ANTROPOCENE – un’introduzione
1. Anche se non è un concetto necessario per orientare la vita quotidiana, nella quale sono più che sufficienti la data del giorno e un orologio, dal punto di vista del tempo ‘lungo’, il nostro mondo sedentario si dispiega all’interno dell’Olocene, l’epoca geologica cominciata 11.650 anni fa. Il nome Olocene deriva dal greco ὅλος (holos, intero) e καινός (kainos, nuovo), che significa perciò “interamente recente”; la sua origine coincide con la fine dell’ultima Era glaciale (Würm), la cui massima espansione delle calotte ghiacciate si ebbe tra 31.000 e 18.000 anni fa, quando iniziò il lento scioglimento. In questo scenario con la scomparsa dei Neanderthal e delle altre specie, i Sapiens rimangono gli unici Homo e contemporaneamente al disgelo prende il via una trasformazione profonda e veloce della loro presenza sulla Terra che li introduce nell’Epoca del Neolitico, coincidente – più o meno – con i primi 5000 anni dell’Olocene geologico.
Le condizioni climatiche determinate dall’ingresso nella fase interglaciale in cui tuttora ci troviamo, permettono a diversi gruppi di Sapiens il passaggio definitivo dalla cultura di caccia e raccolta a un’economia di tipo produttivo, grazie all’avvio della domesticazione sistematica di piante e animali. È un processo complesso che si realizza nell’arco di periodi differenti in diverse aree geografiche, ma il risultato complessivo è la sedentarizzazione di ‘grandi’ gruppi umani presso i primi centri urbani a cominciare dall’area mesopotamica e nilotica (Mezzaluna fertile 11000 a.C.), poi presso i bacini del fiume Yangtze e del Fiume Giallo (9000 a.C.), le Highlands della Nuova Guinea (9000 – 6000 a.C.), il Messico centrale (5.000 – 4.000 anni fa), il Sud America del Nord (5.000 – 4.000 anni fa), l’Africa sub-sahariana (5.000 – 4.000 anni fa), il Nord America orientale (4.000 – 3.000 anni fa).
In questo periodo, precisamente 13mila anni fa, la popolazione globale è stimata da complessi calcoli demografici tra gli 8 e i 10 milioni di esseri umani con un ritmo di crescita che ne ha determinato il raddoppio all’incirca ogni 2000 anni. All’inizio del I sec. d.C. il Mondo era abitato da 250 milioni di Sapiens, dei quali 40 milioni nell’Impero romano, 50 milioni in Cina e 35 nel sub-continente indiano. Sono dunque occorsi oltre 200mila anni di evoluzione dalle origini di Homo Sapiens (poche centinaia di individui) per raggiungere il primo miliardo (nel 1800) e solo 200 anni per arrivare nel XXI sec. a superare i sette miliardi. In conseguenza di questo dato con le sue enormi implicazioni ambientali, si è cominciato a pensare che l’Olocene dovrebbe essere considerato concettualmente superato e sostituito con la definizione di Antropocene, nel senso di ‘Età dell’Uomo’.
Si deve al geologo e sacerdote italiano Antonio Stoppani, zio di Maria Montessori, l’intuizione dell’effetto potente prodotto dall’umanità sui sistemi terrestri, per cui egli propose l’idea di un’‘era antropozoica’. Figura eminente delle scienze geologiche, patriota risorgimentale su posizioni liberali, l’abate Stoppani fu tra l’altro autore di un celeberrimo long seller su cui si formarono diverse generazioni di italiani: Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d’Italia (1876). Il suo ritratto, sebbene per i più totalmente svincolato dall’opera scientifica, è molto noto perché campeggiava in un tondo all’interno dell’etichetta del formaggio Belpaese, ideato nel 1906 da Egidio Galbani, e ispirato dal libro del presbitero lombardo, il quale a sua volta riprendeva per il titolo della sua guida un verso di Petrarca: “il bel paese ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda et l’Alpe” (Canzoniere).Stoppani, nel suo testo Corso di geologia in 3 vol. (1873), descriveva lucidamente l’attività umana come “una nuova forza tellurica che in potenza e universalità può essere paragonata alle maggiori forze della terra”. Se è lo scienziato italiano a formulare il neologismo che introduce all’Antropocene, dieci anni prima George Perkins Marsh aveva pubblicato negli USA Man and Nature; or, Physical Geography as Modified by Human Action (1864), la prima analisi sistematica dell’effetto distruttivo dell’umanità sull’ambiente naturale, un’opera che si pose alla base del neonato movimento ambientalista dal quale prenderà forma il primo parco nazionale al mondo: Yellowstone (1872), uno dei più grandi ecosistemi intatti della zona temperata rimasto sulla Terra (poco più esteso dell’Umbria). La realizzazione fu compiuta durante la presidenza del repubblicano Ulysses S. Grant, eletto alla fine della Guerra Civile per occuparsi della ricostruzione. Gli storici considerano generalmente il suo mandato come “corrotto e incompetente”, tuttavia non mancano di evidenziare il deciso impegno dell’ex generale a favore del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Va ricordato che all’epoca il Partito Repubblicano era collocato a sinistra, mentre i democratici occupavano il centro-destra (il centro-sinistra e la destra non esistevano ancora in USA).
Prima della fine del secolo arrivano anche le prove scientifiche sul ruolo della CO2 nel riscaldamento atmosferico: è il 1895 e il chimico e futuro premio Nobel Svante Arrhenius presenta alla Società fisica di Stoccolma il documento “Sull’influenza dell’acido carbonico nell’aria sulla temperatura del suolo”.
La coscienza che l’impatto antropico sul pianeta costituisca un dato assai rilevante, entra nel Novecento e prende poi un nuovo impulso all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, principalmente per l’effetto che ha sull’opinione pubblica mondiale l’uso della bomba atomica sui civili giapponesi, insieme al successivo intensificarsi della corsa alle armi nucleari durante la Guerra fredda.
La capacità distruttiva delle testate nucleari possedute dai due principali contendenti all’inizio degli anni sessanta, fu evidenziata da un intervento di Einstein reso noto da Bertrand Russell appena dopo la sua scomparsa nell’aprile del 1955. L’appello ammoniva che «le maggiori autorità [scientifiche] sono unanimi nel ritenere che una guerra con bombe all’idrogeno potrebbe molto probabilmente porre fine alla razza umana». Questa consapevolezza penetra nella letteratura e nel cinema, dove nella forma della fantapolitica il grande pubblico prende contatto anche ‘visivo’ con i possibili scenari distopici.
Nel 1964, appare nelle sale Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, uno dei capolavori di Stanley Kubrick che meglio di chiunque altro rappresenta la pericolosa follia di un’egemonia militare contesa tra russi e nordamericani. La sceneggiatura è liberamente basata sul romanzo Red Alert (1958) di Peter George, il quale con Terry Southern – poi firma di Easy Rider (1969) – e lo stesso Kubrick, scrive anche l’adattamento cinematografico. Il dottor Stranamore è notoriamente un ex nazista consigliere del presidente USA, magistralmente interpretato da Peter Sellers, impegnato anche in altri due ruoli, con un braccio reminiscente pronto a scattare nel saluto hitleriano per svelare grottescamente la natura degli eventi discussi nella leggendaria War Room. L’anno successivo anche Peter Watkins realizza il suo capolavoro, il mockumentary The War Game, dove mette in scena un attacco nucleare sovietico contro l’Inghilterra illustrando con realismo impressionante l’escalation che ha condotto a una tale distruzione. Commissionato dalla BBC per la serie The Wednesday Play, il docudrama sarà giudicato dai dirigenti “orribile per il pubblico televisivo” e vietato con trasferimento in sala, questo lo spingerà alla vittoria dell’Oscar per il miglior documentario nel 1966. The War Game è infine trasmesso dalla tv per la prima volta in Gran Bretagna dopo vent’anni, il 31 luglio 1985, durante la settimana precedente il quarantesimo anniversario del bombardamento di Hiroshima.
Durante gli anni della Guerra fredda, il Pianeta conosce anche l’impatto quotidiano della ‘plastica’. La sua storia era cominciata a metà del XIX secolo, ma il termine come lo conosciamo ancora oggi nel suo significato di oggetti presenti nella vita di tutti i giorni s’impone dagli anni ’50 del Novecento, quando Karl Ziegler sintetizza il polietilene (1953) e Giulio Natta produce il polipropilene (1954). Più che meritatamente i due chimici nel 1963 vinceranno il Nobel per i loro studi sui polimeri.
L’Italia, ancora impegnata nella ricostruzione postbellica, celebra entusiasta il grande scienziato ligure e commercializza l’invenzione con il nome Moplen. Il pubblico televisivo entra nell’industria chimica attraverso Carosello e il volto burroso di Gino Bramieri, scelto come testimonial per il lancio di prodotti i più diversi realizzati in ‘plastica’, economici e indistruttibili. Proprio quest’ultima caratteristica appare all’inizio sottovalutata, ma la diffusione globale dei nuovi materiali – si pensi pars pro toto ai mattoncini giocattolo più famosi del mondo proposti dalla LEGO – indurrà presto a prefigurare una nuova fase storica. Dopo le età della pietra e quelle dei metalli, da più parti si propose di descrivere la seconda metà del Novecento come l’ingresso nella ‘età della plastica’.
A distanza di mezzo secolo, le prove sono inconfutabili e un recente articolo pubblicato su Science Advances nel settembre 2019 (Multidecadal increase in plastic particles in coastal ocean sediments, di Jennifer A. Brandon, William Jones e Mark D. Ohman) conferma che dagli anni ’40 del Novecento a oggi, la concentrazione di residui di plastica nel fondale oceanico è raddoppiata ogni 15 anni. Tra la fine degli anni ’80 e la metà dei ’90 fa la sua comparsa nel dibattito scientifico, l’isola di plastica del Pacifico. Oggi, di isole chimiche negli oceani se ne contano sei e le dimensioni complessive, così come la quantità in tonnellate, sono oggetto di verifica; tuttavia i numeri indicativi sono impressionanti: decine di milioni di km² e diverse centinaia di milioni di tonnellate, con un impatto devastante sulle creature marine, dal minuscolo cavalluccio alla gigantesca balena azzurra.
Un mutamento profondo del rapporto tra esseri umani e ambiente si collega al ruolo culturale che hanno svolto le giovani generazioni dalla metà degli anni sessanta alla fine degli anni settanta. Certamente la data simbolo è il 1968, ma l’esplosione di quella ribellione affonda le radici nel lustro precedente ed estenderà i suoi effetti nel lungo decennio successivo, formando complessivamente le coscienze di almeno un paio di generazioni. Dalla distanza storica che ci separa dagli eventi, è stato possibile eseguire la tara tra l’impulso ideologico del momento e gli effetti di lunga durata, consentendo agli scienziati sociali di definire complessivamente la natura profondamente culturale dei ‘movimenti giovanili’.
Gli eventi più indicativi che nell’immediato determinarono la risposta conflittuale della generazione postbellica nei confronti dei ‘padri’, furono connessi con il rifiuto della guerra (il Vietnam su tutti) che nasceva dall’angoscia di una escalation nucleare, oltre all’istinto di conservazione liberato dalla retorica della ‘patria’, per cui non si era più disposti a versare sangue da coprire con una bandiera sulla bara; l’opposizione a un modello di sviluppo incardinato sul ‘consumismo’ e la crescita tendenzialmente infinita, uniti alla retorica di un’etica del lavoro di stampo religioso, fondata cioè sulla morale protestante su cui prevaleva l’accezione calvinista; la critica politica al modo di produzione capitalista del quale si evidenziava l’inconciliabile struttura di classe con la democrazia, in virtù di come questa fu ridefinita dopo la fine del secondo conflitto mondiale; il processo di decolonizzazione determinato dal definitivo collasso degli imperi europei che squadernò il problema antropologico dell’alterità (con l’Africa al centro del dibattito) riguardo ai fondamenti della carta dei diritti vergata dall’ONU nel ’48.
La condizione reggente di questo scenario storico in termini geopolitici è nota come Guerra fredda, sicché con il crollo del Muro nel 1989 – benché a fronte della mancata soluzione di quei conflitti – vennero meno i presupposti ideologici per ritenere che le forme di lotta potessero continuare a essere le medesime. In effetti, nello stesso periodo – diciamo 1950-1989 – si gettavano le basi di due essenziali processi di trasformazione della società: la reazione del sistema politico-economico che attraverso una violenta scalata egemonica impone la teologia economica del liberismo radicale (infiltrando potentemente le scienze umane con il proprio paradigma epistemologico per occupare le Università e la Ricerca); la rivoluzione tecnologica determinata dall’avvento dell’intelligenza artificiale che avvia il rapido mutamento del lavoro (robotizzazione in fabbrica, computer in ufficio) e della comunicazione culminato con l’avvento di Internet. Ciò che rimane costante, dunque capace di attraversare le contingenze del momento, è proprio la visione del rapporto tra umanità e ambiente, di cui le culture giovanili, fra tutti gli ‘hippies’ nell’accezione più ampia, furono potentissimi propulsori.
Il ripensamento radicale del modo di vivere quotidiano, ponendo l’attenzione sul benessere psicofisico, sia nella relazione con la Natura, in termini di ‘verde pubblico’, sia nella fondamentale questione della qualità dell’alimentazione con il rifiuto del consumo abnorme di carne quale testimonianza del benessere riconquistato dopo la fame bellica, è un tratto culturale capace di farsi ‘tradizione’ e varcare il momento sociale per divenire costituente storico. In buona sostanza, Greta Thunberg non è un funghetto spuntato all’improvviso, ma la più nota pronipote dei movimenti giovanili emersi negli anni cinquanta e la sua forza capace di mettere tanta paura viene esattamente da questo, sicché la marmaglia di calunniatori, al cui vertice si pone l’attuale inquilino della Casa Bianca, deve ricorrere alla menzogna e all’argomento ad hominem per giungere non di rado all’insulto vero e proprio nello stolto tentativo di zittirla. Greta, non va dimenticato, è anche una donna e questo la pone all’interno di un ampio e complesso discorso che va di là dello stesso tema dell’ambientalismo, facendone una protagonista della storia dei movimenti femministi che precedono la seconda metà del Novecento e affondano le radici nel XIX secolo, per approdare alla fiammata degli anni ’60 e ’70 in cui il ruolo delle donne fu linfa vitale della più ampia rivolta giovanile e operaia.
È in questo contesto che dallo specialismo delle discipline scientifiche irrompe nel linguaggio quotidiano l’Ecologia, formalizzata nella seconda metà dell’800 dallo zoologo Ernst Haeckel e dal botanico Eugenius Warming. Quasi contemporaneamente fa pure la sua comparsa nel dibattito, il correlato termine ‘ecocidio’, usato per la prima volta oltre il suo confine originario (“distruzione di città”) dal botanico e studioso di bioetica Arthur Galston nel 1970 con riferimento all’uso del napalm in Vietnam, e poi ripreso da Olof Palme alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972.
Con queste premesse, il discorso pubblico si domanda quale direzione abbia preso l’umanità – a partire proprio dal concetto di umano – e cosa stia succedendo al Pianeta nel quale siamo evoluti, prendendo atto dall’osservazione oggettiva di un impatto dai contorni già devastanti. Il cinema, per sua natura più efficacemente della letteratura, dalla quale comunque attinge, offre un importante contributo attraverso molteplici opere d’autore e di genere; in quest’ultimo ambito si può rilevare la diffusione e proliferazione dei sottogeneri come il catastrofico, la fantascienza distopica a sfondo ambientalista, al cui vertice si pone Planet of the Apes del 1968 (Il pianeta delle scimmie) e l’orrore, in cui emerge l’interessante sotto-filone ‘Natural horror’, dove le forze naturali, più spesso in forma di animali o piante, rappresentano una minaccia per gli umani. Il capolavoro e capostipite è certamente The Birds, di Alfred Hitchcock (Gli uccelli, 1963), mentre nel decennio successivo si segnala Day of the Animals di William Girdler (Future animals, 1977) per il quale fu formulato lo slogan promozionale: “For centuries they were hunted for bounty, fun and food…now it’s their turn!” (Per secoli sono stati cacciati per guadagno, divertimento e cibo… ora è il loro turno!). Long Weekend è invece un notevolissimo film australiano archetipo dell’‘Eco-horror’, realizzato nel 1977 da Colin Eggleston e distribuito l’anno successivo. In un’intervista, il regista ha dichiarato: «La mia premessa era che Madre Natura avesse il proprio sistema immunitario, e che, se gli esseri umani iniziano a comportarsi come cellule cancerose, Lei attacca». Al confine tra sci-fi e orrore, c’è poi il nodale Phase IV (1974) unico film da regista dell’illustratore e maestro dei titoli di testa Saul Bass. Quando le formiche in Arizona manifestano un comportamento aggressivo da super-evoluzione, due scienziati discutono se sia meglio cercare di annientarle o tentare il dialogo attraverso un linguaggio matematico. Fiasco al botteghino, Fase IV: distruzione Terra si conquista col tempo un meritato posto tra le pellicole di culto per il sagace mix di generi e l’acuto impianto filosofico, oltre alle memorabili immagini girate in macro degli intelligenti imenotteri negli inquietanti formicai.
Tuttavia la sintesi visionaria con in grembo l’Antropocene è il capolavoro Koyaanisqatsi: Life Out of Balance, un documentario scritto e diretto da Godfrey Reggio, il cui titolo deriva dall’omonimo Koyaanisqatsi termine che nella lingua dei nativi americani Hopi significa “vita senza equilibrio”. Il film è una pura, grandiosa esperienza visiva realizzata da sole immagini e una pregevole colonna sonora di Philip Glass, frutto di un complesso lavoro per cui il regista ha impiegato quattro anni di riprese e due di montaggio. Cominciato nel 1975, il film – con il sostegno dell’ammiratore Francis Ford Coppola – è infine distribuito in sala nel 1982 (si trova in versione accettabile su Youtube).
2. L’idea dell’abate Stoppani (Antropozoico) riaffiora perfezionata nella forma Antropocene in una rivista del 1960 specializzata nelle traduzioni in inglese di articoli scientifici prodotti dall’Unione Sovietica (Doklady Biological Sciences, volume 132–135, Washington, D.C., American Institute of Biological Sciences). Lentamente il termine si propaga nella ristretta cerchia accademica ed è usato informalmente negli anni settanta, finché il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ne propone una ridefinizione dialogando con il collega biologo Eugene Stoermer. In circolazione dagli anni ottanta anche fuori dall’accademia, il neologismo entra pienamente nella sfera pubblica per definire l’impatto dell’uomo sul pianeta all’inizio del XXI secolo. Nel 2008, il geologo Jan Zalasiewicz suggeriva sulla rivista scientifica GSA Today che parlare di epoca ‘antropocenica’ è appropriato per rendere evidente la successione di eventi dall’Olocene, marcando la differenza costituita dalla potenza umana sul Pianeta. In un articolo a quattro mani del 2011 (Zalasiewicz, Williams, Haywood e Ellis, in Philosophical Transactions of The Royal Society) dal titolo The Anthropocene: a new epoch of geological time?, gli Autori sostengono che «L’Antropocene, secondo le prove attuali, sembra mostrare un cambiamento globale coerente con la proposta che un limite di epoca sia stato attraversato negli ultimi due secoli». Questa affermazione è stata possibile perché Zalasiewicz ha guidato un team di ricerca costituito da decine di colleghi su base volontaria, che ha tra l’altro osservato un elemento materiale decisivo: durante l’Olocene, la quantità di CO2 nell’aria, misurata in parti per milione (ppm), era compresa tra 260 e 280, i dati del 2005, l’anno più recente registrato all’inizio dal gruppo di lavoro, mostravano invece che i livelli avevano raggiunto le 379 ppm, fino a 405 ppm nel 2011. Le altre condizioni oggettive riguardo allo stato del Pianeta, evidenziavano mutamenti profondi registrati a partire dall’inizio del Novecento: contrazione dei ghiacci marini ai due Poli, sbiancamento delle barriere coralline, estinzione di centinaia di migliaia di forme di vita e specie animali, deforestazione incontrollata per agricoltura e allevamento, collasso della biodiversità terrestre e marina, principalmente dovuto all’invasione umana (per l’espansione urbana) e le necessità produttive: cibo, materie prime, combustibili fossili, dighe, ferrovie, autostrade ecc.; per comprendere l’impatto antropico sulla biosfera, si può considerare un esempio: il pollo da carne (Gallus gallus domesticus), inesistente in natura, domesticato 3500 anni fa nell’area delle popolazioni austronesiane e selezionato nel corso di migliaia di anni, è oggi presente ovunque con 23 miliardi di esemplari (numero crescente), essendo perciò il vertebrato più diffuso sulla Terra; va da sé che i resti fossili delle sue ossa, saranno stratigraficamente significativi per gli archeologi del futuro. Last but not least, la presenza della plastica nei sedimenti marini la quale, seppure recente, può ormai essere indicata dai geologi per contribuire a datare l’inizio dell’Antropocene, insieme alle ‘polveri radioattive’ degli esperimenti nucleari depositate sul suolo di mezzo mondo durante la Guerra fredda.
Il compito di dare un’età alla Terra e classificare i periodi intermedi di un tempo così lungo, è dalla metà del XIX secolo attribuito alla geologia.
Fino al XVI secolo in Europa nessuno metteva in discussione che il Mondo fosse stato creato da Dio in sei giorni, d’accordo con la Bibbia. Nel IV sec. il vescovo greco Eusebio di Cesarea, uomo di fiducia dell’Imperatore Costantino, utilizzando come fonte cronologica il testo biblico, calcolò che la data della creazione doveva essere fissata al 5199 a.C. Dopo gli scismi luterano e anglicano, la libertà di interpretazione delle Scritture spinse il clero protestante a nuove valutazioni, fu quindi ricalcolata la cronologia del Mondo e la versione che infine si impose provenne dall’Irlanda. Secondo il vescovo James Ussher, accanito avversario dei molti cattolici ancora presenti sull’Isola, tutto cominciò il 23 ottobre 4004 a.C., una data che egli ritenne ‘scientifica’, come poi argomentò nel suo libro Annales Veteris Testamenti, a prima mundi origine deducti del 1650. Tuttavia gli studi sulle rocce, i minerali e i metalli, dovuti alla necessità di conoscere con precisione la materia con cui si producevano gli oggetti e l’energia, impressero una svolta realmente scientifica alla comprensione della Natura e nel secolo successivo la geologia appare come scienza autonoma, il fondatore è comunemente riconosciuto nello studioso scozzese James Hutton (1726–1797). A lui si devono le ricerche che confluiranno nell’opera Theory of the Earth, with Proofs and Illustrations (Teoria della Terra, con Prove e Illustrazioni) pubblicata nel 1795, dove Hutton illustra i suoi innovativi principi.
Sebbene i creazionisti legati alla teologia cristiana opponessero una strenua quanto inutile resistenza, nel XIX secolo comincia a essere evidente a tutti i geologi che il nostro pianeta deve avere centinaia di milioni di anni e probabilmente miliardi; ma come classificare le diverse fasi osservate dalla neonata scienza della stratigrafia? Durante un congresso geologico a Bologna nel 1881, fu istituita la “Commissione internazionale per la nomenclatura”, antenata dell’attuale ICS, International Commission on Stratigraphy, fondato nel 1974 come costola dell’International Union of Geological Sciences (IUGS). Lo scopo dell’ICS era di descrivere la storia della Terra, dei suoi 4,6 miliardi di anni messi in ordine cronologico su una ‘mappa’ chiamata International Chronostratigraphic Chart (ICC).
Dunque, il dibattito per modificare il ‘calendario geologico’ è affidato ai membri dell’ICS, i quali, una volta trovato l’accordo, passano l’emendamento all’IUGS che similmente alla nostra Corte Costituzionale e con la medesima autorità suprema, ratifica la nuova epoca. Una volta accettato il concetto, la questione definitiva è: quando comincia l’Antropocene?
Dalla pubblicazione dei primi articoli negli anni dieci, il neologismo ha infine visto riconosciuta la sua necessità esplicativa. Nell’aprile 2019, il gruppo di ricerca dell’ICS ha votato e quasi il 90% dei membri s’è trovato d’accordo: la data d’inizio deve essere fissata alla metà del XX secolo. La discussione va avanti, in attesa che si giunga all’approvazione definitiva da parte dell’IUGS. La principale obiezione è determinata dall’idea di Tempo propria della geologia per cui questa guarda con sospetto all’effimera durata della presenza umana sulla Terra: i Sapiens, nella forma attuale, sono un accidente da non più di 40mila anni. Dal punto di vista della scienza la scala di misura è nell’ordine di milioni di anni, il concetto appare dunque ‘antropocentrico’ e ciò comporta problemi che dovranno essere dibattuti.
Nel corso degli oltre quattro miliardi di anni della sua storia, la Terra ha conosciuto cinque estinzioni di massa delle quali in molti conoscono l’ultima, la più rievocata in televisione, quella che ha determinato la scomparsa dei dinosauri, insieme a più del 70% di tutte le specie viventi, ma è stata la terza in cronologia la più distruttiva. Un insieme di eventi catastrofici, fra cui il radicale cambiamento climatico con la conseguente mutazione delle correnti oceaniche, circa 250 milioni di anni fa causarono l’estinzione di oltre il 90% delle forme di vita, delineando per i geologi la fine del Permiano e la soglia del Triassico. Si stima che per riprendersi, tanta è stata la devastazione della biodiversità, il Pianeta abbia impiegato dieci milioni di anni; secondo alcuni sarebbero occorsi invece fino a trenta milioni di anni per tornare ai livelli precedenti. Come che sia, nessuna forma di vita ebbe coscienza degli eventi, per giungere a un’autoconsapevolezza la Terra dovrà attendere la comparsa di gruppi di Primati in Africa, detti Homo, la cui lunga e complessa evoluzione attraverso oltre due milioni di anni concepirà noi Sapiens, in particolare sarà un insieme di organi contenuti nella scatola cranica, l’encefalo, a fare la differenza.
L’unicità della nostra specie, autocosciente e parlante, è ciò che permette in questo principio del XXI secolo l’articolato ragionamento scientifico da cui dipende il concetto di Antropocene, e dunque la comprensione dell’ecosistema nel quale viviamo, l’analisi dell’impatto che abbiamo avuto su di esso, compresa l’avvertenza del rischio di una nostra estinzione in caso di catastrofe ambientale. Proprio quest’ultima stima è considerata da una parte dei geologi come un bias antropocentrico nella teoria, generato da uno sguardo sbilanciato sul Tempo umano, poiché le decine di migliaia di anni umani sono comparabili a una manciata di minuti rispetto alla scansione temporale geologica. C’è poi un’altra questione da tenere in conto. Dal punto di vista della storia della Terra – come s’è visto per le cinque estinzioni di massa – l’eventuale ‘autodistruzione’ di Homo sapiens che trascinerebbe con sé moltissime forme di vita e interi ecosistemi, sarebbe, in effetti, poca cosa.
I dinosauri furono gli animali che ‘dominarono’ il Pianeta per 160 milioni di anni fino al collasso del Cretaceo, quando un bolide astronomico penetrò nell’atmosfera impattando l’attuale area della penisola dello Yucatán. Oggi il Mondo è brulicante di vita e come mostrano decine di documentari, disseminato di luoghi straordinari, possiamo dunque essere certi che superata la nostra scomparsa e i suoi effetti, un nuovo equilibrio si affermerà seguitando il processo evolutivo. Finché qualche nuova forma di vita intelligente, dopo milioni di anni studierà le sei estinzioni di massa e nell’ultima racconterà di una specie molto evoluta tecnologicamente che fu capace di scatenare una catena di disastri, fino a autoestinguersi.
Secondo una parte dei geologi, non dobbiamo essere noi qui e ora a stabilire il 1950 come inizio convenzionale dell’Antropocene, bensì i colleghi di un futuro più lontano perché lo sguardo antropocentrico in questo momento potrebbe sovrastimare i dati scientifici. Gli stessi studiosi della Terra, d’altra parte, avvertono che la specie umana non può sfuggire alla catastrofe, giacché conviviamo da millenni con una decina di supervulcani, le cui esplosioni sappiamo essere assai più distruttive dell’impatto di un grande meteorite. Uno di questi supervulcani, il più temibile per gli effetti globali, è lo Yellowstone, che esplode ogni 600mila anni e l’ultima volta è accaduto giusto 600mila anni fa. La domanda perciò non è ‘se’, ma ‘quando’ accadrà. Non possediamo le conoscenze scientifiche per rispondere con precisione, tuttavia sappiamo che il lungo ciclo di ‘ricarica’ si è concluso e prima della grande deflagrazione potrebbero passare ancora 1000 anni o magari solo 50.
Tutto questo è di certo, inevitabilmente antropocentrico, dacché l’umanità non può non manifestarsi come tale e hanno ragione coloro che lo evidenziano, tuttavia ciò non può costituire un limite operativo perché se vogliamo scansare un’inquietante schizofrenia, non possiamo negare noi stessi come specie. Allora, in quanto umani dobbiamo essere anche avvocati, non solo giudici, altrimenti il giudizio sarebbe appeso al di là dell’essere umano, lo trascenderebbe e la motivazione della sentenza ricorrerebbe ad argomenti metafisici, religiosi, teologici, in cui la Natura ha necessariamente origine da un atto ‘creativo’.
Se alla fine sarà approvato l’ingresso nell’Antropocene, significa che il nostro riconoscimento dell’antropocentrismo è divenuto critico, esaurientemente consapevole, cioè il nostro abitare il Mondo deve essere essenzialmente degerarchizzato in virtù della comprensione di essere noi solo uno dei tanti pezzi del puzzle, senza particolari pretese metafisiche, ovvero mandati divini e farneticazioni ideologiche.
L’Antropocene incorpora quindi la cultura scientifica dell’ambientalismo e l’antropocentrismo critico, perché riconosce il nostro recente passato e presente come potenzialmente suicida, esito radicalmente opposto al primordiale istinto di autoconservazione specifico della vita, perfino quella dei virus…
Abbiamo il diritto di pensarci nel futuro e il dovere verso la nostra discendenza di attivarci per allontanare la catastrofe che abbiamo innescato. In virtù del nostro essere l’unica specie autocosciente, capace di un linguaggio altamente complesso attraverso il quale siamo evoluti diventando oltremodo adatti a organizzare comunità sempre più raffinate, socialmente e tecnologicamente, non possiamo fingere di non sapere. Per questo Jason W. Moore, storico dell’ambiente e docente di economia politica, sostiene che il termine più corretto da usare sia piuttosto Capitalocene.
Ma questa, è un’altra storia.