Quarantuno anni dopo la rivoluzione che portò alla nascita della Repubblica islamica, l’Iran vive la più grave crisi internazionale dai tempi della guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein (1980-1988). Cosa sta davvero accadendo in Iran? E dove può portare questa crisi?
Il principale errore che si rischia di commettere quando si parla di Iran è rappresentarlo come un’entità monolitica, un soggetto unico che parla con una voce sola e agisce di conseguenza. Contrariamente all’immagine che ne danno la maggior parte dei media occidentali, quello di Teheran è un sistema complesso e tutt’altro che statico. Il 2020 si preannunciava già problematico prima della decisione di Donald Trump di uccidere a Baghdad il generale dei pasdaran, Qassem Soleimani. Problemi interni e tensione internazionale. Andiamo con ordine.
Le proteste di novembre
Il 15 novembre 2019 il governo iraniano ha deciso di ridurre i sussidi relativi all’acquisto di benzina, determinando così un aumento del 50% del prezzo del carburante. In pratica, ogni cittadino iraniano può ora comprare fino a 60 litri di benzina al mese a 15.000 rial, cioè circa 32 centesimi di euro al litro, mentre ogni litro in più costa 80 centesimi. Prima di questo provvedimento, in un mese si potevano acquistare in un mese 250 litri a circa 0,25 euro al litro. Per le abitudini e la cultura iraniana, si è trattato di un vero shock. Le proteste sono scoppiate in diverse città, con violenze diffuse soprattutto in alcuni centri nel sud del Paese. Per una settimana le autorità hanno chiuso internet, per cui non si ha una stima esatta delle vittime: Amnesty International ha parlato di almeno 106 morti e mille persone arrestate.
Il problema economico di fondo
Va tenuto in considerazione un dato economico fondamentale: l’Iran – a causa delle sanzioni decise da Trump – oggi esporta molto meno petrolio rispetto al recente passato. Il prossimo anno (il 1399 del calendario persiano inizia il 20 marzo 2020) “soltanto” il 30% del bilancio statale dell’Iran si baserà sull’export petrolifero: dieci anni fa era il 60%. Secondo la Banca Mondiale, nel 2017 il petrolio rappresenta il 17%del PIL iraniano: un patrimonio dunque ancora fondamentale, ma non più sufficiente. Tagliare i sussidi è perciò un primo passo quasi inevitabile. A cui però dovrà necessariamente fare seguito un cambio di prospettiva: se l’Iran vuole sopravvivere dovrà rivedere la sua politica fiscale assolutamente inadeguata. Più in generale, a giudicare dal budget presentato l’8 dicembre dal presidente Hassan Rouhani, l’intervento dello Stato nell’economia diminuirà. Come ha scritto Rahman Bouzari, giornalista del quotidiano riformista Shargh, siamo probabilmente di fronte a quella che Antonio Gramsci avrebbe definito una crisi organica. Una fase, cioè, in cui la classe governante non è più in grado di produrre consenso sociale. Non è cioè soltanto la questione del prezzo della benzina, ma la difficoltà della Repubblica islamica a dare risposte ai propri cittadini a livello politico, economico, ideologico e sociale. Parliamo di un Paese di 82 milioni di persone, il 75% delle quali nato dopo la rivoluzione, inserito ormai in un contesto culturale globale che spesso stride con le regole imposte da una forma di Stato unica nel suo genere. Però attenzione: non si può paragonare l’Iran alle autocrazie di molti Paesi del Medio Oriente, quali la Siria degli Assad o lo stesso Egitto di al-Sisi. L’Iran, come ha scritto lo studioso francese Bernard Hourcade, «non è una democrazia ma è una repubblica». È probabilmente il Paese del Medio Oriente in cui si vota di più e in cui la scelta dell’elettorato – limitata certamente dal vincolo della fedeltà ai princìpi del velayat-e faqih – il “governo del giureconsulto” incide in modo evidente sulle sorti del Paese. E in Iran si voterà il 21 febbraio per il parlamento, in un clima fortemente condizionato dalla crisi internazionale apertasi dopo l’assassinio di Soleimani.
La crisi con gli Usa
Dopo aver raggiunto nel 2015 lo storico accordo sul nucleare con l’amministrazione Obama, i rapporti Teheran e Washington sono peggiorati rapidamente dopo l’elezione di Donald Trump, che ha ritirato unilateralmente gli Usa dal JCPOA nonostante l’AIEA avesse certificato per quattordici volte il pieno adempimento da parte iraniana agli obblighi contratti. Per tutto il 2019 si sono alternati momenti di tensione e timidi spiragli di dialogo. Tutto è precipitato negli ultimi giorni dell’anno: in Iraq le milizie sciite legate a Teheran sono entrare in rotta di collisione con le forze militari Usa. La sequenza è stata rapida e devastante: la morte di un contractor (iracheno con passaporto americano) ha innescato la rappresaglia statunitense, col bombardamento di una base sciita e 25 morti. Da lì, l’assalto all’ambasciata Usa, compiuto col consenso e la complicità delle forze dell’ordine irachene. Nessuna vittima, in questo caso. Quando la situazione sembrava rientrata, il 3 gennaio Trump ha optato per un’azione tanto sorprendente quanto apparentemente illogica. Nel raid sono stati infatti uccisi – tra gli altri – Abu Mehdi al-Muhandis, ufficiale di un Paese (l’Iraq) alleato degli Usa, e Qasem Soleimani, generale di un Paese (l’Iran) con cui gli Usa non sono formalmente in guerra. Non solo: con Soleimani gli americani hanno eliminato il loro principale interlocutore in Iraq e nella lotta all’Isis, l’uomo con maggiore esperienza e visione strategica a livello regionale. Non è esatto definire Soleimani ‘numero 2’ del regime: a livello interno era un personaggio complesso, non schierato con una fazione politica particolare ma molto influente in politica estera. Detestato da chi lo associava agli aspetti più autoritari e repressivi della Repubblica islamica, era indubbiamente molto popolare in quanto protagonista della ‘guerra imposta’ contro l’Iraq prima e della lotta all’Isis poi.
La successiva rappresaglia iraniana – 22 missili a corto raggio contro due basi militari in Iraq, ufficialmente senza vittime – è una dimostrazione di forza e allo stesso tempo di auto-controllo. Una risposta era inevitabile ma è stata addirittura annunciata dal governo iraniano a quello iracheno, che a sua volta ha avvertito gli Usa. Nessun effetto sorpresa: né Teheran né Washington vogliono la guerra, non adesso. Ma la crisi ha comunque provocato delle vittime: l’abbattimento ‘per errore’ del volo ucraino (176 morti, di cui 147 iraniani) da parte della contraerea iraniana è senza dubbio un risultato della crisi aperta con l’uccisione di Soleimani.
La tragedia – le cui dinamiche sono ancora molto oscure – rappresenta una ferita profonda tra il sistema politico e l’opinione pubblica del Paese. Se i funerali di Soleimani avevano dato l’impressione di una rinnovata unità nazionale, adesso per la Repubblica islamica sarà difficile recuperare questo disastro umanitario e politico. Le elezioni politiche di febbraio segneranno con ogni probabilità uno spostamento ‘a destra’: il futuro parlamento a maggioranza conservatrice condizionerà ancora di più il presidente moderato Rouhani.
In prospettiva, molto conterà dalle elezioni americane di novembre e delle presidenziali iraniane nel 2021.
Sarà un anno lunghissimo.
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Antonello Sacchetti
Giornalista, blogger, autore di diversi libri sull’Iran. Twitter: @anto_sacchetti