, tutto il resto si poteva dunque tralasciare nella narrazione pensata per i posteri. Tuttavia l’insistenza ostinata di dichiarare irrealistica o astorica una donna al potere o con altre abilità in contesti rilevanti non può che fondarsi su ignoranza, o malafede.
La scrittrice, poeta e attivista Naomi Mitchison ha sicuramente rappresentato donne protagoniste in ruoli chiave e mai subalterne alla controparte maschile, dove presente, come in Graeme and the Dragon del 1954, o ancora Memorie di un’astronauta donna del 1962 (tradotto da Luciana Percovich, Elliot, 2016). Mitchison però è esclusa dal canone della letteratura fantasy, sia come autrice di rilievo sia nelle sue manifestazioni letterarie. Non è un caso infrequente e l’idea incamerata da questa sequenza di scrittrici ai margini del gotha allestito nel corso degli anni sembra essere che il fantastico sia appannaggio dei soli uomini e che alle donne competano altri generi.
La tradizione ha un problema col femminile: i libri che contribuiscono a definire il genere, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, sono tra i colpevoli: nel primo addirittura non ci sono donne. Non è che non ci siano donne che parlano, o che hanno almeno un paio di battute,: non ce ne sono proprio. Il Signore degli Anelli alza la media, con Galadriel e Éowyn in ruoli chiave; ma sono soltanto due in un viaggio lungo più di mille pagine. Come si diceva prima, se poi ci atteniamo alla consuetudine storica così come la studiamo a scuola, allora la presenza femminile è pressoché inesistente: c’è solo una Giovanna D’Arco in un mare di Winston Churchill.
Mentre Tolkien lascia vivere i suoi (rari) personaggi femminili in armonia, ma separati, George R.R. Martin nella saga Cronache del ghiaccio e del fuoco (tradotta da Sergio Altieri per Mondadori), sceglie di confrontarsi con le sue donne, e di farle interagire. A Cersei, per esempio, non piacciono le giovani donne, poiché ritiene che siano una minaccia al suo potere. Tormenta Sansa perché è giovane e bella, ma vede in lei un riflesso di sé. Catelyn e Brienne hanno una relazione forte, basata sulle tradizioni della cavalleria: Brienne offre la sua spada a Catelyn, per proteggerla a tutti i costi. Purtuttavia Westeros resta un luogo dominato dai maschi, e alle dame non viene assegnato nessun valore politico o militare, se non legato alla maternità e al matrimonio con l’erede giusto, con poche eccezioni. Lontano, ma non abbastanza, dall’idea di Conan il Barbaro, qui nel film di John Milius, basato sul personaggio creato da Robert E. Howard: «Conan, what is best in life? To crush your enemies, see them driven before you, and to hear the lamentations of their women!» (Conan the Barbarian, 1982).
Nella saga young adult Twilight di Stephenie Meyer (in Italia tradotta da Luca Fusari per Fazi), la protagonista Isabella Swan vive nello spazio di quattro libri solo per l’amore del suo bello, il vampiro Edward Cullen; come una Pinocchio senza il battesimo di Fata Turchina, non sembra muoversi di volontà propria. Ben lontana dalla ostinata, indipendente Hermione Granger di J.K. Rowling, autrice della fortunata (e con buone ragioni) saga di Harry Potter, forte di sette libri, otto film e una fama planetaria trasversale: peccato poi per la sua risaputa e controversa posizione conservatrice e sessista, che non ha intenzione di schiodarsi o perlomeno di astenersi dal fare commenti smaccatamente TERF – Trans-Exclusionary Radical Feminist.
È allettante usare come alibi, per queste narrazioni, la verosimiglianza storica. Eppure, occorre ricordare che non esiste un continente chiamato Terra di Mezzo, o i Sette Regni di Westeros. Ignorare completamente la presenza delle donne o relegarle in pochi ruoli marginali è un allontanamento molto maggiore dalla realtà che non piazzare qualche orco su lupi mannari.
Nella serie Crossroads di Kate Elliott (pseudonimo della scrittrice americana Alis A. Rasmussen), i personaggi femminili esercitano il potere in modi che ricordano i racconti di fate di tutto il mondo, attingendo a paradigmi fantastici comuni. Dannarah e Sarai tentano di cambiare il proprio destino in modi completamente diversi, eppure non c’è dubbio che siano entrambi personaggi chiave nei romanzi, rifiutando fermamente determinati tropi, e rimodellando le aspettative del lettore contro gli stereotipi patriarcali.
Akwaeke Emezi si spinge ancora oltre: in Acquadolce (traduzione di Benedetta Dazzi, Il Saggiatore, 2019) la protagonista Ada è una ọgbanje, il suo corpo abitato dagli spiriti. Emezi oltrepassa il binarismo di genere affrontando il tema della gender fluidity e l’autodeterminazione nel costruire l’identità di Ada. Il romanzo di Emezi mette in luce spazi esclusivamente femminili e identità cangianti portandole al di fuori della tradizione bianca occidentale. Ada è presente nel romanzo e il suo «viaggio dell’eroe» è segnalato dal cambiamento del pronome che la riguarda: si passa da lei a loro (they nell’originale inglese, che è anche il pronome con cui si identifica la pluralità che risponde al nome di Emezi).
Margaret Atwood, un’altra scrittrice che si è cimentata col fantastico e ha spesso attinto dal ricco bagaglio della fiabe, soleva dire che «le donne, come i canadesi, sono state colonizzate, vittime di un imperialismo culturale» e forse non ci si può attendere che uno fra i generi più implicitamente conservativi – poiché affonda le proprie radici nella tradizione del mito e della storia – possa nel volgere di pochi anni offrire una pluralità prospettica pienamente contemporanea.
Riscoprire una tradizione eretica, stregonesca e femminile, stilare un manifesto per un fantasy femminista che lo sottragga al brodo di maschilismo in cui a lungo si è trovato può e deve essere una priorità delle donne del fantastico. Leggere Octavia Butler anziché Lovecraft per esempio, più Wonder Woman meno Fred Flintstone, visto che il patriarcato ci ha privato del cognome di Wilma da nubile.
Immagine: Dante Gabriel Rossetti, Joan of Arc (particolare), 1864.
Giorgia Sallusti